Votes given by Joo-hyuk Kwon

  1. .
    funebre- il tentativo di avvisare un amico di un panda vagante e poi il tonfo. Quello era stato il primo peccato, il secondo arrivò subito dopo nel tentativo di fingere che non si fosse fatta niente, ignorando le fitte acute che provenivano dall’articolazione. Il terzo fu di perdersi per un attimo soltanto in quello sguardo oscuro, in quel ritorno alle terme della riserva delle creature. Tornare alla realtà solo perché O’Connor le aveva sventolato davanti una mano neanche fosse stata un toro a seguire il movimento del drappo rosso sventolato davanti agli occhi fu una caduta di stile. «Ci sono, ci sono», mugugnò, servendosi del suo braccio per sollevarsi e tentare di rimettersi in piedi. «Lo sai che so ancora essere quella bambina petulante, vero?» Lo minacciò, con l’opale che sembrava quasi marcare il territorio con il suo confratello che li superò per raggiungere la Murphy che aveva preso letteralmente il volo. Era tutto così strano, come se si stesse perdendo pezzi di vitale importanza di un puzzle in cui forse compariva anche lei in un frammento. Si chinò per slacciare le stringhe dei pattini ma un’ennesima fitta di dolore la portò a smollare e a girarsi, a favor di ginocchio, con la gamba protesa su quelle di O’Connor. «Per favore», il labbro inferiore all’infuori, gli occhioni da cucciolo bastonato a cui mai aveva saputo dire di no. Okay, un’eccezione c’era stata ma così lontana nel passato e così seppellita in profondità che non aveva alcuna intenzione di scomodarne la memoria. Una mano poi lo fermò nel tentativo di infilarle le calzature, terminando il movimento con un principio di massaggio sul ginocchio. «Dammi qualche minuto», lo implorò, mugugnando qualcosa di incomprensibile persino a se stessa. Solo quando si sentì meglio, più sicura su quelle scarpe che aveva scelto inizialmente perché in perfetta combine con il suo abito, lasciò che Brooks indossasse le sue per seguirlo poi verso un posto tranquillo. «Alla faccia del posto tranquillo», mormorò, pensando a luoghi dove potersi infrattare e dare vita ai sogni romantici di una lei adolescente, ma lì in quell’incidente in corso non riusciva proprio a scostare lo sguardo. Kwon aveva seguito Erin, che aveva seguito Evans, che aveva seguito la Lynch che era stata aggredita da Cohen. Poi Evans aveva tentato di defilarsi salvo essere sbilanciato da una spallata tutt’altro che involontaria di Miller -«Vuol farci perdere punti anche a Natale?» fu il commento delle priorità della Davidson, con tanto di sollevamento occhi- che era andato da Lynch, che è stata baciata da Cohen che al mercato mio padre comprò. Era un vero banchetto su cui fiondarsi in merito ai gossip da contribuir a far circolare nel castello, così come Fitzgerald O’Connor che rifilava un due di picche al fratello -shame per la player- per seguire la Lestrange. L’assenza di Mc Callister iniziava a farsi sentire. Zoppicò fino ad una zona che le permettesse di vedere meglio -ma soprattutto di udire- ciò che sarebbe forse successo da lì a poco, soffocando una risatina al gesto di stizza di Deva per il tocco di suo cognato (bleah). «Ehi B, quando finisci vieni un po’ qui», non sapeva se avrebbe voluto parlare con Zuleyka e gli altri, ma ad ogni modo non voleva farsi sfuggire la possibilità di prendere in giro il suo gemello idiota.
    Amalea Davidson

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    Dioptase
    Corvonero

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    Fondamentalmente rompe il bip a Brooks.
  2. .
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    Brianna C. Scott
    Auror | 29 anni
    Su Brianna Scott se n'erano dette tante nel corso degli anni, ché chi l'aveva conosciuta si era divertito a spararne di cotte e di crude sul suo conto, pur di dare un'idea della ragazza che, il più delle volte per lo meno, non corrispondeva alla realtà.
    Nessuno dei suoi colleghi sapeva cose le fosse accaduto, la maggior parte l'aveva ritenuta morta per ben cinque anni, eppure il suo ritorno era stato accolto con relativa quiete, come se in fondo non vi fosse nulla di male a fingere la propria morte e a sparire senza lasciar traccia. Uno di quei colleghi ce l'aveva davanti, e Brianna si ritrovò a pensare che non ci fosse nulla di sbagliato o deplorevole in quell'atteggiamento di cortese indifferenza che, a ben pensarci, le aveva evitato un sacco di grane e spiegazioni.
    Non si poteva certo dire la persona più socievole dell'universo, lei, che a scuola si era limitata a frequentare la propria ristretta cerchia di amicizie e a lavoro, se non si considera il caffé - o la cioccolata calda - del momento, non si avvicinava a nessuno se non a Xander. Il fatto che il parabatai fosse una di quelle vecchie e care amicizie dei tempi della scuola la diceva lunga sulla tendenza della Scott ad approcciare gli estranei.
    Fu per quel motivo che lo lasciò parlare, restando in silenzio mentre lo accompagnava con lo sguardo in elucubrazioni piuttosto sensate, ma a suo parere abbastanza lontane dalla realtà dei fatti. Non escludeva niente, la scozzese, ma in quei pochi anni di esperienza aveva imparato a non dare mai nulla per scontato: l'ovvio come tutto il resto.
    Accettò il bicchiere che Kjell le porse e ne annusò il contenuto, storcendo il naso. Era acquavite decisamente scadente in confronto al whisky che aveva nel suo ufficio, ma in genere niente era meglio del whisky, l'unico vezzo che si concedeva di tanto in tanto.
    Bevve un sorso per banale educazione, poi abbandonò il bicchiere sulla scrivania, sorvolando per un momento con il profilo del busto il corpo del collega. La chioma ramata scivolò lungo la spalla sinistra e sfiorò il braccio dell'uomo, scoperto dall'abbigliamento primaverile per cui aveva optato, a differenza sua.
    Tornò in posizione eretta incrociando le braccia al petto, lasciando che il dolcevita color ardesia si tendesse sulla muscolatura in fase di ripresa.
    «Mi sembri esausto.» Rispose con un mezzo sorriso a quella domanda a cui non ebbe paura di dare un esito. Brianna era una di quelle persone che tendeva a dar voce alla verità a discapito di qualunque emozione conseguente nel cuore di chi quella verità la pretendeva. Eppure negli ultimi anni aveva imparato a usare il tatto, quello sconosciuto.
    «Trovo più probabile che tentino di incastrarlo.» Ammise stringendosi tra le spalle, intenzionata a chiudere quella giornata di lavoro per entrambi. Se c'era una cosa che aveva imparato nelle vesti di un'altra persona, era che sarebbe stato impossibile iniziare qualcosa di nuovo con il passato a bussare incessantemente alle porte della mente e del cuore.
    «Ti va di andare a bere qualcosa? Di decente, intendo.» Commentò rivolgendo un'occhiata piuttosto esplicita a ciò che l'altro le aveva così gentilmente offerto.
    Fece un passo indietro, quasi a voler adescarlo per attirarlo a sé, costringendolo a una pausa forzata che forse avrebbe consentito a entrambi di ricordare cosa volesse dire vivere.
    RevelioGDR
  3. .
    Se le parole avessero potuto uccidere, Amalea sarebbe stata colei che aveva sparato dritto al cuore del sudcoreano, e lui quello che aveva risposto con altrettanta prontezza. Otto parole avevano cambiato la storia che aveva ricamato su di lui, in poche battute: un figlio amato, desiderato, prezioso. Il ghiaccio che aveva permeato quelle poche battute era impossibile da non avvertire, molto più intenso della pioggia di novembre che li avrebbe colpiti in pieno se non ci fossero state le cupole magiche a proteggerli. La bocca improvvisamente asciutta, le iridi ad ancorarsi a quegli occhi dalla forma così poco diffusa su quell’isola: due pozze nere in cui si sarebbe persa più volte. Lì, quel buco nero in cui si erano trasformate, riusciva a scorgere solo qualcosa di insoluto e doloroso. Non insistette oltre, non chiese spiegazioni o pretese di bruciare tappe così velocemente. Sperava ci sarebbe stato del tempo, in futuro, per lasciarsi andare in confessioni altre che non ricadessero nella sfera meramente adolescenziale. Quello era materiale incandescente e distruttivo pari alla colata di lava di un vulcano semidormiente. Non poteva risvegliarlo proprio ora. Batté in ritirata, tirandosi dietro persino l’uscita a domanda sul piacere di conoscerlo. Non poteva certo dirgli che per lei lo fosse, non se non voleva risultare stramba più del solito.
    Lo dimostrò comunque dopo, seguendolo sotto la pioggia, rallentandolo malamente nella fuga e recuperando punti nel tentativo di affogarlo. Totalmente all’oscuro degli altri pensieri che animavano il ragazzo, Amalea si limitava a galleggiare, dandogli fastidio nello stesso modo che avrebbe fatto a cinque anni, non così lontana dalla riva, con altri bambini della sua età. Non sapeva che lui vedeva nello scontro involontario dei loro corpi qualcosa di sensuale, una scintilla che avrebbe potuto accendere la lussuria e la brama oscura di lui. Le sfuggì, nel più vile dei modi, allontanandosi sott’acqua e riemergendo come uno Smeagol qualunque. Con un po’ di carne e capelli in più. «A base vegetariana?» Si risparmiò eventuali riferimenti a piatti d’argento luccicanti, puliti un po’ con olio di gomito ed un paio di incantesimi di pulizia. Sollevò gli occhi alla sua provocazione, scuotendo la testa ma senza avere l’effetto swish che desiderava: la chioma era completamente attaccata al cranio, complice il periodo trascorso sott’acqua. Ne copiò la tecnica, immergendosi solo per comparire davanti a lui, le labbra a sfiorare il velo leggermente torbido e caldo delle terme. «Che tu non sia affogato non lo trovi un motivo abbastanza valido?» La mano uscì dall’acqua, il medio ed il pollice uniti fino all’altezza della fronte di lui. Lasciò andare la falange più lunga e, qualora non si fosse scostato, l’avrebbe colpito nel bel mezzo del solco tra le sopracciglia scure. Il suono martellante della suoneria del suo magifonino raggiunse i due, nonostante avesse lasciato il manufatto di alta magingegneria al sicuro nel suo zaino sotto il tavolo da pic-nic. Non si sarebbe curata di chi fosse a cercarla se non fosse stata per quella canzone strumentale di un brano di una rock band babbana che aveva associato al contatto di Brooklyn O’Connor, il suo ragazzo. «Devo andare, ma il nostro gioco di vendette non finisce mica qui, Giù-yo». Un sorriso prima di voltargli le spalle, un paio di bracciate a guadagnare l’uscita e poi morire di freddo nel breve tragitto che la divideva dalle panche magiche, con il pensiero rassicurante di essere riuscita ad ottenere un pigro sorriso di Kwon in meno di un’ora. Non osava immaginare cosa avrebbe potuto ottenere trascorrendo maggior tempo insieme.
    Amalea Davidson

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    Dioptase
    Corvonero

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  4. .
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    Blake Barnes
    Black Opal | 20 anni
    La caratteristica principale di Blake era il fatto di essere contraddittorio e coerente allo stesso tempo. Era fatto in una maniera tale che ogni sua contraddizione, e ne aveva tantissime, lo rendevano una persona così coerente che non sapeva neanche lui come si poteva non amarlo, oppure odiarlo, quello dipendeva. Una cosa era certa, Blake non lasciava nessuno indifferente, se lo si amava lo si amava per davvero, se no lo si detestava e lo si faceva con tutto il cuore. La cosa ancora più divertente era che Blake provava quei sentimenti contrastanti, costantemente, anche per se stesso. Ma sorrise a quello che disse il sud coreano. Lilith va d'accordo con tutti, specialmente se sono persone intelligenti! La conosceva così bene che lo poteva affermare con una certa fermezza. Forse si era concentrato più a conoscere ed osservare la riccia che se stesso, ma anche quello non era un qualcosa di cui discutere in quel momento, anche perchè l'affermazione/ domanda che fece quel ragazzo lo fecero scoppiare in una risata cristallina. Non lo stava prendendo in giro e trovava la sua domanda anche molto interessante, ma si capiva che non lo conosceva per niente, il che era soltanto un bene per lui. Si, stavamo insieme. Non la sto sponsorizzando, ti sto solamente dicendo delle cose vere e facilmente costatabili da tutti. Inoltre, solo perchè siamo stati insieme, non vuol dire che io debba avere un brutto ricordo di lei, anzi. Forse il fatto che non stiamo più insieme, per lei, è solamente un bene. L'ultima frase venne detta con un tono più di rimprovero e malinconia da parte del biondino che altro. Alla fine Blake amava davvero Lilith ma quello non era proprio il periodo migliore della sua vita, senza contare che l'aveva tradita, l'aveva fatta stare veramente male e quello non se lo sarebbe mai perdonato. Ma il velo di indifferenza e menefreghismo che aveva addosso era la sua maschera miglire. Quindi tu sei uno di quelli che quando si lascia con una persona, la cancella e conserva solamente il male che gli è stato fatto? Chiese a sua volta. Interessante quel primino, forse doveva smetterla di farsi tentare dalle ragazzine e conoscere persone che potevano dargli davvero qualcosa, ma era dannatamente difficile, un sorriso verso una ragazzina gli scappò, come se fosse abituato a farlo. Poi tonrò sull'opalino e la sua domanda. Penso che siano i miei comportamenti un pò fuori dagli schemi a dirlo. Inoltre se c'è una cosa che odio davvero tanto è essere paragonato agli altri, o che qualcuno mi associ a comportamenti che hanno tutti. L'unicità e l'originalità sono sempre state le mie priorità assolute. Era sincero. Poteva davvero definirsi come aveva fatto il ragazzo: "un groviglio di sfacciata sincerità con due gambe". Lo era davvero e non si era mai nascosto ne da quello che era, ne da quello che faceva. Blake si prendeva sempre i suoi oneri ed onori, anzi spesso e volentieri rivendicava le sue azioni come se fossero qualcosa di prettamente giusto. In realtà delle volte faceva delle cazzate primordiali, aveva uno scarso senso della sopravvivenza e non sapeva neanche dove stesse di casa l'autoconservazione, ma non era un vigliacco. Quello mai. Non vai d'accordo con la gente, oppure non ti importa neanche di provarci? Chiese. Ecco, poi aveva questo suo modo di riuscire ad entrare in confidenza anche con le persone che non aveva mai visto che quasi lo spaventava. Ma era qualcosa che gli piaceva terribilmente.

    RevelioGDR
  5. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Arriva sempre, inevitabilmente, quel momento nella vita in cui la bolla di ingenuità ed ottimismo finisce per rompersi. È naturale, fisiologico, il normale scorrere degli eventi, quel salto nel vuoto che fa diventare grandi con la brutalità di uno sport estremo.
    Erin non aveva mai sofferto di vertigini, eppure in quel momento sentì la testa girare e lo stomaco rivoltarlesi nelle viscere.
    Assorbì le parole di Elisabeth Lynch con ogni fibra del proprio corpo, condannata da un’empatia che non rispondeva ad alcun controllo, che famelica si impossessava di ogni percezione circostante mescolando l’essenza di lei a quella di chiunque altro intorno gioisse o soffrisse. Finivano per sfumarsi i contorni di se stessa, ed Erin sentì quel che l’altra sentiva.
    Ma se in ogni salto nel vuoto prima d’allora c’erano state due braccia ben precise ad afferrarla al volo, quella volta l’impatto fu rovinoso. Non furono le risposte di Elisabeth, né il bellicoso tamburellare di un apparato cardiaco impazzito, fu invece la voce aspra e severa di chi a lei in quel modo non aveva mai osato rivolgersi.
    Erin, piantala.
    Un fischio sordo nelle orecchie, un soffio di fiato ad incastrarsi in gola, e tutte le ossa della sua anima che andavano miseramente in frantumi allo schianto sul terreno.
    Il braccio teso ricadde lungo il corpo, le pupille ridotte a due punti spaesati nel paradossale verde rigoglioso delle iridi, e la lingua che le si incollava irrimediabilmente al palato senza più mostrarsi disposta a proferir parola.
    Non sentì nient’altro, nonostante fosse abituata ad ascoltare, guardò Joshua farlesi più vicino ma non lo vide, rapita da un’unica eco ridondante tra le tempie bollenti:
    Erin, piantala.
    La spazientita stizza che si rivolge al cane indisciplinato mentre infastidisce un ospite con cui si vuol fare bella figura, quella la percezione che le si solidificò addosso man mano che lo stridio di quelle sillabe le veniva risputato contro dalla propria coscienza. Non era ancora pronta a capire che qualcosa di prezioso si era appena rotto per sempre tra di loro, ma era abbastanza lucida da sapere cosa significasse non riconoscersi in quel comportamento. Non riconoscere lui. Non riconoscere quel che erano sempre stati.
    Desiderò attribuire ogni colpa al terzo elemento presente, un vertice portante di quella figura geometrica che per Erin cominciava a distorcersi, psichedelico riflesso della tempesta emotiva che le invadeva il petto e le viscere tutte. Guardò Elisabeth con la più folle brama di egoismo e risentimento, sentimenti di cui per natura ahilei era sprovvista, strizzò ogni fibra del proprio fegato in cerca di qualche goccia di bile utile a ristabilire la dignità che Joshua le aveva appena calpestato, eppure non trovò nulla di abbastanza utile, solo la distanza tra l’orlo del precipizio su cui si trovavano loro e l’abisso in cui lei invece era già precipitata.
    Osservò le spalle di Joshua richiudersi protettivamente verso la Lynch, le sue labbra scandire promesse che per lei erano tizzoni ardenti; in uno spicchio temporale alterato la figura riccioluta di Julian Miller urtò il corpo di colui che somigliava solo lontanamente al compagno delle sue estati, non avrebbe saputo dire quando accadde o perché, ma quel vorticante precipitare delle cose le costò una vertigine più forte che la fece indietreggiare di un passo.
    «Julian... non...»
    Si può cadere ancora dopo aver toccato il fondo?
    Erin, piantala.
    Il tocco di una mano sul braccio come il richiamo dei soccorsi dall’alto, e poi la presa più ferma sul polso che era la fune a cui aggrapparsi per tentare una risalita. Non era Joshua, non era la propria coscienza, solo l’essere umano più puro che le fosse mai capitato di meritare sul proprio cammino.
    Gli occhioni umidi incontrarono le dita di Joo-Hyuk mentre un brivido di infantile conforto scendeva come camomilla sulle sinapsi impazzite. Non aveva davvero sperato di poter contare sulla sua sorveglianza, eppure adesso sembrava rivelarsi l’unico elemento famigliare cui appigliarsi in un’orda di distruzione ed improvvise incertezze.
    Ancora un passo indietro, il corpo che voltava lentamente le spalle a qualsiasi cosa sarebbe accaduta al resto del gruppo, e a lui. Era la prima volta che lo faceva, la prima occasione in cui preservare se stessa sembrava essere più urgente che raccogliere i pezzi delle vite degli altri.
    Avrebbe sperato che Elisabeth ritrovasse il benessere, che Joshua le perdonasse quell’indebita invasione, ma lo avrebbe fatto solo dopo essere riemersa da un’apnea che minacciava di soffocarla.
    «P-possiamo prendere un po’ d’aria?»
    Lo soffiò al Black Opal mentre arrampicava su di lui uno sguardo straniato e confuso, la mano che cercava la sua con dita esageratamente tremanti e gelide come stalattiti.
    Avrebbe fatto in modo che tutti stessero bene, proprio come sempre, ma non avrebbe potuto farlo senza prima esser tornata a respirare.


    RevelioGDR

    E niente, morte fu.
  6. .
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    Brianna C. Scott
    Auror | 29 anni
    Ammirare il proprio riflesso era ancora più difficile di quanto avesse preventivato. Riconoscere quella folta chioma ramata e le iridi sporcate di ghiaccio era nulla se paragonato all'evidente fatica di far corrispondere ciò che vedeva a quel che sapeva di essere, celato per quasi cinque anni per paura di essere scoperta.
    Il sapore della Polisucco era diventato quasi inebriante. Una necessità, la sua, di prenderla ogni mattina prima di andare a lavoro.
    La voce dura e a tratti acuta di Claire che strideva con quella più bassa e dolce che l'aveva accompagnata per anni, una spanna di centimetri in più a sollevarla da terra e una rigidità a cui non era abituata fino a quando non fu indispensabile acquisirla l'avevano accompagnata per anni, garantendole di poter sopravvivere.
    Venire a conoscenza del fatto che fosse tutto finito aveva spezzato una fastidiosa routine che per lei aveva assunto il valore di una nuova vita. Aveva anelato per mesi a tornare a casa, a poter sentire nuovamente la sensazione di essere riconosciuta e amata come un tempo, ma il tutto si era risolto in una sensazione di inadeguatezza: si era immedesimata talmente tanto nella vita e nelle abitudini di Claire, che non sapeva più come essere se stessa.
    Brianna Scott era tornata col botto, un'esplosione di gioia che aveva travolto sua madre riportandola alla vita. Nessun altro aveva più saputo niente, nessuno di coloro che avrebbero dovuto essere informati della cosa non appena resa pubblica.
    Ci avrebbe pensato lei, si era detta, arrivando ad affrontare le persone a lei più care con le giuste accortezze. Non sopportava l'idea di dirlo a Eilidh per telefono né di guardare Annie sapendo di poter essere chiamata in missione in qualsiasi momento.
    Aveva bisogno di tempo, spazio e modo. E non appena avesse concluso il lavoro sarebbe tornata da loro.
    Sospirò nel leggere il biglietto lasciatole da uno dei due colleghi con cui seguiva il caso del serial killer. Era talmente tardi che incrociare qualcuno nei corridoi del Ministero sarebbe stato impossibile, ma era evidente che in Norvegia gli auror avessero ritmi ben diversi dagli inglesi.
    Non le dispiacque. Si era resa conto che tornare a quel lavoro dopo quasi cinque anni di inoperosità era stato più dura del previsto, tenersi in continuo allenamento e scambiarsi opinioni con coloro con cui lavorava a stretto contatto era una manna dal cielo e in quei giorni scelse di non fare altro. Mangiava poco, dormiva ancor meno del necessario e pensava.
    Giunse appena fuori dall'ufficio di Halvorsen e sentì un colpo secco provenire dal suo interno. Si affacciò solo per controllare di non essere sul punto di interrompere qualcosa e, dallo spiraglio della porta, lo vide puntare la bacheca che raccoglieva gli indizi del caso. Rimase nell'ombra a osservarlo, lo vide cercare ciò che stava rendendo la vita un inferno a tutti loro. Lo sentì imprecare, lo vide bere e alla fine fumare, sorprendendosi del fatto che fosse ancora in piedi.
    Bussò e spalancò di poco la porta, lasciandosi notare dal collega.
    «Ed io che credevo che tutto questo ti annoiasse.»
    Le labbra disegnarono un lieve sorriso sul volto stanco, mentre attendeva l'ok dell'altro per poter mettere piede nel suo regno.
    Aveva letto e riletto il biglietto, aveva tentato di individuare un singolo motivo che la portasse a distanziarsi dalle ipotesi di Kjell, ma alla fine aveva dovuto concordare con lui sull'eventualità che quell'ipotesi fosse più che solo quello.
    «E' pericoloso.» Iniziò, incamminandosi verso la bacheca da cui estrasse il coltellino. Se lo rigirò tra le dita della mano destra guardandolo con attenzione, studiandolo, come nel tentativo di trovare su di esso qualche indizio. Sollevò lo sguardo sull'uomo solo quando gli fu sufficientemente vicino da percepirne con chiarezza l'odore che esulava da quello più acre del fumo. «Accusare Shipman, intendo. Se sbagli finiamo tutti nei guai.»
    Non che la cosa le avesse mai creato problemi.
    RevelioGDR
  7. .
    Ensor le metteva ansia. Lo sguardo gelido come la temperatura che si respirava nell'aula, la perenne sensazione di essere condannata a morte per un sospiro di troppo o per uno starnuto che non si è riusciti a neutralizzare. Un'ora nell'aula di difesa equivaleva a cinque trascorse sul ciglio di una superstrada, bendata, a giocare a mosca cieca. Per fortuna che non sarebbe stata da sola, il suo ponte aveva già dato appuntamento alla fine delle scale. Non era poi così lontana, giusto un paio di rampe c'erano a dividere l'aula di Difesa e la biblioteca, una scelta infelice visto che lasciare il tepore che si trovava in sala lettura sarebbe stato un suicidio in condizioni normali per una giornata invernale come quella, figurarsi quando di mezzo c'era quell'aula malvagiamente modificata con la magia.
    Il sorriso di Brooks fu impossibile da non replicare sul suo viso, ancor di più quando vide un tortino cioccolatoso essere sventolato sotto il naso. Era già pronta ad imbrattarsi di crema, briciole e glassa ma lui fu più lesto nel rubarle un bacio. «Te ne avrei dati altri cento e non solo per questo», chiarì, affondando gli incisivi nel dolcetto morbido, lasciandosi andare in un piccolo gemito di gusto. Con il dorso della mano si ripulì delle briciole mentre le tasche di Brooks rivelavano essere simili a quelle di un prestigiatore babbano. Un modellino questa volta di una scopa volante in miniatura sospesa su un piccolo piedistallo di marmo. Gli ripassò il dolce, lasciandogli intendere anche di poterlo finire lui, mentre studiava il pensiero del padre di lui. «Se tuo padre non avesse sposato tuo padre lo avrei fatto io», dichiarò, sollevando l'oggetto fino ad intravedere una scritta sotto la piattaforma. D-A-N-N-A-Z-I-O-N-E non le diceva di essere innamorato di lei a chiare lettere ma lo lasciava intendere con quelle frasi che aveva iniziato a custodire gelosamente. Mise al sicuro il dono e poi gli si buttò addosso, scontrandosi con il muro ma poco importava mentre lo baciava. Un bacio lungo, pieno e che aveva sollevato qualche fischio tra i passanti. Diverse tonalità di rosso colorarono le guance, non era una di quelle che amava le pubbliche dimostrazioni d'affetto ma in quel caso due erano le soluzioni o assaltarlo o rivelargli i suoi sentimenti e per la seconda non era ancora pronta a vuotare il sacco. «Oh, ehm, sì, freddo» non si era resa conto di aver perso un po' di colore recentemente acquisito mentre il pensiero sfiorava il fatto che in qualche modo erano ancora restii. E se lui non la voleva davvero? E se stava con lei solo perché al momento non aveva di meglio? E se... si riscosse davanti la salamandra con il suo nome pronunciato veloce -«Amalea Davidson»- per non perdere il suo turno d'ingresso. Per fortuna che aveva anche il mantello di Brooks oltre al suo, perché le nuvolette che esalavano dalla sua bocca erano dense. «Non sapevo che la crisi energetica fosse arrivata anche qui». In realtà disse un «salve, professor Ensor», seguendo O'Connor al posto ma sventolando una mano -con non troppa enfasi come avrebbe fatto altrove- verso Joo-Huyk.
    Sentiva gli interventi degli altri, con le spalle irrigidite -aveva ridato il mantello al fidanzato perché non voleva avere sulla coscienza una morte per assideramento- e lo sguardo confuso, finendo con il sollevare anche lei la mano. «Amalea Davidson», qualche suo compagno aveva solo accennato poco o molto di folkloristico il rapporto che i goblin avessero con le donne umane e con quelle della loro specie, così pensò di dire anche la sua. «I goblin sono conosciuti per la loro barbarie e la loro vena da torturatori, seviziatori e stupratori del genere femminile. Amano i ratti -non i topi, ma il rapimento- al solo scopo di riprodursi il più possibile e nel minore tempo, rendendo le donne, le goblin e le altre razze nel loro sesso femminile come schiave, fino alla loro morte».
    Amalea Davidson

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    Dioptase
    Corvonero

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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor, saluta Joo-hyuk Kwon e risponde alla domanda.
  8. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Degli uomini ci si può approfittare a volontà, ma con le donne non bisogna tirare troppo la corda. Perché la donna, in fondo al cuore, desidera sempre dire la verità. Quanti mariti ingannano la moglie portandosi il segreto nella tomba? Quante mogli ingannano il marito e poi gli rovinano la vita sbattendogli in faccia la verità? E lo fanno perché qualcuno ha tirato troppo la corda. Seguendo un impulso improvviso (del quale si pentiranno, bien entendu), dimenticano ogni prudenza e si ribellano, proclamano la verità concedendosi un grande sollievo momentaneo.
    Accartocciata sulla propria spina dorsale, Erin si era tirata le ginocchia al petto incastrandole contro il bordo del tavolo che occupava, una mano a sorreggere il libro e l’altra impegnata a limitare l’avanzata sul viso di qualche ribelle ciocca rossa smossa dal vento. Amava perdersi nei pensieri d’altri tempi che incontrava inchiostrati sulle pagine dei propri libri, ancor più quando questi sembravano pizzicarla nel profondo dell’inconscio costringendola a soffermarsi su questa o quella riflessione.
    Fu in quel nugolo di pensieri che comparve la limpidezza della voce gentile di Joo-Hyuk, leggera e morbida nonostante la sua figura avesse letteralmente appena fatto irruzione nel più intimo spirito dell’irlandese. Erin, d’altro canto, non esitò a sollevare gli occhi nei suoi per restituirgli un sorriso caldo quanto il sole d’agosto.
    «Esattamente!» Una voce pulita e sicura, nonostante il volto si immobilizzò d’esitazione subito dopo. «...Sempre che tutto stia andando secondo i piani.»
    Sporgendosi in avanti avvicinò un occhio ad una delle fessurine intagliate nella scatola, quasi bastasse uno sguardo ad assicurarsi che la lucertola pietrificata non fosse ancora morta asfissiata. Soddisfatta da quell’analisi amatoriale, tornò piuttosto a riservare la dovuta attenzione alle parole del Black Opal, uno spunto il suo che sembrava dover essere tutt’altro che casuale.
    «Da queste parti non sembra esserci un buon rapporto con le differenze in generale.» Fece spallucce, quasi dovesse scusarsi lei per delle tradizioni che neanche le appartenevano. «Io sono abituata a rispettarle.»
    Aggiunse con noncuranza, disinteressata a porsi al centro di qualsivoglia merito esattamente come in qualsiasi altro aspetto della vita. Viveva di comprensione ed inclusione fin da che aveva memoria, non ne aveva mai fatto un vanto né qualcosa potenzialmente enfatizzabile.
    Richiuse il libro sospendendo con esso persino la citazione della Christie su cui si era concentrata poco prima, ma ebbe l’impressione che non fu quel gesto a far virare l’attenzione di Kwon sulla sua lettura, sembrava piuttosto che l’attenzione dell’altro cadesse con estrema facilità su quei dettagli davanti ai quali la maggior parte dei coetanei si mostrava indifferente.
    «Oh, è L’Assassinio di Roger Ackroyd.» Lo strusciò sul tavolo per riporlo da parte, prima di accennare un sorrisino a metà tra il vispo e l’impacciato. «Lo so, è strano, ma ti assicuro che il suo sarà l’unico cadavere su questo tavolo.»
    Si sarebbe presupposto di lei che leggesse fiabe e romanzi rosa, guardandola, il fascino degli enigmi da risolvere non sembrava dover appartenere ad un animo tanto puro e genuino: solo il tempo avrebbe svelato quanto Erin Murphy non fosse altro che la punta del suo stesso iceberg.
    Recuperata una posizione più consona sulla seduta, indicò a Joo-Hyuk una delle altre poltroncine in ferro battuto, quindi spinse verso di lui una tazza ancora miracolosamente fumante di tè verde.
    «Dovrebbe essere ancora caldo.»
    Impugnò a propria volta il rispettivo recipiente, e riprese a parlare solo dopo aver scaldato l’esofago con un paio di sorsi bollenti.
    «È per la religione, quindi?» Indicò il tomo di Alchimia con un gesto distratto. «Ti va di spiegarmelo?»
    Era abituata a rispettarle, le differenze culturali, ma v’era un lato estremamente scalpitante nel suo spirito che era anche costantemente spinto verso nuove conoscenze. Qualsiasi cosa riguardasse l’ignoto o il non-ancora-svelato, era per Erin una fonte inestimabile d’attrazione.


    RevelioGDR
  9. .
    Brooklyn avrebbe fatto meglio a dire addio a tutti i suoi capi, soprattutto quelli preferiti, con la restituzione della refurtiva solo dietro compenso salatissimo. Adorava infilarsi una delle sue felpe, allungare le maniche e affondare il naso nella stoffa con il cappuccio a coprirle gli occhi. Fosse stato per lei sarebbe andata a quel ballo con un paio di jeans ed una di quelle calde morbide e comode felpe, senza doversi mettere un paio di tacchi ammazza caviglie. Peccato che non saranno quelli a causarle una caduta, ma su quello torneremo più tardi.
    Lo spirito natalizio di O'Connor era contagioso, così come la sua voglia di condividere e sorprendere, cosa che riuscì a fare per l'ennesima volta, addirittura immortalandolo in una sequenza di foto di cui avrebbe preteso una copia, invitandola a Parigi. E non in un periodo qualunque. «ODDIO, SEI SERIO?» Probabilmente il suo grido l'avrà reso sordo da un orecchio per un po', ma poco importava quando da lì a poche ore invece di tornare ad Ayr con ancora i drammi della sorella fantasmi alla loro tavola sarebbe andata nella città dell'amore. «Eh? No, Brooks, non è mai banale la meta», ancora abbracciati sotto al vischio i gridolini erano cessati per lasciare spazio ai sussurri, alle rassicurazioni e alla complicità che li legava da ben prima che divenissero una coppia. «Non sono mai stata a Parigi e sono convinta che ci divertiremo un sacco», già si pregustava una baguette smezzata al quartiere latino, un ritratto a Montmartre ed un salto a Disneyland, con il settore dedicato ai super eroi dove sarebbero stati capace di montare una tenda. «Il tuo regalo però dovrà aspettare», gli fece un occhiolino prima che venissero allontanati dalla campana vischiosa finendo con l'optare per un giro sul ghiaccio.
    E qui torniamo al problema della caduta. I due si erano presi in giro, richiamando i ricordi di una mattina in cui avevano deciso di provare lo spessore del ghiaccio che si era creato sul lago dietro casa dell'irlandese, con lei che era finita sedere all'aria e aggrappata a Ryan come facevano.i gatti quando venivano minacciati con dell'acqua. «All'epoca» -iniziò come se non fossero passati tre anni scarsi- «avevi ancora il moccio al naso», non è vero, aveva riempito un paio di diari con una sfilza di cuoricini in cui scriveva il suo nome per poi riempirli fino a non rivelare alcuna traccia di ammissione della sua cotta. «Sì, non cado più come un sacco di patate però sì, magari potremmo chiedere alla Preside di installare una pista di pattinaggio da qualche parte sull'isola». Ecco, le sue buone intenzioni avrebbero avuto un prosieguo se non avesse lasciato la sicurezza della barriera per richiamare l'attenzione dello straniero con cui si era trovata bene settimane prima. La botta fu dura ma non così tanto da provocarle qualche osso rotto o strappo di vestito, il che era da considerarsi una conquista. La risata che le sfuggì dalle labbra si unì a quella di Brooks mentre sollevava lo sguardo verso Kwon che si era affannato verso di lei, insieme ad un'altra ragazza, dimostrandosi gentile anche con due semplici parole. «Un panda volante!» fu invero la sua risposta, indicando Pixie che era ormai già atterrato in faccia alla sua padrona. Per un attimo aveva pensato di avere una commozione cerebrale, poi si era ricordata di essere caduta sulle ginocchia e non aver sbattuto la testa.
    Accadde qualcosa di strano, comunque: le due pozze (o)scure di Joo-Hyuk la inghiottirono come faceva un buco nero con pianeti, stelle ed intere galassie. Era successo anche in un altro momento e... la mano di Brooklyn entrò nella sua visuale, afferrandola e seguendo le sue istruzioni come un automa, sbilanciandosi un paio di volte ed aggrappandosi al suo braccio teso per non cadere di nuovo. Il tutto senza smettere di sentirsi osservata fino alla parte più profonda e piccola di lei. «Ehi, voi due, smettetela di prenderci in giro. Se solo volessimo vi faremmo mangiare il ghiaccio, vero Erin La rossa aveva un viso che ricordava le calde giornate primaverili, quelle con il venticello fresco ed il profumo dei fiori di camomilla appena sbocciati. «Sì, mi da solo un po' fastidio il ginocchio destro ma passerà presto» tranquillizzò il suo ragazzo, ma di fatto anche l'altro che era rimasto con loro, essendo abbandonato dall'altra ragazza che aveva raggiunto l'uscita su gambe molto più solide delle sue. «Bandiera bianca per me, ma voi se volete farvi qualche giro continuate pure, vi aspetterò qui» ed indicò la panca dove neanche cinque minuti prima si era seduta per indossare i pattini con la lama stretta. «Ouch», si lamentò, girando un po' troppo in fretta il piede salvo poi assumere l'andatura del bradipo -un piccolo avanzamento di punte alla volta- per ritornare verso l'apertura da cui pochi minuti prima era uscita anche la Murphy.
    Amalea Davidson

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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor, Joo-hyuk Kwon, Erin Murphy.
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    "Parlato" - 'Pensato' - "Ascoltato"

    Per lei non era nuovo aiutare qualcuno dei primi anni, lo aveva fatto da sempre, anche quando aveva poca voglia di farlo; tuttavia, sembrava quasi come se fosse diverso dalle altre volte, aiutare Kwon con il suo compito.
    Non sapeva se questo era determinato da quello che era successo tra loro durante quel sabato strano o se forse era solo condizionata dall'idea di freschezza che le donava il ragazzino, fatto sta che quando quel draghetto era arrivato da lei, aveva fatto scattare dentro di lei il desiderio di riavvicinarsi a lui, di osservarlo mentre studiava e di capire quanto riuscisse ad essere interessante in quella veste che ancora non conosceva.
    Che avrebbe accettato l'invito era certo, ciò nonostante voleva creare in JH un momento di attesa più lungo di quello che forse meritava e quindi aveva aggirato lo scaffale - con l'intenzione di prendere un volume che forse nemmeno le sarebbe servito - e allungare un po' il percorso per giungere a lui. Sentiva l'impazienza di raggiungerlo, di respirare ancora quel profumo troppo maturo ma perfetto per lui; riuscì comunque a mantenere un'andatura pacata, mascherando bene quella voglia di distruggere le distanze calpestando i corridoi di quella biblioteca. Ne osservò il taglio orientale di quegli occhi che erano oblio posizionato sul volto del ragazzo, aveva paura di perdersi tanto che si constrinse, per pochi secondi, a spostare lo sguardo sul ripiano di studio.
    Tre parole.
    Furono solo tre le parole che arrivarono a lei in risposta di quella domanda lasciata a metà, per essere completata da lui. Inaspettata e impulsiva, quella frase scosse ogni centimetro della pelle chiara della riccia, che dovette quasi trattenere il respiro per non mostrare quel sussulto che la portò a socchiudere gli occhi per un istante tanto breve, quanto intenso, nel ricordo di quel morso che le aveva ferito l'inferiore. Ancora una volta si affacciava la traccia dei suoi denti nella carne, un segno celato che avrebbe voluto nuovamente riaprire per sentirne il gusto che le aveva lasciato sulle labbra. Si morse la carne del labbro inferiore, recuperandolo tra i denti, non riuscendo a ricacciare indietro la memoria dell'irruenza che aveva utilizzato l'altro nel farlo. Il ghiaccio delle iridi si spostò a guardarlo di sottecchi, quasi a non voler dare dimostranza di quanto quelle parole l'avessero spiazzata, un punto trigger in cui lui aveva ficcato il dito e aveva spinto, rendendola - quasi - incapace di rispondere.

    «Impertinente.»

    Ne sillabò le lettere, con un tono che palesava ironia, quasi come se stesse ammettendo, ad armi basse, quanto avesse segnato il suo primo punto della giornata. Non era sconosciuta ai complimenti che le venivano fatti, ma quello aveva un sapore di realtà, un profumo di qualcosa di autentico e sentito, come se la spontaneità di quelle parole avesse strappato via l'importanza di ogni qualsiasi confessione le fosse stata fatta in precedenza da altri.
    Doveva concentrarsi su altro, perché quello sguardo che sentiva addosso, sembrava quasi la stesse spogliando di ogni velo di stupide apparenze che vestiva in quei corridoi, mettendone a nudo la sua carne ed esponendola a troppi pericolo; per non parlare di quel volto che si ritrovò a guardare nuovamente troppo da vicino, trovandolo perfetto nei lineamenti che ne dipingevano ogni spigolo. Sicuramente lo studio era una distrazione migliore, quindi si strinse nelle spalle e roteò il busto affinché si trovasse nella sua stessa posizione, quasi come se volesse fuggire all'idea di avere una via di fuga facile. Il palmo della sua mano sinistra si piegò a reggerne il volto dalla guancia, mentre ascoltava interessata l'altro.

    «Sei buddhista?»

    Un sussurro di curiosità, dimentica che fosse lì per aiutarlo, non per conoscere ancora briciole della sua vita. Eppure era così complicato rimanere sul tema che doveva trattare, quando aveva l'opportunità di fare un passo avanti verso di lui. Era come se ogni volta che le loro strade si incrociasse, lei avesse la necessità di strappargli qualcosa, per poterne fare furto e tesoro, allo stesso tempo.
    Lo lasciò parlare, chiedendosi se realmente si fosse trovato in difficoltà col compito o la sua fosse solo una semplice scusa per averla lì vicino. Non volle illudersi della cosa, quindi rimase dell'idea che probabilmente aveva davvero necessità di confrontarsi con lei riguardo qualcosa che non era certo andasse bene, per questo rimase in attesa, annuendo - infine - alla sua osservazione riguardo la sua conoscenza del secondo giorno di festeggiamento del Diwali.

    «Chooti Diwali. Il giorno in cui la dea Kalì e il dio Krishna hanno distrutto l'asura Narakasura.»

    Mormorò quasi a conferma delle sue parole, ritrovandosi a piegare il capo ancora una volta in senso di accettazione delle sue parole.
    Socchiuse gli occhi e istintivamente avvicinò la sedia - non provocando alcun rumore - alla sua, quasi a voler condividere meno distanza possibile, ma ovviamente (?) era per non trovarsi a disturbare gli altri con il loro chiacchiericcio accademico.

    «Durante questa giornata, vengono bruciate effigi di demoni, ad esorcizzarne le forze. Direi che è carico di componente magica. L'esorcismo qui viene ad assumere una principale componente del festeggiamento, viene iliminato per ridonare luce alla vita.»

    Soffiò via quelle parole, accostando il corpo a quello dell'altro, al fine di sfiorarne con la spalla, quella dell'altro e da avere centimetri ancora minori di distanza, mentre la gamba destra ne sfiorava la sinistra.

    «E nel Buddhismo? Potresti creare un ponte tra le due festività se vi sono convergenze a riguardo. Che ne pensi?»

    Il cristallo si spostò ad osservare meglio il suo volto, accennando un sorriso che ancora avev remore ad uscire realmente allo scoperto, quasi come fosse segnale di cedimento.
    Lilith Clarke

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    Dioptase, Caposcuola

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  11. .
    Kwon era un puzzle che le si era presentato in una confezione di cento pezzi ma che in realtà ve n'erano almeno cinquemila. Un difetto di fabbrica che non faceva altro che stuzzicare quella fame nel voler mettere ogni singolo pezzetto al posto giusto, ruotare fino a trovare il giusto incastro, per poi avere un quadro completo. Era uno di quei puzzle che non potevi pensare minimamente di risolvere in un pomeriggio di pioggia, con la copertina sulle gambe ed una tazza di tè fumante a distanza di sicurezza. Stava partendo dalla cornice: dal mucchio cercava tutti quei cartonati modellati e da almeno un lato liscio, il resto finiva nuovamente nella scatola, un calderone che avrebbe affrontato poco alla volta. E così mentre Amalea scopriva parti di lui rivelava parti di sé, non soffermandosi -neanche per un attimo- sul fatto di star scoprendo e permettendo all'opale nero di scoprire eventuali punti deboli, ma anche di forza. Kwon era arrivato al momento giusto per risollevarle l'animo dalla lettura di un libro pieno zeppo di trigger warning che superavano persino la lunghezza dell'opera se messi a paragone.
    E tra fruttariani, onnivori, vegetariani e respiriani i due studenti stavano intrecciando una parte dei loro fili tra loro in qualcosa di cui non avrebbero avuto certezza del risultato: se una banalissima treccia da cucito o un maglione caldo invernale e coccoloso che tanto amava. Non poteva fare previsioni, magari qualche aspettativa basata sull'istinto, ma nel concreto poteva solo continuare a tessere e a vedere dove il suo essere una giovane Arianna l'avrebbe condotta.
    Ad esempio, un cambio di verso -probabilmente una manica o forse solo un bordo un po' rafforzato- avvenne con la sua osservazione in merito al significato della prima parte del suo nome. Quel Joo che si leggeva come Giù le stava creando non poche difficoltà, più per l'imbarazzo su come rispondere a qualcosa che le era uscito spontaneo ed anche un po' banale, che per chissà quale macchinazione o congettura. «Beh, sì, ecco...», guadagnò tempo, scrutando quel viso dalla pelle delicata simile alla porcellana, dai tratti molto meno marcati a cui era abituata. «Per i tuoi genitori, no?» Alla fine la sua nascita non aveva rappresentato il loro bene più prezioso?! Morgana, quel pensiero così basico e qualunquista le scatenò un leggero ribrezzo verso se stessa. «Anche per i tuoi amici e per...» avrebbe fatto meglio a mettere un freno a quella situazione che poteva divenire imbarazzante in pochissimo tempo, «chiunque trovi il piacere di averti conosciuto?» Ecco, forse sarebbe stato meglio se avesse sposato la linea del silenzio.

    Dal silenzio ad una corsa sotto la pioggia fredda direttamente sulla pelle nuda il passo fu breve. Il riso rendeva il suo respiro più affannoso, così come una scarsa mira in movimento ed il tentativo di rallentarlo colpendolo alle spalle. «TU HAI BARATO PRIMA!» Gli urlò di rimando seguendolo in quella fonte termale a cielo aperto, un contrasto tra le due temperature d'acqua diverse, la sua vena sadica e vendicativa a prevalere nel tentativo blando di affogarlo. Le mani di lui a rintracciare i suoi polsi, la forza leggera con cui si servì per prendere lo slancio per tornare a galla, portando lei ad affondare un po', con la bocca aperta e zero ossigeno immagazzinato nei polmoni. Avevano entrambi il fiato corto, il mento -almeno il suo- sotto il pelo dell'acqua calda, ancora uniti da quelle mani che non lasciarono andare le sue articolazioni. «Oh, dovevi essere un pelino più sorpreso però», usò il suo stesso tono ed espressione del viso, seppur il sorriso della mezza scozzese fosse molto più ampio. «Io? Farmi perdonare?» approfittò del suo allentare la presa per essere lei a cingere i polsi, almeno quello sinistro di lui con la mano destra di lei, visto che poi l'indice finì con l'indicare prima il suo petto e poi quello del moro. «Sono io a dover perdonare te», chiarì, annuendo alle sue stesse parole, abbattendo la mano sull'acqua e sollevando una serie di schizzi. Per poco non si perse quel sorriso paragonabile quasi alla magia del sole nascente dopo una notte infinita. «Ma tu guarda!», chiosò, non sapendo più se stesse commentando il loro perdono reciproco o quell'evento che aveva il sapore della rarità. Ad ogni modo prese sul serio il gioco, iniziando a sollevare schizzi verso il suo viso, continuando a stringere -sempre se lo avesse permesso- il polso, mantenendosi a galla con un movimento lento e costante delle sue gambe che spesso si scontravano con quelle dell'asiatico.
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    Devo portare un cerino?

    Davvero, lei ci provava ad essere gentile e ben disposta nei confronti di Garrett ma per quanto si sforzasse l'altro continuava ad incolparla di tutti i mali del mondo. Finisce la carta igienica nel bagno? È colpa di Amalea, mica di sua sorella che crea pannolini con i quadratini di carta per le sue bambole. È scoppiata una crisi diplomatica tra Denrise e Londra? È colpa di Amalea. La fame nel mondo? Le carestie? Il surriscaldamento globale? Sempre lei, Amalea Davidson. Quindi il suo ragazzo non si sarebbe potuto mostrare sorpreso nel ricevere quel messaggino lapidario, soprattutto quando nell'equazione vi rientrava anche Nicholas McCallister sparito nuovamente dai radar. Non osava chiedere però nulla a Brooks, per non metterlo in difficoltà con il suo migliore amico e con suo fratello. Si diceva però che la prossima volta che l'altro Black Opal le avesse rotto gli zebedei la domanda piccata non se la sarebbe risparmiata affatto. E no, non era più buona solo perché mancavano due giorni a Natale. E sì, si sentiva incredibilmente bellissima nel vestito che Brooklyn le aveva regalato quando l'aveva invitata al ballo. Un abito carta da zucchero, dallo scollo a cuore e dall'incrocio poco sotto al seno mettendo in evidenza quest'ultimo e nascondendo i suoi fianchi larghi. I capelli erano stati lasciati ricadere in morbide onde, mentre il trucco era tra i più semplici e basici che avesse mai fatto: eyeliner ad allungarle l'occhio, sulle cui palpebre vi era dell'ombretto che sfumava dal nero verso l'azzurro dell'abito mentre il rossetto nude le sembrò quello più adatto tra quelli che aveva. Non rispose all'ex Grifondoro, semplicemente afferrò la sua bacchetta che bloccò nella giarrettiera sulla coscia destra e volò fino all'ingresso della Sala Comune sul cui uscio trovò in un vestito stranamente non spiegazzato il suo ragazzo. «Dovresti pagare un extra al sarto, è perfetto!» Accompagnò quell'espressione con una piroetta su se stessa, sbilanciandosi fino a ritrovare l'equilibrio grazie alla presa sul suo braccio. «Prometto di rubarti le giacche e non restituirtele più» e con la mano nella sua lo seguì fino alla Sala Grande. Avrebbe voluto salutare anche gli altri ma Ryan la rapì, portandola verso una cupola con il vischio cui si fermò al di sotto. «Siamo alquanto dispotici stasera», ma non aggiunse che un sorriso di scuse al povero malcapitato che venne designato come loro fotografo. Erano vicini, era pronta a farsi immortalare da un perfetto sconosciuto nell'atto di baciarsi quando un rettangolo piuttosto lungo e patinato non le venne posto sotto il naso. Abbassò lo sguardo e fu sconcertata nel vedere la foto di uno dei simboli più famosi della Francia. Risollevò lo sguardo sul moro, poi lo riabbassò, infine spalancò la bocca, realizzando. «Mi hai appena regalato un viaggio a Parigi?» E poi fu caos, lei che abbracciava lui proprio quando la baciava e il terzo ed ultimo click risuonò tra loro. «Sei completamente pazzo, Brooks», mormorò sulle sue labbra, sciogliendo il loro abbraccio un po' a malincuore. Una coppia dell'ultimo anno stava letteralmente mandando occhiate di fuoco per farli allontanare. «Vieni», disse, tirandoselo dietro fino a raggiungere la pista di pattinaggio chiedendo un paio di pattini per loro. «Era al Natale del secondo o terzo anno che mi hai fatto cadere nel lago ghiacciato dietro casa tua?» Lo prese in giro, mentre si sedeva ad una delle panche per sfilare le scarpe dal tacco imponente per infilare gli scarponi dalle lame affilatissime. «Tu che mi urlavi di strisciare sul ghiaccio, brrr», e con non pochi scivoloni visto che lei e l'equilibrio non è che andavano poi così tanto d'accordo, eppure pattinare le piaceva anche se aveva bisogno comunque di una guida. «Vogliamo vedere come ce la caviamo ora?» Si voltò verso la pista, osservando un panda rosso mettere a repentaglio l'equilibrio precario degli altri seppur mantenendo egli stesso -non sapeva fosse una femmina- un equilibrio da far invidia. «Uh, guarda, c'è il tuo compagno di casa», abbandonò la sicurezza della barriera, nonché la mano di Brooks, per portarsi le mani alla bocca per amplificarne il suono. «Ehi, Giù-yo, fai attenzione al». L'Opal non seppe mai da cosa avesse ella stessa cercato di avvisarlo poiché finì con l'inciampare lei stessa e cadere in ginocchio sul ghiaccio duro. «Ouch!»
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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor e poi tenta di avvertire Joo-hyuk Kwon ma cade sul ghiaccio. (':
  13. .

    "Parlato" - 'Pensato' - "Ascoltato"

    Le ronde in biblioteca non erano proprio la sua gita preferita, anzi cercava di evitarle quanto più poteva, perchè sapeva il fastidio di sentire il borbottare qualcuno mentre gli altri studiavano. Lei lo odiava.
    Per lei la biblioteca era sacra e doveva rimanere come tale; tuttavia, era arrivata una segnalazione da parte delle Chandler, che richiedevano immediatamente un Caposcuola: qualcuno si era divertito ad entrare durante la notte e disordinare tutti i volumi del reparto "Fatture e pruriti". Le sorelle Chandler erano disperate, pareva che mancasse anche un preziosissimo pezzo da collezione "Come scaccolare il naso di un troll" e loro piangevano diamanti letterali dagli occhi alla perdita di quel volume.
    Lilith, che d'altro canto amava passare il tempo tra l'odore delle pagine dei libri, decise di prendersi quest'onere ed era andata lì subito dopo la lezione di Difesa delle Arti Oscure, aveva due ore libere e poteva cercare di risolvere il mistero di quel volume mancante, dopo aver aiutato le due a sistemare gli scaffali.
    Quando era arrivata gli studenti là dentro erano pochi, a mano a mano che le lezioni finivano, ognuno veniva a prendere la propria postazione preferita. Lilith ne conosceva diversi di loro, quindi si distraeva giusto quadno qualcuno di questi le rivolgeva saluto o qualche domanda per cercare di avere l'opporturnità per parlarle.
    Nessuna distrazione, tuttavia, l'aveva distolta dall'aiutare le due gemelle, visto che dopo la sistemazione sarebbe dovuta andare a fondo sulla questione del volume scomparso. Tra i tanti studenti che entravano ed uscivano, Lilith aveva notato anche Kwon: il primino non si era accorto di lei, nascosta tra le scale e le pile di libri che erano sparse per terra, e lei aveva fatto in modo di non farsi notare, anche solo per strappare per se stessa qualche immagine di troppo, rubata nell'osservare l'altro approcciarsi con un ambiente che apparteneva totalmente a lei. Di nuovo. Cercò di fare il giro degli scaffali non passando innanzi ai tavoli, così da non sentire l'esigenza di fermarsi, seppur di tanto in tanto ne cercava i lineamenti, memore di quel pomeriggio strano passato da lei, di cui l'era rimasto il suo profumo addosso per i giorni a seguire e, forse, se lo avesse cercato tra i suoi vestiti, era ancora appiccicato come colla ai tessuti.

    Stava mettendo su una mensola in alto l'ultimo dei volumi che era stato spostato, quando davanti al suo naso un draghetto di carta arrivò svolazzando. La bacchetta dell'altra rimase a mezz'aria, trattenendo quel wingardium che reggeva un tomo piuttosto pesante, posando una mano sotto il draghetto, quasi a volerlo far poggiare. Su di esso vi lesse quelle parole e arricciò le labbra a nascondere un sorriso. Lo sguardo di ghiaccio si volse in direzione dell'altro, non troppo distante dal pluteo dov'era arrivata.
    Osservò l'agitazione di quella penna, sposarsi perfettamente con quella del piede sotto il banco.
    Per un breve frangente, quando vide quel labbro rapito dai suoi denti, senti un brivido lungo la schiena che dovette cercare di ricacciare indietro, insieme al sapore che le aveva lasciato quel pomeriggio. Passò la lingua là dove aveva ferito il proprio di labbro, non c'era più niente...
    Lasciò levitare il tomo al suo posto, quindi abbassò la bacchetta e la ricacciò nella tasca della giacca della divisa, indossata perfettamente come se l'avesse stirata addosso al suo stesso corpo. Non si diresse da lui, sparì dal lato opposto, tra gli scaffali, quasi a lasciar intendere all'altro che non sarebbe andata minimamente ad aiutarlo con i suoi compiti. Tuttavia, non si sarebbe fatta sfuggire un'occasione del genere: la verità era che aveva raggiunto uno scaffale poco distante da quello, per recuperare un libro che probabilmente lo avrebbe aiutato; quindi si avvicinò con passo tranquillo ed elegante, degno portamento di una danzatrice di danza classica, con la schiena dritta e lo sguardo fiero, al banco del ragazzo. Gli occhi erano fissi su di lui, mentre ne aggirava la figura e si siedeva lì dove la postazione era libera. Avrebbe potuto accorciare ed evitare di girargli intorno, ma era stato irrefrenabile il desiderio di avvolgerlo con il suo stesso profumo, quella vaniglia mista all'albicocca del suo balsamo. Chissà se lo ricordava...
    Si sedette, accavallò la gamba, senza infilarle sotto il banco e ne guardò la pergamena. Bianca. Non aveva scritto niente.

    «È Diwali che ti distrae o...?»

    Lasciò in sospeso quel sussurro, proferito a voce bassa così da non infastidire i presenti. Sul tavolo fu fatto scivolare un libro - Del bene e del male. Feste e tradizioni. - lo conosceva a memoria, visto quanto nel biennio lo avesse utilizzato. La sua mano, però, rimase sulla copertina, quasi come sigillo, mentre tamburellò un paio di volte soltanto le dita su essa, quasi in attesa di una risposta.

    «La festa delle luci... la vittoria del bene sul male... audace scelta.»

    I suoi occhi non lo avrebbe liberato nemmeno una volta dal travaglio del suo ghiaccio che lo incatenava. Lei non aveva bisogno di leggere libri per sapere qualcosa, soprattutto del suo programma.
    Lilith Clarke

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  14. .
    ballo
    Deva L. Lestrange
    Black Opal | 16 anni
    I balli e i galà erano, dacché ne avesse memoria, ottimi stratagemmi per venire a conoscenza di segreti che avrebbero dovuto restare tali, motivo per cui avevano iniziato a starle un po' meno stretti di quanto non fosse prima di arrivare a quelle interessanti conclusioni.
    Ascoltava a spizzichi e bocconi la conversazione tra Lilith Clark e un tale Evans che, a detta della ragazza, era stato assente per un po'. Per quanto Deva fosse una ragazza particolarmente intelligente e in genere incline a usare un simile strumento, proprio non pensò a collegare i puntini: quante possibilità c'erano che il ragazzo che aveva mandato in confusione la sua unica amica - o simil - fosse finito proprio lì, accanto a lei?
    Riuscì a cogliere poco altro, se non che il giovane mago in questione avesse dato dello stronzo a qualcuno, prima di essere interrotta nella sua attività creativa da una concasata che la Lestrange considerava inadatta a intendere e volere. Fortuna, si diceva spesso, che era bella oltre ogni dire.
    «No, mi dispiace.»
    Rispose all'altra stringendosi tra le spalle, mentre lanciava un'occhiata incerta alla sorta di puzzola che scivolava allegramente sulla pista da pattinaggio. A nulla servì che la coscienza tentasse di farle venire qualche remore nel mentire, lei, che era stata campionessa della stagione per tre anni di fila.
    Ops.
    Se il furetto fosse stato travolto da un pattino, nei dormitori dei Black Opal si sarebbe cominciata ad annusare aria certamente più pulita.
    Qualunque suo tentativo di scollarsi la McKenzie divenne inutile, perché l'arrivo di Kwon accompagnato da - nientepopodimeno che - Erin Murphy rapì la sua totale attenzione. Le due ragazze, così vicine di età quanto lontane nell'indole, erano cresciute insieme a Hogwarts come esponenti di Case rivali e le cose a Hidenstone non erano cambiate. Deva non nutriva alcuna simpatia nei suoi confronti, con quell'aria da finta santarellina in grado di ingannare chiunque.
    Chiunque, ma non lei.
    Erin Murphy sembrava avere tra le mani ben più di una risorsa, pensò mentre la guardava giocare con il coreano. E fu solo una sua impressione, forse, che la ragazzina rivolgesse uno sguardo molto intenso alla coppia che stava al proprio fianco.
    Avrebbe dovuto prendere appunti, c'era troppa carne al fuoco quella sera.
    Le sorrise a mo' di saluto, prima di rivolgersi a Gyll.
    «Lei sa pattinare. Dovresti proprio chiederle di recuperartelo.» Le disse indicando con un cenno del capo la rossa, a dir poco irriconoscibile dentro quell'abito. Aveva tutte le intenzioni di rovinare la serata a qualcuno, peccato non avesse ancora deciso a chi. Erin era solo una conseguenza degli eventi che l'avevano portata lì quella notte, ma sperava di farle ricoprire ben presto un ruolo di maggiore rilevanza in quanto colei con cui il giovane Joshua aveva trascorso le calde notti d'estate.
    Ad ogni modo non poté fare a meno di pensare che persino le scimmie, se addobbate a sufficienza, potevano apparire semi-decenti e ingannare gli occhi meno scaltri.


    Interagisce con Gyll, saluta Erin e studia JH. Nel mentre cerca di origliare la conversazione tra Josh e Lilith con una certa discrezione (?).
    RevelioGDR
  15. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Qualche giorno dopo la lezione di Alchimia.


    Era brava prendersi cura dell’equilibrio che la circondava, Erin, il benessere delle anime limitrofe era il suo personale comfort, una panacea completa e riempitiva che le donava pace e ristoro. Era cresciuta in mezzo a così tante turbolenze da aver sviluppato, per una sorta di antitetica reazione difensiva, un amore esagerato per la quiete e la stabilità.
    Non un merito, di certo neanche un vanto, più che altro un invalidante senso di empatia ed altruismo che talvolta la annichiliva completamente, convincendola ad annientarsi senza alcun rimorso pur di salvare le armonie circostanti. Era un umano cuscinetto ammortizzatore, lei, la boa sul fianco delle chiglie, il parafulmini dei grattacieli più alti.

    Potrebbe essere meglio imparare l’Elego Recresci prima dell’arrivo delle vacanze.
    Terrazza alle diciotto in punto,
    Erin


    Una calligrafia distratta e veloce che ne confermava il mittente, una mezza pergamena macchiata sul bordo con l’inchiostro gocciolato dal calamaio, un gufo arzillo e pimpante a recapitare la missiva nel dormitorio dei Black Opal, diligente e preciso nel riconoscere il destinatario senza concedersi margini d’errore. Era stata chiara con l’animaletto, Erin, avrebbe dovuto consegnare la posta discretamente e senza accettare intermediari di sorta.
    Non era esattamente una promessa da mantenere, quella su cui avrebbe lavorato quel giorno, piuttosto una forma più genuina e spontanea di vincolo di lealtà che nessuno a parte lei doveva aver realmente percepito; era piuttosto certa che quando Joo-Hyuk le aveva chiesto delle ripetizioni non si fosse aspettato effettivamente alcun tipo di obbligo da parte sua, ma sapeva d’altro canto piuttosto bene quanto un’offerta di quel tipo solleticasse le motivazioni della propria coscienza.
    Nessuno che la conoscesse bene si sarebbe sorpreso, dunque, sapendo quanto velocemente i pensieri fossero corsi al coreano quando quel pomeriggio, di ritorno dall’ultima lezione, aveva sorpreso in uno spicchio di tiepido sole il corpicino mutilato di una lucertola, forse troppo tentata dal calore inusuale di quella giornata di novembre da abbandonare il letargo, eppure ormai troppo intorpidita dal sonno stagionale per poter sfuggire a qualche predatore più fortunato. Era sopravvissuta, ma aveva perso la sua coda.
    «Immobilus.»
    Si era accovacciata sulle ginocchia ad osservarla per qualche secondo, Erin, prima di avvolgerla nel tepore di quell’incanto paralizzante al fine di raccoglierla premurosamente tra le mani. Non aveva mai avuto problemi a toccare con mano ogni forma di vita esistente in natura, non fu strano perciò neppure depositare la creaturina in una scatola vuota dopo aver munito quest’ultima di feritoie respiratorie.
    Sapeva che l’incantesimo aveva dei limiti, perciò non perse tempo e raggiunse direttamente la terrazza, primo luogo utile che le venne in mente dove non avrebbe dato nell’occhio nel maneggiare un rettile immobilizzato. Aveva quindi scarabocchiato l’invito per Kwon e sistemato il tomo di Alchimia sul tavolo scelto insieme agli appunti.
    Aveva gentilmente chiesto ad un elfo di passaggio se fosse possibile avere due tè caldi per la merenda, una richiesta probabilmente inusuale per qualsiasi studente, ma molto più considerabile se ad avanzarla erano gli occhioni verdi colmi d’innocenza dell’irlandese.
    Talora Joo-Hyuk avesse accolto il suo invito, una volta giunto nello spazio esterno l’avrebbe trovata intenta a leggere il romanzo a cui si era appassionata quel mese, sul capo un cappello a tesa larga color sabbia, e tra le sopracciglia un cipiglio concentrato che ne confermava il totale straniamento dalla realtà.
    Era sempre facile, per lei, quel salto fuori dal mondo.


    RevelioGDR
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