I feel it coming down

Joo | Panchine ombrello | mattina, sabato 19 novembre

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    In realtà, spesso ha la sensazione non tanto di vivere, quanto di esistere, di lasciarsi trascinare, giorno dopo giorno, senza mai prendere l'iniziativa.
    Ma non si condanna certo, per questo: il semplice atto di continuare a esistere è già duro a sufficienza.
    *
    Deve fermarsi. Non riesce più a vedere nulla, la vista completamente appannata. Ha solo la forza di staccare uno di quei piccoli post-it colorati -blu, per i momenti e le frasi tristi- e posarlo sulla frase che l'ha appena distrutta.
    Non può finire il capitolo tutto d'un fiato come avrebbe fatto in altre occasioni. Si lascia vincere da quelle parole messe nere su bianco, parole capaci di ricordarle quel periodo oscuro in cui si era lasciata trascinare dagli eventi. Fare una doccia, lavare i denti, indossare la divisa e andare a lezione erano diventate attività sfibranti, persino il cibo aveva perso il suo fascino, il suo potere su di lei. Ogni giorno le era sembrato uguale, un buco nero che la risucchiava, con pochi sprazzi di luce a dirle che però era ancora viva. No, sopravviveva.
    Un movimento rapido delle palpebre, un paio di volte per ritornare a vedere l'immagine di quell'uomo in copertina che stando alla quarta era in preda all'orgasmo, per lei solo dolore. A little life, una piccola vita, una vita come tante ma che in realtà era unica. E pensare che si era ritagliata un piccolo spazio di tempo perché convinta di mandar giù l'ultimo centinaio di pagine perché il peggio era passato. Era stata solo una piccola stolta. I libri non erano oggetti innocui, non per nulla erano tra le prime cose che venivano date alle fiamme per cancellare il passato, una società. I libri erano ragione, sentimento, informazione e fantasia; potevi vivere tante vite rimanendo ferma a voltare una pagina dopo l'altra per poi rimanere con una sensazione di vuoto. Le accadeva anche con testi che non erano chissà quanto elevati nell'argomento o nello stile di scrittura.
    E se molti trovavano eccessivo quello che l'autrice aveva segnato in quelle pagine, Amalea finiva col trovarne giovamento, un senso in tanti piccoli eventi che avevano causato tempesta e rovina. «Come quell'effetto lì, quello delle farfalle», aveva riassunto il tutto dimenticandosi del fautore di quella teoria. Non ricordava se fosse di un libro, di un film, di un matematico o pura fantascienza. Quel che rimaneva era che bastava un semplice battito di ali di farfalla per causare uno tsunami dall'altra parte del mondo. E chissà quale lepidottero aveva appena scatenato la sua magia per avere quell'improvviso temporale a squarciare quel tranquillo sabato mattina. Non se ne curò. Era su una di quelle panchine ombrello dove di tanto in tanto vi aveva fatto quel picnic e sapeva che alla prima goccia di pioggia uno scudo si sarebbe sollevato per proteggere chi occupava tavolo e sedute. Si distese su quello dalla superficie più larga, stringendo al petto il volume che aveva accantonato per il momento ed osservando la pioggia che veniva giù.
    Amalea Davidson

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    *Quotes di "Una vita come tante" di Hanya Yanagihara.
     
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    Uno degli aspetti ai quali gli era dispiaciuto dover rinunciare - a seguito del trasferimento in accademia - era stata sicuramente la possibilità di visitare la Corea del Sud spesso e volentieri. Nonostante i suoi genitori adottivi fossero entrambi Giapponesi erano soliti trascorrere le vacanze sulla turistica isola di Jeju.
    Non che fosse un tipo da area turistica, tuttavia il mare gli era sempre piaciuto. Non tanto starsene spalmato al sole a sonnecchiare, quanto a godere di lunghe nuotate tra le acque del mare cinese orientale.
    Si stava trovando discretamente bene tra le mura di Hidenstone, per quanto non avesse avuto modo di stringere chissà quale rapporto, ma quel giorno la nostalgia di casa si era fatta un po' più presente e dunque aveva deciso di recarsi sulle sponde del lago Vaan.
    Aveva sentito dire che sul fondale di quelle acque fossero adagiati dei sassi termali che consentivano di fare un bagno anche a bassissime temperature, senza correre il rischio di morire assiderati, ed era con quelle intenzioni che quel giorno aveva preparato uno zaino con tutto l'occorrente necessario per spegnere ed affogare la mente con una nuotata lunga di ore.
    A seguito del trasferimento aveva anche dovuto abbandonare la sua scuola di arti marziali, dunque il corpo cominciava a risentire della letargica condizione nel quale lo stava costringendo. Aveva un eccezionale rispetto di sé e della sua esistenza, dunque il senso di colpa per la penuria di tempo che stava dedicando al suo corpo era più forte che mai.
    Tuttavia, aveva avuto giusto il tempo di raggiungere con gli occhi la superficie del lago che qualche piccola goccia di pioggia aveva cominciato a picchiettarne il capo.
    Sbuffando con fare infastidito sistemò con un colpo di spalla l'Eastpak nero che aveva portato con sé, chiudendosi nelle spalle e tirando sul capo il cappuccio della giacca a vento nera con la quale si stava riparando dal freddo di quel giorno.
    Accelerò dunque il passo fin quasi a cominciare letteralmente a correre, mentre le piccole gocce di pioggia si tramutavano in goccioloni fastidiosi e si diresse, senza neppure stare a riflettere, verso quel rettangolo di terra che - per qualche strana ragione che non sapeva spiegarsi - non veniva toccato dalla pioggia.
    Nessuno gli aveva parlato delle panche ombrello.

    Scusa, non volevo disturbarti. Continua pure a fare quello che stavi facendo, io mi levo appena capisco come fare a generare... sollevò il mento, mandando le iridi nere - parzialmente nascoste al di sotto del taglio affilatissimo delle palpebre - a scrutare la barriera magica che li abbracciava in quello spazio qualsiasi cosa sia questa barriera.

    Tutto gli sembrava, meno che una Meteofattura Recanto.
    Lasciò scivolare lo zaino sull'erba, dunque sfilò la giacca a vento per scuoterla e lasciar dunque decollare le gocce di pioggia che ne imperlavano il tessuto. Frizionò dunque i capelli neri e scompigliati con il palmo di una mano.
    Non era ancora arrivato a capire che la cupola-ombrello si autogenerasse in autonomia nel momento del bisogno, dunque lanciò un'occhiata in tralice in direzione di Amalea quasi che stesse cercando di capire quale tipo di sortilegio la ragazza era riuscita a lanciare sopra di loro.
    Silenzioso e discreto a quel punto, arricciò le labbra aggrottando la fronte e grattando la nuca con fare pensieroso.
    Il bagno tanto valeva farlo lo stesso.
    Acqua sopra, acqua sotto... che differenza poteva mai fare?
    Ma non si sarebbe mai sognato di sfilarsi via i vestiti lì davanti a lei e non perché si vergognasse, ma perché non aveva nessuna intenzione di atteggiarsi come avrebbe fatto la stragrande maggioranza dei ragazzi della sua età.
    Sperava che i nuvoloni in cielo continuassero a minacciare la terra senza tuttavia scaricare di sotto un acquazzone, ma quello non sembrava essere il suo giorno fortunato.
    O forse lo era, ma non aveva ancora avuto modo di rendersene conto.
    Joo-hyuk
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    <i>Stesa sul tavolo, la pioggia che cadeva su di lei senza bagnarla, il libro stretto al petto coi polpastrelli che ne carezzavano il dorso e le pagine intervallate da millimetri di carta colorata che davano anche il colpo d'occhio su quanto avesse già letto, Amalea viveva il suo senso di solitudine. Per quanto amasse il riccio, la sua verve ed i suoi scherzi, amava anche ritagliarsi spazi vitali, momenti di puro piacere personale che esulavano da una lezione o dal suo migliore amico. Ragazzo. Ora Brooks era il suo ragazzo. I tempi dell'incertezza e dell'abbandono erano finiti. Protendeva però anche verso quella malinconia a lei tanto cara. A quel quadretto mancava una tazza fumante di te. Come una stupida si era dimenticata di riempire un po' il suo termos prima di incamminarsi verso quell'angolo della riserva. Se per quello non aveva visto neanche le previsioni atmosferiche.
    Poco importava. Avrebbe atteso lì che spiovesse o -alla peggio- un incanto impermeabile e via. Era bello anche camminare sotto la pioggia. Ballare, cantare, correre. In realtà l'autunno, coi suoi colori caldi, il profumo della legna bruciata e le tazze fumanti, era la sua stagione preferita.
    L'attimo di quiete però venne interrotto dalla voce familiare, ma per certi versi sconosciuta, di un ragazzo. Si sollevò sui gomiti, reclinando il capo fino a trovarne l'origine. Un primino, probabile dei Black Opal se non andava errata, si stava scusando per aver interrotto la contemplazione del nulla. «Se riesci fammelo sapere», si mise a sedere, le gambe penzoloni studiandolo da sotto le ciglia lunghe. Non aveva avuto voglia di truccarsi quel giorno, neanche di farsi bella in generale se per quello. Indossava un paio di jeans stretti alla caviglia, un maglione morbido di un blu elettrico che si intravedeva dal mantello aperto. I capelli erano la solita massa infinita di riccioli stretta in uno chignon morbido sulla testa. Probabile che avesse perso gran parte dei ciuffi. «Dicono che il compagno della Preside -incredibile ne abbia o che ne avesse uno, vero?- abbia creato degli scudi che si attivano in caso qualcuno sia seduto in eventi meteorologici avversi». Dire che piovesse o nevicasse era troppo semplicistico.«Secondo me sarà qualche scudo astrale, magari con qualche sigillo con Urano o Nettuno» buttò lì, scostandosi un po' e lasciandogli metà superficie grande disponibile. «Credo ce ne vorrà per un po', puoi sederti se vuoi, non mordo mica», un tentativo di essere simpatica e aperta a conoscere qualcuno al di là della sua solita cerchia. «Non ti ho mai visto ad Hogwarts...» soppesò, studiandone i tratti così come a ricordare eventuali suoi interventi nelle lezioni che avevano condiviso fino a quel punto dell'anno scolastico. «Ilvermorny o Mahoutokoro?»
    Amalea Davidson

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    Faceva un'enorme fatica a memorizzare nomi e volti delle persone che lo circondavano, ma per qualche strana ragione i lineamenti di Amalea gli risultavano ben più familiari di tante altre persone che abitavano le mura di Hiddenstone e che frequentavano i suoi stessi corsi.
    Se qualcuno gli avesse chiesto il motivo di questa sua sensazione, non avrebbe sicuramente saputo rispondere e in quei momenti non riuscì a fare a meno di porsi autonomamente quella domanda.
    Non era da lui, ricordare così bene il viso di qualcuno di cui neppure conosceva il nome, eppure gli stava accadendo. Non voleva comportarsi in maniera melodrammatica con se stesso o farne chissà quale tragedia, ma il dettaglio lo incuriosiva.

    Ah ecco.

    Presa coscienza del fatto che non ci aveva visto giusto a riguardo della cupola, arricciò le labbra piene in un accenno di sorriso mentre mandava le iridi nere a studiare la cupola sulle loro teste.

    L'ennesimo segreto di Hiddenstone.

    Più i giorni passavano e più si rendeva conto che quell'accademia era un groviglio inenarrabile di misteri, segreti e occasioni.
    Era seriamente difficile riuscire a stupirlo, ma quell'esperienza - almeno fino a quel giorno - lo stava stupendo abbastanza, il che rappresentava un'anomalia per lui. Ma, considerato il suo carattere complesso, non se ne sarebbe lamentato. Finalmente si sentiva stimolato dall'ambiente così come avrebbe voluto che fosse sempre.
    Astronomia non era tra le sue materie preferite. Anzi, assieme a Divinazione era tra i percorsi che più deprecava. Tuttavia, c'era da ammettere che il boyfriend della preside si era rivelato essere più ingegnoso che mai in quella circostanza.
    Un accenno di stupore si fece largo nell'espressività altrimenti nulla del suo viso, mentre riconduceva lo sguardo criptico ad inchiodarsi al volto di Amalea.

    Notevole. Specialmente se come me hai una memoria di merda e ti dimentichi sempre l'ombrello.

    Strinse le labbra in un sorriso che in realtà non riuscì a venire fuori, quindi annuì con il capo all'invito di lei e recuperò lo zaino scuotendolo appena per liberarlo dai fili d'erba.

    Ah beh, se non mordi allora mi siedo di sicuro.

    Ironizzò, sbuffando un principio di risata silenziosa dalle narici mentre si avvicinava al tavolo con passo calmo.
    Solo grazie al modo pacato che aveva di muoversi e parlare, sembrava capace di infondere una strana calma in chiunque gli fosse davanti. Era vestito di una compostezza che abbracciava i suoi tratti somatici in un connubio di mistero e serenità d'altre terre.
    Dentro di sé nascondeva tutt'altro, ma l'apparenza che lo seguiva era quella di una persona tanto solida quanto placida, che esternava - in maniera del tutto naturale - una forte sicurezza di sé.

    Mahoutokoro. Avevo voglia di cambiare aria.

    Non che volesse giustificare la sua presenza in quella scuola, ma gli sembrò una dovuta nota a piè di pagina da aggiungere in quel discorso.

    Seguiamo i corsi insieme, vero? Ti ho già vista.

    Come una lama che affonda nella carne viva, fece quell'ammissione senza vergognarsene, tornando a virare il capo in sua direzione e piantandole nuovamente gli occhi addosso in una discreta ricerca di conferme.

    Ero venuto per fare un bagno. Mi hanno detto che ci sono dei sassi termali sul fondale che rendono l'acqua vivibile, senza il rischio di morire di ipotermia. Sempre il compagno della preside?

    Ormai non si sarebbe stupito più di niente e aveva intuito che la Dioptase conosceva già parte della storia di quel singolare luogo.
    Abbandonò il suo viso solo dopo una manciata di lunghi istanti, sollevando il mento per piantare gli occhi contro la barriera sopra le loro teste sulla quale continuavano ad infrangersi minacciosi i goccioloni di pioggia.
    Joo-hyuk
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    Si sentiva osservata, ma non nel modo in cui uno ti guarda mentre è impegnato in una conversazione. Passò la lingua tra i denti cercando tracce di biscotti che erano sfuggiti allo spazzolino o al filo interdentale. Non ne trovò. La passò all'angolo delle labbra, uno per volta, sperando di aver tolto qualsiasi macchia potesse essere rimasta. Ancora nulla.
    Solo la sua spiegazione ipotetica circa l'incantesimo che li teneva al sicuro dagli agenti atmosferici riuscì a fargli distogliere momentaneamente lo sguardo. Non si sentiva in soggezione, ma insomma voleva che qualcuno glielo dicesse se avesse la matita sbavata, una macchia di cioccolata o qualsiasi altra cosa fuori posto.
    «Notevole? Io trovo triste che non abbiano protetto altre aree del castello in quel modo! Mai andato in guferia?» Lì tra vento e andirivieni di pennuti bagnati era meglio tenersene alla larga il più possibile.
    Un'altra cosa che notò del primino fu che non riusciva mai a lasciarsi andare in un sorriso. «Non è che soffre di incontinenza da risata?» Sua madre, nei momenti più impensabili, quando si lasciava andare ad un attacco di ridarella compulsiva non riusciva sempre ad avere il controllo né delle lacrime e né della pipì. Se solo avesse avuto una maggiore confidenza, forse, avrebbe potuto rassicurarlo con un pat-pat sulla testa. Ed a proposito di testa: quanto erano lucidi i suoi capelli? Quasi glieli invidiava per l'intensità del colore, la texture e la lucentezza. Insomma, lo invidiava per intero, soprattutto in giornate cariche di umidità come quella. «Oh, forse ci siamo...» un rullo di tamburi riverberò nella sua mente ma quella risata abortì. Non era ai livelli di battuta di Brooks ma stando con lui aveva un po' affinato le sue battute terribili.
    In qualche modo riuscirono a condividere il tavolo -e non come Rose che non poteva stringersi un po' per farci stare anche Jack- dando il via alla sua curiosità. Chi era, da dove veniva e come c'era finito lì. Non in quel preciso ordine. «Un bel cambiamento! Quanto ci hai messo per abituarti al nuovo fuso orario?» Le gambe piegate, le piante dei piedi unite e strette in punta dalle mani, il movimento leggero ebbe inizio. «Beccata», sollevò le mani, perdendo il ritmo di quelle gambe-farfalla con probabile grosso piacere di Kwon. «Sì, quest'anno capiterà di seguire qualcosa insieme», in quella scuola il biennio aveva spesso delle lezioni in comune il che non sempre era da ritenere un male.
    Ed eccolo, lo sguardo indagatore era tornato, anche se più delicato rispetto agli inizi. Forse era solo per avere una conferma su dove l'avesse già vista. Allungò una mano, dopo essersela passata sui jeans, sorridendo. «Comunque io sono Amalea». Niente secondi, terzi e quarti nomi per lei. Due le sole possibilità di ricavarne diminutivi: Ama, più volte usato da O'Connor, e Lea, che non le era mai piaciuto visto che aveva il sapore di vecchio, stantio.
    Le sue antenne si drizzarono nel sentirlo parlare dei sassi termali. Adorava quella parte della scuola e non credeva che l'altro potesse conoscerla visto che pochi sembravano essere gli studenti a ricordarsene l'esistenza. O forse aveva avuto soltanto una botta di fortuna nel non trovarvi nessuno. «No. L'amante», fece un'occhiolino, sperando che almeno quello riuscisse a lasciarlo andare ad una risata. E se non quella almeno un sorriso. «Se ti va, appena smette di piovere, potremmo farci un salto», tamburellò con le dita sulla coscia, come se stesse rimuginando su una delle sue idee malsane. «Anche se credo sarebbe figo vedere come sono con un tempo come questo...» Cercò il suo sguardo, forse anche un po' a sfidarlo. Sull'essersi praticamente auto invitata non si lasciò sfuggire neanche un commento. «Non trovi?»
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    Quando il dubbio si insinuò nelle espressioni del volto Amalea, vi fece caso ma perseverò in quella sua ispezione silenziosa. Stava cercando di scavare nei meandri della sua memoria per mettere in riga i tasselli del puzzle di quella strana sensazione di averci già avuto a che fare.
    Tuttavia, dovette ben presto desistere e affidare alle lezioni e ai corsi "la colpa" di quel senso di familiarità che avvertiva.

    Mmmh, non mando un gufo da quando avevo 11 anni. Quindi no. Ma la pioggia non mi dispiace, il più delle volte.

    Veniva da uno dei paesi più piovosi della terra, quindi aveva dovuto abituarsi a quel genere di problematiche atmosferiche. L'escamotage che preservava le panchine ombrello era tuttavia cosa gradita, se non altro perché in quei momenti poteva starsene lì, fermo immobile a studiarla, senza dover stare a cercare di capire come ripararsi.
    Non faceva particolarmente caso al fatto che non riusciva a sorridere o ridere spesso e volentieri. Era fatto così: espressività il più delle volte asciutta e un alone di mistero che si trascinava dietro come un'ombra.
    Il taglio affilato delle palpebre conferiva una marcia in più a questa sua caratteristica, se non altro perché gli dava un'aria costantemente concentrata e parecchio intensa. Anche quando magari non voleva risultare tale.

    Una settimana circa. In realtà mi fa più fatica il cibo, a dirtela tutta. C'è carne e pesce in tutto ciò che preparano da queste parti.

    Prese un profondo respiro, mentre tornava a dirigere le iridi nere sul volto della Dioptase, lasciando finalmente perdere la cupola protettiva sopra le loro teste.
    Le influenze di Denrise - così dedita alla vita di mare - creavano non pochi problemi alla dieta di uno come lui, che era diventato vegetariano da che aveva cominciato a dettare regole alla sua vita.
    Solo a guardarlo, probabilmente non era intuibile questa sua particolarità, se non altro perché aveva uno sguardo che sembrava capace di inghiottire tutto ciò che investiva.

    Kwon Joo-hyuk.

    Rispose alla presentazione di lei anteponendo il cognome al nome, così come da tradizione prettamente coreana, ma perse qualche secondo di troppo a reagire all'allungamento della mano di lei. Dall'altra parte dell'oceano erano parecchio restii al contatto fisico, specialmente con persone praticamente sconosciute.
    Lanciò un'occhiata alle sue dita tese e solo dopo una manciata di lunghi istanti si decise ad allungare la propria mano, cercando di avvolgerle l'arto in una presa salda, ma non troppo.
    Non era molto pratico con i convenevoli occidentali.

    Scusa, non voglio sembrare sgarbato. Devo ancora abituarmi a questa cosa dello stringere la mano.

    All'apparenza era abbastanza occidentalizzato in tutto, ma certe abitudini erano dure a morire.
    Affilò l'angolo sinistro delle labbra in un'ombra vaga di sorriso, quindi le lasciò andare la mano solo dopo essersi assicurato che le sue scuse fossero arrivate a destinazione.

    Mai sentito un nome come il tuo, comunque. Che vuol dire?

    Diede per scontato che un nome con un suono del genere potesse celare dietro le sue sillabe chissà che tipo di significato ed infatti interrogativa era l'espressione che vagava sul suo viso mentre si premurava di nascondere le mani nelle tasche della felpa.
    Occhieggiò nuovamente la cupola solo quando la Dioptase fece riferimento "all'amante" della preside ed il petto si scosse in un paio di vibrazioni che rappresentavano la sua risata contenuta.

    Infatti pensavo di fare il bagno lo stesso. Tanto... acqua sotto, acqua sopra.

    Diede voce ai suoi pensieri, saltando giù dal tavolo e prendendo a sfilarsi la felpa. Si sarebbe tuffato con o senza di lei, a quel punto.

    Ce l'hai il costume?

    Glielo chiese un po' sovrappensiero, mentre sfilava anche la t-shirt che aveva al di sotto svelando un torace inaspettatamente definito. Non era un tipo muscoloso, ma si difendeva bene, complici gli anni di taekwondo che praticava da sempre.
    Infilò gli indumenti che aveva rimosso all'interno dell'Eastpak, prendendo a liberare la fibbia della cintura nera che portava agganciata ai passanti del jeans. Solo a quel punto tornò a guardarla, sollevando il sopracciglio destro in una smorfia interrogativa.

    Altrimenti ne trasfiguriamo uno.

    Metterla a disagio non era neanche l'ultima delle sue intenzioni, ma era stata lei a proporre un tuffo, quindi si sentì legittimato a portare avanti quella missione.
    Non c'era neppure la minima ombra di malizia nel suoi sguardo, solo la rigida compostezza di chi ormai aveva deciso che avrebbero condiviso quell'esperienza.
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    Il discorso degli olezzi non era minimante collegato esclusivamente alla combo guferia-pioggia, ma la dioptase era impegnata a frenare l'impulso di chiedergli un batticinque al suo non inviare un gufo da anni. «Continua così», si premurò, «che poi io mi chiedo, no, con tutti sti magifonini stiamo ancora ai gufi, civette e strillettere?» Erano nel terzo millennio, ventunesimo secolo, duemilaventidue e ancora doveva affaticare gufi con pacchi grandi il quadruplo di loro. Un servizio wizazon dovrebbe essere considerato oggigiorno un diritto primario. Ma se lei si occupava di corrieri che si alimentavano di vermi e ripagavano in escrementi e beccate, l'opalino sollecitato sul suo voler sapere come e quanto tempo avesse impiegato per adattarsi al nuovo orario non avesse spostato la lancetta dell'argomento sul cibo. La cucina denrisiana non era tra le più sofisticate ma gli elfi, nelle cucine, si davano un gran da fare nel prepare piatti comunque eccellenti ed il più variegati possibile. Ma forse non così tanto. «Uh, oh», perché arrivava sempre qualcuno che ti stravolgeva il modo di vedere le cose ed in quel caso il corvino le fece aprire gli occhi su quanto burro venisse usato per ripassare i fagiolini o gratinare le patate, su come le patate arrosto delle volte sembravano esser state cucinate nella stessa teglia delle grosse salsicce arrostite rendendo di fatto immangiabile gran parte degli alimenti che poi presentavano sulle loro tavolate.
    «Vegetariano? Vegano? Verduraro No, l'ultimo non le suonava granché bene. «Mpf, scusa, non conosco tutte le sigle. Pensa io potrei essere una cavolfiorara per quanto ne vado matta. Potrei crearne anche una religione: il cavolfioranesimo», le mani erano ora aperte in una creazione immaginaria di un arcobaleno. «Pensa... Una volta lessi che c'erano i respiriani», le era capitato nel feed di qualche social privo di filtro magico. «Loro si nutrono di ossigeno e basta», trasmetteva tutta l'incredulità per quella dieta a ritmo di dieci respiri al giorno. Se ne facevi undici ingrassavi di un centigrammo se andava bene. «Mmm, io con le mie riserve di grasso avrei una buona prospettiva di vita, no?» Era da un po' che non faceva dell'autoironia sul suo corpo e se prima era legato al prevenire commenti grassofobici ora era solo perché le era uscito naturale scherzare su di sé, come se avesse una percezione dei suoi difetti completamente diversa. Forse perché qualcuno le aveva fatto vedere che era bella. Non nei canoni, ma bella.
    Il ricordo delle buone maniere tornò all'improvviso, finendo con il presentarsi con una mano tesa che per un po' rimase sospesa. Non se ne accorse subito, troppo presa dalla pronuncia del suo nome. «Three!» cercò di anticipare nella sua mente al suono del suo nome completo, mentre un dubbio cresceva: «Aspe, ma i coreani sono quelli che si presentano prima col nome o col cognome?»
    Sgranò gli occhi.
    «K-» tentò un primo approcciò, cercando di ricordarne il suono troppo veloce con cui era stato pronunciato nel classico modo in cui si dice qualcosa che si ripete da una vita. «K-Kwon è... tipo il cognome, vero?» Decise di arrischiare.
    «Preferisci essere chiamato Two-ja? O stai pensando tipo di occidentalizzarlo?» Erano scelte che non potevano essere giudicate, soprattutto quando il tuo nome finiva con l'essere profondamente violentato da pronunce discutibili, ma lei al suo posto non avrebbe mai sacrificato la sua identità per favorire gli altri.
    Preferì non condividere il suo pensiero, non sapeva quanto e come fosse il suo animo. Già aveva difficoltà con una stretta di mano. Alla fine l'aveva accettata, stringendola in una presa decisa ma senza prevaricarla con la forza.
    Decise che gli piaceva.
    E la risata alle sue scuse non era affatto per farlo sentire incomodo o deriderlo. «Per fortuna che non ti ho salutato alla messicana allora. Lì sono tre baci», ci tenne a precisare, «e non tutti li danno sulle guance». L'immagine di un vecchio zio della madre che le dava tre baci sulle labbra continuava a tormentarla negli incubi peggiori. «Ewww. Lasciamo perdere, vecchi ricordi d'infanzia». Scacciò via quel ricordo così come si fa con una mosca molesta, mentre quell'interrogatorio a due sembrava continuare liscio come l'olio.
    «Credo che semplicemente i miei avessero terminato la loro fantasia, sai l'ultima praticamente scambiata con la menopausa» O forse semplicemente l'avevano riversata tutta su di lei dato che i fratelli avevano nomi banalissimi. «Comunque è tipo una versione in qualche lingua di Emily, tipo mente curiosa, ma non ne sono sicura». Non poteva mica dirgli di aver preso un libro dei nomi a caso, in biblioteca, cercato il primo significato che le sembrava così giusto per lei. Era una corvonero, era una dioptase ed era dannatamente curiosa. Voleva continuare in magisprudenza e commercio perché così poteva entrare nel mondo dell'editoria. Da quando però era ad Hiddenstone non aveva trovato il tempo -coraggio- di andare a far visita (creare) il giornalino dell'accademia. «Il tuo, invece?»
    Magari poteva condividere il significato con quello dell'amante della Preside. Intanto con la sua battuta aveva visto una risata lievemente più limpida(?).
    «C'era quasi», che fosse per un tratto della sua cultura essere così silenzioso persino nelle risate? Erano davvero così rumorosi gli inglesi? Li aveva sempre trovati silenziosi rispetto ai parenti messicani da parte di sua madre. «No, l'ho dimenticato nell'altra borsa», andiamo, poteva mai sembrare una che girava con un costume nella tasca posteriore dei jeans? O anche nella parte interna di una borsa.
    «Stai dicendo che stiamo per farlo sul serio?» Prese le sue cose, rificcandole nello zaino che aveva quel giorno, castandovi un impervius solo per non rovinare il suo prezioso libro contenuto all'interno, sollevando le iridi in quel cielo che sembrava non voler dar loro tregua. «Pronto?» Ora in piedi a pochi centimetri dalla fine della cupola, se solo si fosse alzato la magia sarebbe svanita, lasciando che la pioggia li bagnasse.
    Amalea Davidson

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    Scrollò blandamente le spalle all'osservazione di Amalea circa l'arretratezza che coinvolgeva il mondo magico sotto svariati aspetti. Era d'accordo con lei, ma non sembrava intenzionato ad indugiare sul discorso gufi-postini ancora a lungo.
    Dopo un'occhiata rivolta al cielo plumbeo, tornò a trafiggerla con le iridi di pece svestendosi di un singolo strato dell'alone di mistero che sempre si portava dietro, svelandole di essere vegetariano. Non che fosse un segreto, ma tutta la gente che aveva incontrato fino a quel momento non si era rivelata essere poi così interessata a nient'altro se non a capire se fosse cinese o giapponese. Sempre con scarsi risultati.

    Vegetariano. I derivati non mi infastidiscono.

    Confermò, cristallizzandosi a guardarla mentre portava avanti quell'arringa della quale non era sicurissimo di star seguendo il filo logico come si deve. Si era impantanato più o meno a "cavolfiorara".
    Era un tipo abituato a soffermarsi a studiare chiunque avesse davanti ben più del normale e, per quanto non stesse riuscendo a capire dove il discorso sui cavolfiori di Amalea volesse andare a parare, si era fatto una sua rapida idea su tutto quel farneticare apparentemente sconnesso.
    Lo interpretò come un goffo tentativo della Dioptase di non farlo sentire strano - o comunque giudicato in alcun modo - a riguardo delle sue sceglie nutrizionali.
    Che ci avesse visto giusto o meno, sbattè rapidamente le palpebre nel tentativo di riprendersi dal lieve stordimento che quella valanga di parole gli aveva provocato.

    Respiriani mai sentiti, onestamente. Di fruttariani invece ne ho conosciuti un paio. Ma pensa trascorrere una vita intera a mangiare banane.

    Forse voleva risultarle simpatico, o forse no, fatto sta che le successive parole di lei a riguardo delle sue presunte riserve di grasso lo presero un po' in contropiede. Non si era neppure per un secondo soffermato a studiare la figura di Amalea da quel punto di vista.
    O meglio, l'aveva squadrata eccome, ma di certo non per quantificarne la quantità di massa grassa.

    Non penso proprio. Più che altro te la immagini una vita senza muffin? Moriresti di depressione.

    La delicatezza con la quale cercò di sviare il discorso sarebbe potuta risultare più rumorosa che mai. Lasciò intendere che non la reputava affatto grassa o anche solo lontanamente bisognosa di rinunciare ad alcunché per risultare più carina di quanto già non fosse.
    Per quanto non le avesse di certo dato l'impressione di poter pensare che la trovasse carina.
    Non ancora, almeno.
    Quando l'argomento virò sulle presentazioni, non potè fare a meno di tirare fuori un po' del disagio che provava quando aveva a che fare con usi e costumi occidentali. Non che non fosse in grado di adattarsi, tuttavia per uno che non era mai uscito dai confini della Corea del Sud o del Giappone, il tempo richiesto al fine di adeguarsi era un po' dilatato.

    Kwon è il cognome, sì. Giù-yo pose l'accento sulla pronuncia del nome, scandendo le sillabe con cura ed assicurandosi con gli occhi che Amalea lo stesse seguendo il nome. I miei vecchi compagni a Mahoutokoro mi avevano detto di cercarmi un nome occidentale per "integrarmi meglio". Ma onestamente non mi va.

    Scrollò blandamente le spalle, a lasciarle intendere di aver riflettuto abbastanza sulla faccenda senza tuttavia esserne realmente venuto a capo.

    A parte che... mi ci vedi a farmi chiamare, boh, Charles?

    Tirò su entrambe le braccia, allargandole a mezzo busto come a volersi indicare, tanto per enfatizzare il concetto.

    E poi credo di potermi integrare benissimo anche così.

    In mezzo a tutta quella coltre enigmatica che si trascinava addosso, forse non dava granché a vedere la forte sicurezza di sé che in realtà aveva. Aveva quasi diciassette anni, ma il lavoro che aveva fatto su se stesso nel corso degli anni gli conferiva l'esperienza di una persona un po' più grande di quanto in realtà non fosse.
    C'erano tante cose di sé che ancora non conosceva, figlie sicuramente dell'acerba natura dei suoi anni, ma non si tirava mai indietro davanti alle esperienze che la vita gli metteva davanti.
    Non riuscì a trattenere il movimento del sopracciglio destro che svettò verso l'alto in risposta alla questione dei baci alla messicana. Abituato com'era alle ragazze della sua vecchia scuola, che arrossivano anche solo ad incrociare lo sguardo di chicchessia, doveva ancora fare il callo alle personalità ben più intraprendenti e schiette delle ragazze di Hidenstone.
    Si trattava semplicemente di un divario che calcava sui normali modi di fare e la cosa gli sembrava ancora un po' anomala e non gli risultava ancora così facile ignorarla.

    Devo ricordarmi di evitare di andare in vacanza in Messico, allora.

    Se c'era una cosa che proprio non tollerava, su tutti i livelli, quelli erano i baci.
    Perfino con le sue ex fiamme a Mahoutokoro aveva evitato con tutte le sue forze quel genere di contatto. Aveva fatto ben altro, ma baci sulle labbra mai.
    Non si era mai spiegato il motivo di quella sua necessità di evitare contatti di quel tipo e, prima o poi, sarebbe arrivato ad indagare la faccenda.
    Forse.

    E sei curiosa davvero o hanno cannato anche quello?

    Chiese, pizzicando la pelle del labbro inferiore nella presa dei denti mentre la osservava con fare incuriosito. Neanche a farlo a posta.

    Joo vuol dire prezioso. Hyuk, invece, tranquillo.

    Le rivolse a quel punto un'espressione che aveva il sapore di un "boh, non lo so manco io che minchia volessero dire i miei" e lo fece con un modo di fare che lasciava trasparire un pizzico di fastidio.
    Non era quello il momento né il luogo adatto ad aprirsi circa la sua famiglia biologica, senza contare che praticamente non lo faceva mai, dunque quello fu l'unico commento che si permise di fare a riguardo del significato del suo nome.
    Fortunatamente la necessità di cominciare a spogliarsi deviò le attenzioni da quel discorso.
    Subito dopo essersi liberato degli indumenti superiori passò alla cintura, mentre la osservava di sottecchi mettere via le sue cose.

    Perché no? Mica è probito?

    Senza contare che, nel caso in cui si fosse trattato di un esplicito divieto fatto dal regolamento scolastico, probabilmente avrebbe avuto un motivo in più per farlo davvero.
    Si liberò del jeans, cacciando anche quello alla rinfusa all'interno dello zaino che abbandonò sulla superficie del tavolo, quindi le si avvicinò lanciando un'occhiata alla superficie increspata dell'acqua. Increspata almeno tanto quanto la pelle d'oca che ne stava arricciando la pelle nuda a contatto con il vento freddo.
    Inspirò profondamente l'aria pulita, dandole quasi l'impressione che non avesse alcuna intenzione di muoversi di lì.
    Tornò a parlare solo dopo una lunghissima manciata di istanti e lo fece con una rapidità che avrebbe potuto coglierla in contropiede.

    Chi arriva ultimo paga pegno.

    Sputò via quelle parole in maniera tanto repentina che le ultime sillabe si persero nell'aria che smosse non appena scattò in avanti, lanciandosi in una corsa sfrenata, senza preoccuparsi del fatto che stesse palesemente barando. Amalea non aveva neppure avuto il tempo di liberarsi dei vestiti.
    Qualora non fermato in qualunque modo dalla Dioptase, si sarebbe immerso nelle acque tiepide del lago con un tuffo rumoroso che avrebbe anticipato la sua scomparsa al di sotto del pelo dell'acqua.
    Joo-hyuk
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    Il cibo accomuna i popoli. Non ci aveva mai dato peso più di tanto a quella massima, almeno fino a quel momento. Lo aveva sempre visto solo e soltanto nell'ottica della convivialità e del mero gesto di portarsi cioccolata, carne o verdura alla bocca e non come qualcosa di cui dibattere per conoscersi meglio. In qualche modo disquisire su stili di vita, scelte etiche od egoiste, la stava aiutando a conoscere, almeno sotto quell'aspetto, una nuova persona. Ad esempio l'essere vegetariano poteva suggerire una data morale che il ragazzo seguiva, ma non se fosse una tradizione di famiglia o una scelta personale. Il modo in cui pesava ogni parola gli dava la sensazione di essere un tipo riflessivo e non impulsivo; il modo con cui la osservava suggeriva che fosse una persona curiosa ma non giudicante; il suo ascoltare ogni singola parola che pronunciava le dava la sensazione di essere vista come persona, oltre a Brooks. Era una bella sensazione e lei si sentiva libera di esprimersi senza freni, di condividere le più strambe teorie -le sovversive e complottistiche le avrebbe riservate per un successivo momento- su cui aveva posato occhi ed orecchi, condendole di sue, a suo parere, geniali illuminazioni. Soffocò una risata che riverberò nel suo corpo, facendole tremare le spalle, all'ipotesi di nutrirsi dell'unico frutto dell'amor. «Non erano quelle che se la mangi in grandi quantità muori? Sai, potassio o cose così». E col potassio in eccesso la morte era ben oltre l'angolo. «Oltre a soffrire di stitichezza», soppesò memore della diceria popolare che il frutto giallo fosse un nemico dell'intestino pigro. E lei, in qualche modo, se ne intendeva.
    La piacevolezza della conversazione la portò anche a scherzare sui suoi punti deboli, di natura fisica, ed in una possibile vita di privazione avanzata da lui. «Oddio, i muffin al cacao con la granella di nocciole e il cuore morbido», probabilmente le sue pupille si erano trasformate da due cerchi perfetti a due cuoricini al solo pensiero di affondare gli incisivi in quella spugna morbida equilibrata dalla giusta dose di cacao. «Perché non abbiamo pensato di trafugare del cibo in cucina prima di venire qui?» E come avrebbero mai potuto mettersi d'accordo se a stento si erano parlati nelle poche lezioni in comune? Senza contare che appartenessero a due case diverse. E a due culture diverse.
    Chiedergli se avesse mai pensato di cambiare il suo nome per aiutare lo straniero l'aveva in un certo senso infastidita, soprattutto perché trovava svilente ed annichilante il pensiero della società occidentale del ritenersi superiori agli altri, di doversi uniformare fino a perdere la propria identità. Delle volte non riusciva a comprendere l'egoismo dell'uomo.
    Ma Kwon, o meglio Giù-yo come aveva corretto lui la sua pronuncia, sembrava voler sposare la sua stessa linea, con un bellissimo e coreografico dito medio a chi avesva osato suggerire di rendere facilmente pronunciabile il suo nome. «No, non hai decisamente la faccia da Charles», concordò, scrollando il capo energicamente, anche perché lei avrebbe scelto un nome molto più interessante di un banalissimo Carletto. «Sì, lo credo anch'io», chiosò sull'integrazione, con tanto di occhiolino volto a creare la complicità. Così come una stretta di mano che aveva eliminato la possibilità di salutarlo con dei baci sulla guancia alla latina. E da lì riprendere la via della sua storia, dalle origini appena accennate al nome che i suoi le avevano dato. «Secondo te?» Una domanda un po' ironica, visto che alla fine gli fornì la risposta. «Comunque no, sono davvero una curiosona» ed una impicciona, come avrebbe poi sottolineato pochi momenti dopo con i commenti non richiesti sul significato del nome dello studente sudcoreano.
    «Sul prezioso direi che ci possa stare, quanto al tranquillo...» lo squadrò dal basso verso l'alto e viceversa «non ti conosco abbastanza per dissentire o meno».
    Sarebbe stato solo dopo l'interrogarsi sulle cupole del compagno della Burke e la rivelazione che il suo obiettivo per la giornata fosse a poche centinaia di metri da lì che avrebbe scoperto quanto di tranquillo lo studente di Mahoutokoro non avesse proprio nulla. Oltre al fatto che sì, non stavano per fare nulla di proibito, ma era dannatamente strano vederlo spogliarsi velocemente. Rimase a fissarlo con un perfetto ovale delineato dalle sue labbra, le sopracciglia sollevate e gli occhi sgranati. Era stato così dannatamente veloce! «Ehi, così non vale!» Gli urlò dietro, mentre cercava la sua bacchetta per tentare di rallentarlo. «Collosho!» Ma non prese bene la mira, forse perché impegnata anche nello sbottonarsi i jeans con il mantello che era finito ancor prima sul tavolo insieme a quello che restava dei vestiti dell'opale. «Oh, andiamo, impedimenta» Ma ormai a stento sarebbe riuscita a rallentarlo come aveva desiderato, dato che era diretta verso di lui con il maglione che venne lanciato verso il tavolo senza neanche guardarlo, correndo in un semplice intimo scuro verso il ragazzo che alla fine era riuscito a tuffarsi prima di lei.
    Lo raggiunse e nuotò per un po' in subacquea fino a comparirgli alle spalle e tentare di posargli le mani sulla testa per spingerlo giù, ma senza fare uso di una forza eccessiva. «Così impari!»
    Amalea Davidson

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    Riuscire a sbottonarsi per lui era quanto di più complicato potesse riuscire a fare. Faticava a fidarsi e, di conseguenza, a mostrarsi in maniera cristallina specialmente con chi conosceva appena. O per niente.
    Di Amalea conosceva appena il nome e poco altro, eppure solo ad osservarla in viso la ragazza gli restituiva un senso di appartenenza difficile da spiegare. Guardarla lo faceva sentire come se avesse messo piede all'interno della propria comfort zone, per quanto la Dioptase fosse tutto meno che quello.
    Non sapeva quanto potessero avere in comune e non sembrava avere fretta di scoprirlo. Solo il suo sguardo intenso tradiva una curiosità difficile da giustificare.
    Ma fortunatamente la ragazza non sembrava intenzionata ad indagare la natura delle sue occhiate.

    Sì, ma che ci vuoi fare. Ognuno ha i suoi gusti.

    La sua poteva sembrare un'osservazione becera, eppure il modo con il quale proferì quelle parole lasciava trasparire tutto meno che quello.
    Amalea ci aveva visto giusto: era uno che osservava molto e giudicava mai.
    Tuttavia non credeva davvero di suscitare chissà quale dolce desiderio nella testa di lei con quel suo accenno ai muffin, tant'è che scrollò le spalle con noncuranza nel momento in cui lei evidenziò quella loro "mancanza".
    Aveva voglia di nuotare, piuttosto che mangiare, ma non avvertì la necessità di stare a specificare il dettaglio.

    Possiamo andarci dopo.

    Quelle parole abbandonarono le sue labbra prima ancora che il sud coreano potesse anche solo elaborarle mentalmente, tant'è che l'altra avrebbe potuto accorgersi del movimento delle sue palpebre che si schiusero appena sulle iridi nere con un velo di sorpresa ad attraversarle.
    Non voleva darle l'impressione di costringerla a trascorrere con lui più del tempo che avrebbero potuto condividere sotto la protezione della cupola e non perché non volesse davvero, ma più perché non sapeva praticamente nulla di lei.
    Non poteva prevedere quanto il suo invito potesse eventualmente metterla a disagio né quale meccanismo avrebbe potuto innescarsi nella sua mente o se il fatto che qualcuno potesse vederli insieme rischiasse di generare della fastidiosa entropia nella sfera dei suoi affetti.
    Effettuò quel ragionamento nel lasso di un battito di ciglia.

    Se hai fame.

    Si affrettò ad aggiungere, cercando di distorcere quella proposta per farle indossare l'abito di una gentilezza fatta nei suoi confronti, più che del suo desiderio di prolungare quell'incontro.
    Si affrettò anche a distogliere lo sguardo dal suo viso, cercando di concentrarsi su qualsiasi cosa che non fosse il suo viso.
    Sollevato dal fatto di poter cambiare argomento, sperando di essere riuscito a camuffare quella che nella sua testa era suonata tantissimo come una gaffe, accantonò il discorso sul nome poiché gli era sembrato di essere stato abbastanza chiaro a riguardo.

    Sì dai, sei curiosa abbastanza da sapere quanto vive in media un Respiriano.

    Una concessione la sua, mentre arricciava l'angolo delle labbra a lei visibile in un'ombra lontana di sorriso.

    Ah sarei prezioso? Perché?

    Riconquistò i suoi occhi con i propri con una fretta abbastanza anomala. Le inchiodò lo sguardo addosso, mentre il campanello della sua curiosità trillava impazzito nella sua testa.
    Se qualcuno gli avesse chiesto quale superpotere avrebbe voluto, la risposta sarebbe stata sicuramente quella di poter leggere nella mente degli altri. Generalmente non gli interessava sapere cosa la gente attorno a lui pensasse di lui, a meno che non si trattasse di persone che lo incuriosivano a sufficienza.
    E Amalea lo incuriosiva in maniera fastidiosamente più che sufficiente.
    Dovette cercare di infrangere la staticità della contemplazione del suo viso per evitare di inciampare nell'ennesimo potenziale equivoco, quindi spogliarsi e lanciarsi alla volta del lago fu l'escamotage perfetto da utilizzare.
    Si precipitò in una corsa sfrenata, evitando gli incantesimi che la bruna cercò di castargli addosso.

    ADDIRITTURA ALLE SPALLE?

    Alzò il tono di voce urlando, così da essere sicuro di essere udibile e sovrastare anche la pioggia che intanto gli infradiciava la pelle. Quindi sparì sotto il pelo dell'acqua solo per essere raggiunto, poco dopo, anche da lei.
    Tuttavia, non ebbe il tempo di rintracciarla visivamente, poiché non appena fece capolino oltre la superficie avvertì la pressione delle sue mani sulla testa e fu costretto ad immergersi senza essere riuscito a riprendere fiato come si deve.
    Sentì i polmoni bruciare per la carenza di ossigeno e mentre raccoglieva l'immagine sfocata del corpo seminudo di lei sotto l'acqua, allungò le braccia nel tentativo di afferrarle i polsi e costringerla ad allargare appena le braccia, prima di risalire a prendere fiato.
    Annaspò un respiro pesante, quindi scosse con forza il capo, incapace di lasciarle andare i polsi - sempre che fosse stato in grado di afferrarli - nel tentativo di restare a galla.

    Tutto avrei detto di te, meno che fossi una persona così violenta.

    Il sarcasmo delle sue parole sarebbe stato reso palese dall'espressione divertita del suo viso. Non che stesse ridendo, ma aveva lo sguardo acceso dalla piacevolezza di quel gioco.

    Adesso fatti perdonare prima che sia troppo tardi.

    Voleva suonare minaccioso, ma non in maniera preoccupante, tant'è che avrebbe lasciato scivolare entrambi i pollici verso il centro delle sue mani, trasformando la presa sui suoi polsi in un blando gancio sui suoi palmi, costringendola a sollevare di pochissimo le braccia.
    Il fiato ancora corto da quei pochi secondi trascorsi sotto l'acqua, respirava a labbra dischiuse, ignorando i fastidiosi ciuffi di capelli scuri incollati alla pelle della sua fronte.
    Solo a quel punto le sorrise davvero, sollevando il solo angolo destro delle labbra, ancorato ai suoi occhi per non tornare ad affondare.
    Joo-hyuk
    Kwon

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    Kwon era un puzzle che le si era presentato in una confezione di cento pezzi ma che in realtà ve n'erano almeno cinquemila. Un difetto di fabbrica che non faceva altro che stuzzicare quella fame nel voler mettere ogni singolo pezzetto al posto giusto, ruotare fino a trovare il giusto incastro, per poi avere un quadro completo. Era uno di quei puzzle che non potevi pensare minimamente di risolvere in un pomeriggio di pioggia, con la copertina sulle gambe ed una tazza di tè fumante a distanza di sicurezza. Stava partendo dalla cornice: dal mucchio cercava tutti quei cartonati modellati e da almeno un lato liscio, il resto finiva nuovamente nella scatola, un calderone che avrebbe affrontato poco alla volta. E così mentre Amalea scopriva parti di lui rivelava parti di sé, non soffermandosi -neanche per un attimo- sul fatto di star scoprendo e permettendo all'opale nero di scoprire eventuali punti deboli, ma anche di forza. Kwon era arrivato al momento giusto per risollevarle l'animo dalla lettura di un libro pieno zeppo di trigger warning che superavano persino la lunghezza dell'opera se messi a paragone.
    E tra fruttariani, onnivori, vegetariani e respiriani i due studenti stavano intrecciando una parte dei loro fili tra loro in qualcosa di cui non avrebbero avuto certezza del risultato: se una banalissima treccia da cucito o un maglione caldo invernale e coccoloso che tanto amava. Non poteva fare previsioni, magari qualche aspettativa basata sull'istinto, ma nel concreto poteva solo continuare a tessere e a vedere dove il suo essere una giovane Arianna l'avrebbe condotta.
    Ad esempio, un cambio di verso -probabilmente una manica o forse solo un bordo un po' rafforzato- avvenne con la sua osservazione in merito al significato della prima parte del suo nome. Quel Joo che si leggeva come Giù le stava creando non poche difficoltà, più per l'imbarazzo su come rispondere a qualcosa che le era uscito spontaneo ed anche un po' banale, che per chissà quale macchinazione o congettura. «Beh, sì, ecco...», guadagnò tempo, scrutando quel viso dalla pelle delicata simile alla porcellana, dai tratti molto meno marcati a cui era abituata. «Per i tuoi genitori, no?» Alla fine la sua nascita non aveva rappresentato il loro bene più prezioso?! Morgana, quel pensiero così basico e qualunquista le scatenò un leggero ribrezzo verso se stessa. «Anche per i tuoi amici e per...» avrebbe fatto meglio a mettere un freno a quella situazione che poteva divenire imbarazzante in pochissimo tempo, «chiunque trovi il piacere di averti conosciuto?» Ecco, forse sarebbe stato meglio se avesse sposato la linea del silenzio.

    Dal silenzio ad una corsa sotto la pioggia fredda direttamente sulla pelle nuda il passo fu breve. Il riso rendeva il suo respiro più affannoso, così come una scarsa mira in movimento ed il tentativo di rallentarlo colpendolo alle spalle. «TU HAI BARATO PRIMA!» Gli urlò di rimando seguendolo in quella fonte termale a cielo aperto, un contrasto tra le due temperature d'acqua diverse, la sua vena sadica e vendicativa a prevalere nel tentativo blando di affogarlo. Le mani di lui a rintracciare i suoi polsi, la forza leggera con cui si servì per prendere lo slancio per tornare a galla, portando lei ad affondare un po', con la bocca aperta e zero ossigeno immagazzinato nei polmoni. Avevano entrambi il fiato corto, il mento -almeno il suo- sotto il pelo dell'acqua calda, ancora uniti da quelle mani che non lasciarono andare le sue articolazioni. «Oh, dovevi essere un pelino più sorpreso però», usò il suo stesso tono ed espressione del viso, seppur il sorriso della mezza scozzese fosse molto più ampio. «Io? Farmi perdonare?» approfittò del suo allentare la presa per essere lei a cingere i polsi, almeno quello sinistro di lui con la mano destra di lei, visto che poi l'indice finì con l'indicare prima il suo petto e poi quello del moro. «Sono io a dover perdonare te», chiarì, annuendo alle sue stesse parole, abbattendo la mano sull'acqua e sollevando una serie di schizzi. Per poco non si perse quel sorriso paragonabile quasi alla magia del sole nascente dopo una notte infinita. «Ma tu guarda!», chiosò, non sapendo più se stesse commentando il loro perdono reciproco o quell'evento che aveva il sapore della rarità. Ad ogni modo prese sul serio il gioco, iniziando a sollevare schizzi verso il suo viso, continuando a stringere -sempre se lo avesse permesso- il polso, mantenendosi a galla con un movimento lento e costante delle sue gambe che spesso si scontravano con quelle dell'asiatico.
    Amalea Davidson

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    Per quanto fosse realistico paragonarlo ad un puzzle, la verità era che Joo-hyuk Kwon non era un puzzle qualunque. La difficoltà nel mettere in fila i tasselli che componevano la sua contorta personalità poteva essere paragonata a quella del riuscire a concludere un mosaico monocromatico.
    Non sembrava esserci una fine o un inizio alle sue parole e ai suoi gesti. Dava una sorta d'idea di infinito. Quasi che lo spazio attorno a lui si allargasse ancora e ancora, rendendo possibile qualunque cosa. Nonostante ci fosse la presenza costante del suo sguardo vigile a scandagliare ogni minimo dettaglio con l'attenzione più estrema.
    Ti dava un senso di possibile, Joo-hyuk, anche quando tutto ti sembrava troppo incredibile.

    Non sono stato molto fortunato su quel fronte.

    La glacialità con la quale commentò la faccenda sui genitori lasciava trasparire un dolore intimo intenso. Sembrava tuttavia al tempo stesso desideroso di lasciar scivolare via il discorso.
    Parlare dei suoi genitori biologici era un'impresa nella quale non si lanciava praticamente mai. I traumi ed il dolore subiti erano ancora incollati lì sulla sua pelle e nei suoi pensieri. Meno costanti rispetto a tanti anni prima, ma comunque presenti.
    Gli sembrava che Amalea stesse cercando di aggrapparsi ad uno specchio invisibile, incapace di spiegare i motivi che l'avevano spinta ad associargli quell'aggettivo che non sentiva appartenergli.
    Prezioso non era uno degli attributi che si sarebbe accollato, ma nonostante ciò era profondamente curioso di capire cosa avesse spinto la Dioptase a fare quel commento troppo precipitoso e perché.
    E così le piantò addosso la profondità del suo sguardo lugubre, studiandola come se volesse strapparle un pezzo d'anima.

    Lo stai chiedendo a me?

    Il sopracciglio destro svettò verso l'alto, mentre Amalea gli rigirava un'osservazione sotto forma di domanda. Ma indagare oltre gli sarebbe risultato fin troppo esagerato. Non voleva indisporla. E dunque finì con il convincersi che il suo "Sul prezioso direi che ci possa stare" era stato solo un commento di circostanza.
    O per lo meno quello stava cercando di fare nel momento in cui si lanciò a capofitto in quella corsa che lo condusse tra le onde tiepide del lago. L'acqua prese quasi a sfrigolargli addosso, complice la temperatura discorde rispetto all'esterno.
    Ritrovare i suoi occhi dopo quella parentesi sott'acqua fu come amplificare il piacere di poter tornare a respirare.
    Continuava a non comprendere il motivo per il quale avvertiva quello strano senso di familiarità ogniqualvolta che il suo sguardo incontrava quello di lei. E nel momento in cui interruppe ogni cosa, bloccandole i polsi, finì con il chiedersi cosa diamine stesse facendo.
    E, soprattutto, per quale cazzo di motivo se ne stava lì a domandarsi cosa avrebbe potuto provare se avesse avuto la possibilità di nascondere il viso nell'incavo del suo collo?
    Domande di quel genere nascevano silenziose ed impronunciabili nella sua testa quando si trovava a vivere una situazione in qualche modo concitata. Troppe parole, troppi movimenti, troppi stimoli in generale lo accendevano come una scintilla provocata da un raggio di sole che filtra tramite una lente di ingrandimento.
    Andava fuori di testa.
    Voleva sapere, voleva capire e il fatto di dover mettere in atto atteggiamenti incomprensibili per farlo lo mandava su tutte le furie.
    Il sorriso che le dedicò era sincero, ma rappresentava solo una parentesi dentro di lui.
    Incassò gli schizzi, imprecando a bassa voce, ma ringraziando ancor più silenziosamente Amalea per aver interrotto quel suo ennesimo momento di estraniazione dalla realtà.

    Ma sei una maledetta.

    Biascicò, tentando di restituirle la stessa tortura fatta di gocce d'acqua, mentre dentro di lui esplodeva la necessità di interrompere ogni genere di contatto fisico tra loro. Ogni minimo sfregamento dei loro corpi era una pericolosissima scintilla che, presto o tardi, non sarebbe stato in grado di arginare.
    La verità era che avrebbe voluto affondare le nocche tra i suoi capelli, costringerla a tirare indietro la testa e lasciar scivolare il polpastrello del pollice sulla sua lingua. Comprendere quanto a lungo avrebbe resistito alla pressione di un ginocchio di lui tra le sue gambe.
    Ma non poteva.
    Non era così che ci si comportava.
    E dunque approfittò del fastidio provocato dagli schizzi per divincolarsi e allontanarsi da lei, immergendosi sotto il pelo dell'acqua e guadagnare un paio di bracciate di distanza prima di riaffiorare.

    Sono famoso per le mie vendette servite fredde.

    Le sue labbra sfioravano la superficie del lago mentre proferiva quelle parole alla ricerca dei suoi occhi.

    Ma sono anche molto bravo a farmi perdonare. Se mi dai un motivo valido per cui dovrei, però, perché io non ne vedo...

    Non era mica stato lui a cercare di affogare lei.
    E non importava il fatto che continuava ad osservarla come se il solo fatto di averla toccata gli avesse scatenato un inferno dentro.
    Si sentiva anormale e non riusciva a fare a meno di chiedersi se tutti i ragazzi della sua età finissero con il sentirsi a quel modo quando avevano a che fare con qualcuno.

    Ultima chance.

    L'aria di sfida che mise su raccontava esattamente ciò che stava pensando: dammi un buon motivo per restare e per cui dovrei farmi perdonare e ti mostrerò cose che non credevi possibili.
    Joo-hyuk
    Kwon

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    black opal - I anno

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    Se le parole avessero potuto uccidere, Amalea sarebbe stata colei che aveva sparato dritto al cuore del sudcoreano, e lui quello che aveva risposto con altrettanta prontezza. Otto parole avevano cambiato la storia che aveva ricamato su di lui, in poche battute: un figlio amato, desiderato, prezioso. Il ghiaccio che aveva permeato quelle poche battute era impossibile da non avvertire, molto più intenso della pioggia di novembre che li avrebbe colpiti in pieno se non ci fossero state le cupole magiche a proteggerli. La bocca improvvisamente asciutta, le iridi ad ancorarsi a quegli occhi dalla forma così poco diffusa su quell’isola: due pozze nere in cui si sarebbe persa più volte. Lì, quel buco nero in cui si erano trasformate, riusciva a scorgere solo qualcosa di insoluto e doloroso. Non insistette oltre, non chiese spiegazioni o pretese di bruciare tappe così velocemente. Sperava ci sarebbe stato del tempo, in futuro, per lasciarsi andare in confessioni altre che non ricadessero nella sfera meramente adolescenziale. Quello era materiale incandescente e distruttivo pari alla colata di lava di un vulcano semidormiente. Non poteva risvegliarlo proprio ora. Batté in ritirata, tirandosi dietro persino l’uscita a domanda sul piacere di conoscerlo. Non poteva certo dirgli che per lei lo fosse, non se non voleva risultare stramba più del solito.
    Lo dimostrò comunque dopo, seguendolo sotto la pioggia, rallentandolo malamente nella fuga e recuperando punti nel tentativo di affogarlo. Totalmente all’oscuro degli altri pensieri che animavano il ragazzo, Amalea si limitava a galleggiare, dandogli fastidio nello stesso modo che avrebbe fatto a cinque anni, non così lontana dalla riva, con altri bambini della sua età. Non sapeva che lui vedeva nello scontro involontario dei loro corpi qualcosa di sensuale, una scintilla che avrebbe potuto accendere la lussuria e la brama oscura di lui. Le sfuggì, nel più vile dei modi, allontanandosi sott’acqua e riemergendo come uno Smeagol qualunque. Con un po’ di carne e capelli in più. «A base vegetariana?» Si risparmiò eventuali riferimenti a piatti d’argento luccicanti, puliti un po’ con olio di gomito ed un paio di incantesimi di pulizia. Sollevò gli occhi alla sua provocazione, scuotendo la testa ma senza avere l’effetto swish che desiderava: la chioma era completamente attaccata al cranio, complice il periodo trascorso sott’acqua. Ne copiò la tecnica, immergendosi solo per comparire davanti a lui, le labbra a sfiorare il velo leggermente torbido e caldo delle terme. «Che tu non sia affogato non lo trovi un motivo abbastanza valido?» La mano uscì dall’acqua, il medio ed il pollice uniti fino all’altezza della fronte di lui. Lasciò andare la falange più lunga e, qualora non si fosse scostato, l’avrebbe colpito nel bel mezzo del solco tra le sopracciglia scure. Il suono martellante della suoneria del suo magifonino raggiunse i due, nonostante avesse lasciato il manufatto di alta magingegneria al sicuro nel suo zaino sotto il tavolo da pic-nic. Non si sarebbe curata di chi fosse a cercarla se non fosse stata per quella canzone strumentale di un brano di una rock band babbana che aveva associato al contatto di Brooklyn O’Connor, il suo ragazzo. «Devo andare, ma il nostro gioco di vendette non finisce mica qui, Giù-yo». Un sorriso prima di voltargli le spalle, un paio di bracciate a guadagnare l’uscita e poi morire di freddo nel breve tragitto che la divideva dalle panche magiche, con il pensiero rassicurante di essere riuscita ad ottenere un pigro sorriso di Kwon in meno di un’ora. Non osava immaginare cosa avrebbe potuto ottenere trascorrendo maggior tempo insieme.
    Amalea Davidson

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