Votes taken by Erin Murphy

  1. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Hidenstone era stata capace di uccidere persino l’innocenza del Natale.
    Nonostante le turbolenze di tutta una vita, quello era il primo anno in cui Erin rientrava dalle vacanze con tanta, troppa pesantezza nel cuore. Gli eventi più recenti non avevano fatto altro che confermarle d’aver compiuto un riprovevole errore nell’inscriversi in quell’accademia, avevano portato a galla la vera essenza di molte realtà, di molte persone, di quelle che aveva sempre considerato più importanti in effetti.
    Erano verità a cui non sapeva dirsi pronta, ma non significava forse questo diventare grandi?
    Da quando erano ricominciati i corsi lei aveva letteralmente rifuggito qualsiasi responsabilità; si limitava a seguire le lezioni arrivando per ultima ed andandosene dall’aula per prima, evitava i contatti umani, la sala comune, gli spazi condivisi, persino i confronti con la propria coscienza. Era come se una parte di lei si rifiutasse di credere a tutti i cambiamenti che le erano piovuti addosso come meteoriti, rifuggiandosi in un’insolita apatia che potesse proteggerla dalla consapevolezza.
    Quel giorno, non diverso da molti altri, aveva raggiunto l’area che credeva più riservata dei giardini di buon’ora, non appena dopo l’alba, stretta in un cappotto beige lungo fino alle caviglie ed armata unicamente di tre libri dalle copertine consunte. Si era accomodata ai piedi di una fontanella, scostando la neve con una mano guantata per sedersi direttamente sulla roccia, la schiena addossata alla struttura e da questa completamente riparata alla vista del sentiero. Era domenica, la maggior parte della scuola avrebbe impiegato il tempo libero a scorrazzare per la cittadina o a ritrovarsi con amici e parenti, Erin avrebbe semplicemente aspettato che terminasse l’ennesimo sterile giorno.
    Era immersa nella lettura del romanzo quando uno scalpiccio soffuso si lasciò catturare in lontananza dalle sue orecchie. Il silenzio intorno era assoluto, sarebbe stato facile cogliere persino il precipitare di una stalattite sulla neve soffice. Erin riprese la lettura pensando al guardiacaccia o al custode, chiunque fosse di passaggio l’avrebbe superata certamente senza neppure notarla. Eppure, contro ogni aspettativa, quel suono ritmico di passi anziché allontanarsi parve dirigersi proprio verso di lei.
    Fu l’istinto a convincerla a sporgersi appena dal corpo della fontana, i lunghi capelli di fuoco avrebbero anticipato lo spuntare del volto lentigginoso, degli occhi attenti e le labbra carnose. Quel che Erin non avrebbe mai saputo prevedere, a quel punto, fu che i propri occhi avrebbero incontrato proprio la figura inconfondibile di Lilith Clarke.
    Trasalendo impercettibilmente scattò in piedi, la testa a riempirsi dei flashback del ballo, assordata da rimproveri che non aveva compreso, colpita da dardi infuocati che non credeva d’aver meritato. La Caposcuola Dioptase rientrava in quel ventaglio di persone che Erin si stava impegnando meticolosamente ad evitare, ma ormai doveva aver imparato che la sorte non giocava mai dalla sua parte.
    «...Scusa, me ne stavo andando.»
    Scandì un labiale che per Lilith forse non avrebbe avuto suoni, considerate le cuffiette che l’irlandese non poteva vedere. Tuttavia il volto crucciato e la fretta della rossa a raccogliere le proprie cose avrebbero facilmente potuto suggerire alla mora quali fossero le parole appena scandite.
    E sarebbe stata disposta a confermarle con la pratica, Erin, senza alcuna esitazione avrebbe imbracciato i propri libri e puntato gli occhi sul sentiero. Non era certa di aver recuperato abbastanza forze da affrontare un secondo scontro.
    Non era certa di essere disposta a farlo, in effetti.

    RevelioGDR
  2. .
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Arriva sempre, inevitabilmente, quel momento nella vita in cui la bolla di ingenuità ed ottimismo finisce per rompersi. È naturale, fisiologico, il normale scorrere degli eventi, quel salto nel vuoto che fa diventare grandi con la brutalità di uno sport estremo.
    Erin non aveva mai sofferto di vertigini, eppure in quel momento sentì la testa girare e lo stomaco rivoltarlesi nelle viscere.
    Assorbì le parole di Elisabeth Lynch con ogni fibra del proprio corpo, condannata da un’empatia che non rispondeva ad alcun controllo, che famelica si impossessava di ogni percezione circostante mescolando l’essenza di lei a quella di chiunque altro intorno gioisse o soffrisse. Finivano per sfumarsi i contorni di se stessa, ed Erin sentì quel che l’altra sentiva.
    Ma se in ogni salto nel vuoto prima d’allora c’erano state due braccia ben precise ad afferrarla al volo, quella volta l’impatto fu rovinoso. Non furono le risposte di Elisabeth, né il bellicoso tamburellare di un apparato cardiaco impazzito, fu invece la voce aspra e severa di chi a lei in quel modo non aveva mai osato rivolgersi.
    Erin, piantala.
    Un fischio sordo nelle orecchie, un soffio di fiato ad incastrarsi in gola, e tutte le ossa della sua anima che andavano miseramente in frantumi allo schianto sul terreno.
    Il braccio teso ricadde lungo il corpo, le pupille ridotte a due punti spaesati nel paradossale verde rigoglioso delle iridi, e la lingua che le si incollava irrimediabilmente al palato senza più mostrarsi disposta a proferir parola.
    Non sentì nient’altro, nonostante fosse abituata ad ascoltare, guardò Joshua farlesi più vicino ma non lo vide, rapita da un’unica eco ridondante tra le tempie bollenti:
    Erin, piantala.
    La spazientita stizza che si rivolge al cane indisciplinato mentre infastidisce un ospite con cui si vuol fare bella figura, quella la percezione che le si solidificò addosso man mano che lo stridio di quelle sillabe le veniva risputato contro dalla propria coscienza. Non era ancora pronta a capire che qualcosa di prezioso si era appena rotto per sempre tra di loro, ma era abbastanza lucida da sapere cosa significasse non riconoscersi in quel comportamento. Non riconoscere lui. Non riconoscere quel che erano sempre stati.
    Desiderò attribuire ogni colpa al terzo elemento presente, un vertice portante di quella figura geometrica che per Erin cominciava a distorcersi, psichedelico riflesso della tempesta emotiva che le invadeva il petto e le viscere tutte. Guardò Elisabeth con la più folle brama di egoismo e risentimento, sentimenti di cui per natura ahilei era sprovvista, strizzò ogni fibra del proprio fegato in cerca di qualche goccia di bile utile a ristabilire la dignità che Joshua le aveva appena calpestato, eppure non trovò nulla di abbastanza utile, solo la distanza tra l’orlo del precipizio su cui si trovavano loro e l’abisso in cui lei invece era già precipitata.
    Osservò le spalle di Joshua richiudersi protettivamente verso la Lynch, le sue labbra scandire promesse che per lei erano tizzoni ardenti; in uno spicchio temporale alterato la figura riccioluta di Julian Miller urtò il corpo di colui che somigliava solo lontanamente al compagno delle sue estati, non avrebbe saputo dire quando accadde o perché, ma quel vorticante precipitare delle cose le costò una vertigine più forte che la fece indietreggiare di un passo.
    «Julian... non...»
    Si può cadere ancora dopo aver toccato il fondo?
    Erin, piantala.
    Il tocco di una mano sul braccio come il richiamo dei soccorsi dall’alto, e poi la presa più ferma sul polso che era la fune a cui aggrapparsi per tentare una risalita. Non era Joshua, non era la propria coscienza, solo l’essere umano più puro che le fosse mai capitato di meritare sul proprio cammino.
    Gli occhioni umidi incontrarono le dita di Joo-Hyuk mentre un brivido di infantile conforto scendeva come camomilla sulle sinapsi impazzite. Non aveva davvero sperato di poter contare sulla sua sorveglianza, eppure adesso sembrava rivelarsi l’unico elemento famigliare cui appigliarsi in un’orda di distruzione ed improvvise incertezze.
    Ancora un passo indietro, il corpo che voltava lentamente le spalle a qualsiasi cosa sarebbe accaduta al resto del gruppo, e a lui. Era la prima volta che lo faceva, la prima occasione in cui preservare se stessa sembrava essere più urgente che raccogliere i pezzi delle vite degli altri.
    Avrebbe sperato che Elisabeth ritrovasse il benessere, che Joshua le perdonasse quell’indebita invasione, ma lo avrebbe fatto solo dopo essere riemersa da un’apnea che minacciava di soffocarla.
    «P-possiamo prendere un po’ d’aria?»
    Lo soffiò al Black Opal mentre arrampicava su di lui uno sguardo straniato e confuso, la mano che cercava la sua con dita esageratamente tremanti e gelide come stalattiti.
    Avrebbe fatto in modo che tutti stessero bene, proprio come sempre, ma non avrebbe potuto farlo senza prima esser tornata a respirare.


    RevelioGDR

    E niente, morte fu.
  3. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Degli uomini ci si può approfittare a volontà, ma con le donne non bisogna tirare troppo la corda. Perché la donna, in fondo al cuore, desidera sempre dire la verità. Quanti mariti ingannano la moglie portandosi il segreto nella tomba? Quante mogli ingannano il marito e poi gli rovinano la vita sbattendogli in faccia la verità? E lo fanno perché qualcuno ha tirato troppo la corda. Seguendo un impulso improvviso (del quale si pentiranno, bien entendu), dimenticano ogni prudenza e si ribellano, proclamano la verità concedendosi un grande sollievo momentaneo.
    Accartocciata sulla propria spina dorsale, Erin si era tirata le ginocchia al petto incastrandole contro il bordo del tavolo che occupava, una mano a sorreggere il libro e l’altra impegnata a limitare l’avanzata sul viso di qualche ribelle ciocca rossa smossa dal vento. Amava perdersi nei pensieri d’altri tempi che incontrava inchiostrati sulle pagine dei propri libri, ancor più quando questi sembravano pizzicarla nel profondo dell’inconscio costringendola a soffermarsi su questa o quella riflessione.
    Fu in quel nugolo di pensieri che comparve la limpidezza della voce gentile di Joo-Hyuk, leggera e morbida nonostante la sua figura avesse letteralmente appena fatto irruzione nel più intimo spirito dell’irlandese. Erin, d’altro canto, non esitò a sollevare gli occhi nei suoi per restituirgli un sorriso caldo quanto il sole d’agosto.
    «Esattamente!» Una voce pulita e sicura, nonostante il volto si immobilizzò d’esitazione subito dopo. «...Sempre che tutto stia andando secondo i piani.»
    Sporgendosi in avanti avvicinò un occhio ad una delle fessurine intagliate nella scatola, quasi bastasse uno sguardo ad assicurarsi che la lucertola pietrificata non fosse ancora morta asfissiata. Soddisfatta da quell’analisi amatoriale, tornò piuttosto a riservare la dovuta attenzione alle parole del Black Opal, uno spunto il suo che sembrava dover essere tutt’altro che casuale.
    «Da queste parti non sembra esserci un buon rapporto con le differenze in generale.» Fece spallucce, quasi dovesse scusarsi lei per delle tradizioni che neanche le appartenevano. «Io sono abituata a rispettarle.»
    Aggiunse con noncuranza, disinteressata a porsi al centro di qualsivoglia merito esattamente come in qualsiasi altro aspetto della vita. Viveva di comprensione ed inclusione fin da che aveva memoria, non ne aveva mai fatto un vanto né qualcosa potenzialmente enfatizzabile.
    Richiuse il libro sospendendo con esso persino la citazione della Christie su cui si era concentrata poco prima, ma ebbe l’impressione che non fu quel gesto a far virare l’attenzione di Kwon sulla sua lettura, sembrava piuttosto che l’attenzione dell’altro cadesse con estrema facilità su quei dettagli davanti ai quali la maggior parte dei coetanei si mostrava indifferente.
    «Oh, è L’Assassinio di Roger Ackroyd.» Lo strusciò sul tavolo per riporlo da parte, prima di accennare un sorrisino a metà tra il vispo e l’impacciato. «Lo so, è strano, ma ti assicuro che il suo sarà l’unico cadavere su questo tavolo.»
    Si sarebbe presupposto di lei che leggesse fiabe e romanzi rosa, guardandola, il fascino degli enigmi da risolvere non sembrava dover appartenere ad un animo tanto puro e genuino: solo il tempo avrebbe svelato quanto Erin Murphy non fosse altro che la punta del suo stesso iceberg.
    Recuperata una posizione più consona sulla seduta, indicò a Joo-Hyuk una delle altre poltroncine in ferro battuto, quindi spinse verso di lui una tazza ancora miracolosamente fumante di tè verde.
    «Dovrebbe essere ancora caldo.»
    Impugnò a propria volta il rispettivo recipiente, e riprese a parlare solo dopo aver scaldato l’esofago con un paio di sorsi bollenti.
    «È per la religione, quindi?» Indicò il tomo di Alchimia con un gesto distratto. «Ti va di spiegarmelo?»
    Era abituata a rispettarle, le differenze culturali, ma v’era un lato estremamente scalpitante nel suo spirito che era anche costantemente spinto verso nuove conoscenze. Qualsiasi cosa riguardasse l’ignoto o il non-ancora-svelato, era per Erin una fonte inestimabile d’attrazione.


    RevelioGDR
  4. .
    Erin Brighid Murphy
    Irlanda ☘ 16 anni ☘ Ametrin ☘ Ex-Grifondoro ☘ Rettilofona ☘ Empatia ☘ Lentiggini ☘ Aria ☘

    She acts like summer and walks like rain.
    She listens like spring and she talks like June.
    Reminds me that there's a time to change.

    Eventi&Quest
    [x] Jingle Ball
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    Lezioni
    [x] - Lezione di Alchimia 22/23
    [x] -
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    Role tracker
    LEGENDA: ⭐ terminata | 📦 archiviata | 🍑 in corso | ❄️ sospesa
    ⭐[x] - The angel from my nightmare || Joshua
    🍑[x] - Ship to wreck || Zuleyka -
    🍑[x] - Say you'll haunt me || Blake
    🍑[x] - Parola di scout || Julian
    🍑[x] - Paper mache world || Joo-Hyuk
    🍑[x] - All together || Ametrin
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    Citazioni

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    Relationships

    Joshua Evans
    Relationship: Il primo e per ora unico ragazzo a cui si sia mai concessa, nonché migliore amico e confidente. Lo ha conosciuto durante le estati a Brighton, è per lui che ha scelto di intraprendere gli studi a Hidenstone.

    Deva Lestrange
    Relationship: Per antonomasia è la sua nemesi dai tempi di Hogwarts, rappresenta tutto ciò che Erin rinnega e ripudia del mondo, eppure le due sembrano destinate a dover condividere sempre i rispettivi percorsi di vita.

    Joo-Hyuk Kwon
    Relationship: Primo vero amico conosciuto a Hidenstone, è per lei un'oasi di tranquillità e spensieratezza, nonché un promemoria di quanto di buono ancora nel mondo possa esistere.

    code ©#fishbone
  5. .
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Era abituata ad assorbire sempre il meglio da tutto quel che viveva, per natura repellente all’autocommiserazione e allo sconforto, Erin possedeva l’innocua leggerezza di un cucciolo animale che dimentica fin troppo presto ogni dolore subito. Viveva meglio, in quel modo, non era tanto una scelta consapevole quanto più un incontrollabile istinto di sopravvivenza, lo stesso che in quel momento le aveva permesso di farsi coinvolgere e catturare a pieno dalla positività di Joo-Hyuk, rapita dalla spensieratezza di una parentesi di felicità che avrebbe probabilmente rimpianto entro solo una manciata di minuti.
    «Ehi, avremo sicuramente altre doti, dico bene Amalea?»
    Esordì così mentre tentava una frenata a ridosso della coppia che Kwon conosceva, un’improvvisazione che non portò risultati consistenti se non il rafforzamento del bisogno del sostegno dell’Opal sul suo terribilmente precario equilibrio.
    Il triste destino del baricentro di Amalea la confortò nel profondo, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di ammetterlo, scelse piuttosto di allungare una mano per spolverare qualche fiocco di ghiaccio dalle giocche di lei, un cenno di solidarietà tra leader indiscusse di goffaggine acuta. Un sorriso allargato poi su Brooks, a cui aveva già perdonato la spietata ironia di poco prima.
    «Il piacere di conoscervi è mio.»
    Lo era davvero per lei, un piacere; a discapito delle turbolenze che avevano minacciato l’inizio di quella serata Erin Murphy sapeva come far fruttare qualsiasi germoglio di allegria e avventura, che questo riguardasse eventualmente qualche rovinoso impatto col ghiaccio non sembrava doverla scoraggiare.
    Ma a proposito di turbolenze, stavolta le fu impossibile ignorare lo sbracciarsi della figura poco più indietro dei due neo-conosciuti, contorni ben famigliari che avevano macchiato di tormento e stizza gli anni più duri della sua adolescenza. Deva Lestrange la chiamava per nome, scolpita di ipocrisia nel sorriso e nei due occhi che non sapevano scaldarsi neppure nella più miracolosa atmosfera natalizia. Un velo di malcontento parve adombrare all’istante il volto puntinato della Murphy, mentre rivolgeva più che altro a Joo-Hyuk uno sguardo che tentò di essere sufficientemente eloquente.
    «Scusatemi, torno subito.»
    Vieni a raccogliermi se va a finire male, piuttosto.
    Facendo appello a quel che riuscì a recuperare dell’equilibrio e del poco appena imparato sul pattinaggio, Erin riuscì a raggiungere finalmente l’uscita della pista, recuperò velocemente le proprie calzature e sollevò infine il capo insieme ad un sospiro infastidito verso la fonte del richiamo.
    «Ti serve qualcosa, Deva?» Asciutto, un tono che non sfoggiava neppure nei suoi giorni peggiori. «Zuleyka, attenta alle ragnatele, hanno l’abitudine di intrappolare chiunque si avvicini troppo.»
    L’aveva notata affianco all’ex-Serpeverde, ma non era disposta né probabilmente pronta ad affrontare l’eventuale legame intercorso fra le due, soprattutto considerando l’inconsapevolezza del rapporto che intercorreva tra se stessa e Zuleyka, reduci solo della condivisione del firmamento intero.
    Ad un certo punto aveva imparato a gestirla, Deva, ma Hidentone restava una realtà estremamente diversa rispetto ad Hogwarts, e quella sera continuava a sembrarle troppo compromessa per poter fare affidamento al suo più noto autocontrollo. Fu l’istinto a guidarla nell’ennesima ricerca visiva della fonte di quello straniamento, ma il tempismo la tradì.
    Vide Joshua affiancare Elisabeth, lei rivolgergli qualche parola per poi allontanarsi dal centro dei festeggiamenti, in un cubicolo nascosto alla vista entro cui lui - sorprendentemente - la seguì.
    Ingoiò una vertigine mentre deglutiva amarezza, e se Deva avesse per caso proferito altro dal suo avvicinamento Erin di certo non l’avrebbe sentito. Finì piuttosto con l’incenerirla in uno sguardo che non le apparteneva, avvicinandosi solo per superarla con un sibilo tra i denti, del tutto incurante di quanto facilmente l’altra avrebbe potuto leggerle in volto ogni singola emozione provata.
    «Stammi lontana.»
    La tachicardia minacciava di strozzarla, se la sentiva rimbalzare nella gola mentre attraversava la Sala Grande ad un ritmo che provava a non superare quello cardiaco. Gli occhi fissi di fronte a sé, la mente disposta a difendersi da qualsiasi scena avrebbe trovato una volta giunta, e le viscere contorte in una matassa di agitazione e inadeguatezza, il concentrato di quella che era sempre stata la sua essenza, la miscela broibita che con Joshua aveva iniziato a digerire, ma che adesso le risaliva l’esofago come un rigurgito di acre bile.
    «Disturbo?»
    Sarebbe giunta a pochi passi dai due sulle ultime parole dell’Ametrin, il volto pietrificato in una disciplina traballante che non avrebbe retto a lungo. Gli occhioni verdi saltarono da lui a lei, prima di soffermarsi sul vestiario della Lynch, ironicamente somigliante a quello indossato dall’irlandese, eccezion fatta solo - proprio come le rispettive personalità - da ghirigori superflui di cui Erin non sentiva assolutamente il bisogno.
    «Belle scarpe, Elisabeth.» Deglutì, tirò su il mento. «Spero tu sappia già che in ognuna va tenuto un piede soltanto
    Qualcosa tra le sue tempie iniziò a fischiare, un tacito grido d’allerta mentre si spingeva sull’orlo di un baratro che non aveva previsto di dover affrontare. Non così, non per l’unica persona che le aveva sempre mostrato cieli sereni all’orizzonte.
    Avrebbe atteso eventualmente una risposta, prima di voltarsi verso il giovane e tendergli la mano di un braccio teso.
    «Tu che fai, Josh, resti qui o vieni a ballare?»
    Una scelta che pesava più di quella manciata di parole.
    Passato o presente.
    Morbo o cura.


    RevelioGDR

    Interagisce con Joo-hyuk Kwon, Amalea Davidson, Brooks Ryan O'Connor, prima di allontanarsi per raggiungere Deva L. Lestrange e Zuleyka., quindi intercetta gli appartati Joshua B. Evans e Elisabeth Lynch e li raggiunge. Scusatemela, è buona solo fino a prova contraria. :')
  6. .
    vAFIwHF
    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Qualche giorno dopo la lezione di Alchimia.


    Era brava prendersi cura dell’equilibrio che la circondava, Erin, il benessere delle anime limitrofe era il suo personale comfort, una panacea completa e riempitiva che le donava pace e ristoro. Era cresciuta in mezzo a così tante turbolenze da aver sviluppato, per una sorta di antitetica reazione difensiva, un amore esagerato per la quiete e la stabilità.
    Non un merito, di certo neanche un vanto, più che altro un invalidante senso di empatia ed altruismo che talvolta la annichiliva completamente, convincendola ad annientarsi senza alcun rimorso pur di salvare le armonie circostanti. Era un umano cuscinetto ammortizzatore, lei, la boa sul fianco delle chiglie, il parafulmini dei grattacieli più alti.

    Potrebbe essere meglio imparare l’Elego Recresci prima dell’arrivo delle vacanze.
    Terrazza alle diciotto in punto,
    Erin


    Una calligrafia distratta e veloce che ne confermava il mittente, una mezza pergamena macchiata sul bordo con l’inchiostro gocciolato dal calamaio, un gufo arzillo e pimpante a recapitare la missiva nel dormitorio dei Black Opal, diligente e preciso nel riconoscere il destinatario senza concedersi margini d’errore. Era stata chiara con l’animaletto, Erin, avrebbe dovuto consegnare la posta discretamente e senza accettare intermediari di sorta.
    Non era esattamente una promessa da mantenere, quella su cui avrebbe lavorato quel giorno, piuttosto una forma più genuina e spontanea di vincolo di lealtà che nessuno a parte lei doveva aver realmente percepito; era piuttosto certa che quando Joo-Hyuk le aveva chiesto delle ripetizioni non si fosse aspettato effettivamente alcun tipo di obbligo da parte sua, ma sapeva d’altro canto piuttosto bene quanto un’offerta di quel tipo solleticasse le motivazioni della propria coscienza.
    Nessuno che la conoscesse bene si sarebbe sorpreso, dunque, sapendo quanto velocemente i pensieri fossero corsi al coreano quando quel pomeriggio, di ritorno dall’ultima lezione, aveva sorpreso in uno spicchio di tiepido sole il corpicino mutilato di una lucertola, forse troppo tentata dal calore inusuale di quella giornata di novembre da abbandonare il letargo, eppure ormai troppo intorpidita dal sonno stagionale per poter sfuggire a qualche predatore più fortunato. Era sopravvissuta, ma aveva perso la sua coda.
    «Immobilus.»
    Si era accovacciata sulle ginocchia ad osservarla per qualche secondo, Erin, prima di avvolgerla nel tepore di quell’incanto paralizzante al fine di raccoglierla premurosamente tra le mani. Non aveva mai avuto problemi a toccare con mano ogni forma di vita esistente in natura, non fu strano perciò neppure depositare la creaturina in una scatola vuota dopo aver munito quest’ultima di feritoie respiratorie.
    Sapeva che l’incantesimo aveva dei limiti, perciò non perse tempo e raggiunse direttamente la terrazza, primo luogo utile che le venne in mente dove non avrebbe dato nell’occhio nel maneggiare un rettile immobilizzato. Aveva quindi scarabocchiato l’invito per Kwon e sistemato il tomo di Alchimia sul tavolo scelto insieme agli appunti.
    Aveva gentilmente chiesto ad un elfo di passaggio se fosse possibile avere due tè caldi per la merenda, una richiesta probabilmente inusuale per qualsiasi studente, ma molto più considerabile se ad avanzarla erano gli occhioni verdi colmi d’innocenza dell’irlandese.
    Talora Joo-Hyuk avesse accolto il suo invito, una volta giunto nello spazio esterno l’avrebbe trovata intenta a leggere il romanzo a cui si era appassionata quel mese, sul capo un cappello a tesa larga color sabbia, e tra le sopracciglia un cipiglio concentrato che ne confermava il totale straniamento dalla realtà.
    Era sempre facile, per lei, quel salto fuori dal mondo.


    RevelioGDR
  7. .
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Aula di Alchimia, un giorno prima.
    Si era voltata giusto in tempo per incassare il bisbiglio rivoltole dal riccio accanto a Joo-Hyuk, ma non poté dirsi altrettanto rapida ad indovinare quel che realmente significasse.
    «Domani? Io non...»
    ...posso, sono sicura, ho idea. Mille modi di concludere una frase che rimase invece sospesa a metà: il Dioptase non la stava già più guardando, figurarsi se l’avrebbe ascoltata. Nonostante l’evidente intonazione interrogativa, quella appena ascoltata parve dover essere la più retorica delle domande mai ricevute da Erin.
    Tornò concentrata sulla fine della lezione con un cipiglio confuso tra le sopracciglia, rimandando ogni valutazione a più tardi.

    Corridoio appena fuori dalla Sala Grande, un giorno dopo.
    Impossibile negare che se la fosse presa comoda, Erin Murphy, come altrettanto lo era la certezza che l’irlandese avesse completamente, irreversibilmente, e rovinosamente dimenticato l’appuntamento siglato senza troppe clausole alla lezione di Alchimia. Aveva mangiato una doppia razione di zuppa, trangugiato un paio di bicchieri di succo, e parlottato occasionalmente con alcune compagne di casata a cui si era unita per la cena. Tutto come al solito insomma.
    Fu accanto a loro che uscì, quando ormai la sala andava svuotandosi, e fu proprio loro che vide sgattaiolare via in preda ad un improvviso rossore di gote quando qualcuno parve rivolgersi proprio a lei con parole inequivocabili, scandite da una voce che solleticò reminiscenze vaghe in una memoria davvero pessima.
    Julian, il riccio di Alchimia.
    Julian, il riccio di Alchimia che le aveva chiesto cosa facesse l’indomani.
    Julian, il riccio di Alchimia che adesso la guardava in una chiara personificazione di tutti i suoi sensi di colpa.
    «...Oh!» Ti passo a prendere dopo cena e ci facciamo un giro. «Certo! Mai stata così pronta.»
    Mai stato così falso.
    Prima o poi sarebbe riuscita a trovare una pozione concilia-memoria sufficientemente forte da farle tenere insieme i pezzi della sua vita, magari un distillato arcano, un rituale voodoo, qualcosa che ponesse rimedi ai casi persi insomma.
    Il rovescio della medaglia di un’anima così disorganizzata, comunque, era appunto l’abitudine a non organizzare praticamente nulla; non avrebbe fatto alcuna differenza il ricordarsi di quell’appuntamento - se così lo si voleva chiamare - Erin non era avvezza ad incipriarsi il naso od abboccolarsi i capelli, in un caso o nell’altro Julian l’avrebbe trovata esattamente come la stava vedendo adesso, forse solo con meno rimorsi di coscienza tra le lentiggini.
    Era una fortuna che l’altro paresse completamente focalizzato sulla propria persona, un egocentrico votato al bene, un oratore delle masse quasi. Il ritratto che Erin scolpì nella mente aveva molti più dettagli di quanti sarebbe stata pronta a confessarne, ma la natura l’aveva privata anche della più innocua inclinazione al pregiudizio, perciò bastò la solita leggerezza a spolverare via i pensieri per riportarla, come d’abitudine, a cogliere semplicemente l’attimo che stava vivendo.
    «Erin Murphy, colei a cui non basterà tutta la vita per riuscire a conoscerlo tutto, questo castello. Può andare?»
    Accennò un sorriso, dopo aver accettato senza alcuna malizia il braccio che lui le offriva. Dire che differissero in statura sarebbe stato un eufemismo, niente a cui la Murphy non fosse già abituata, e non sarebbe trascorso molto tempo prima che i due risultassero caratteristicamente opposti su parecchi altri fronti.
    «Allora non è vero quello che dicono dei Dioptase.»
    Iniziò, vaga e pensosa, facendo appello a tutte le abilità di colloquialità di cui aveva avuto modo di munirsi negli anni. Sapeva apprezzare anche il silenzio, Erin, ma si trovava molto più a proprio agio nella conversazione, e non era da escludere dalle considerazioni la sana meraviglia che era in grado di provare ad ogni nuova conoscenza. Avrebbe lasciato quel mondo piena di informazioni e saperi, lo diceva sempre, se Julian poteva collaborare a quell'impresa nessuno se ne sarebbe lamentato.
    «Persone arroganti ed egoiste non offrirebbero mai né il braccio né la condivisione di una delle loro stanze preferite ad una perfetta sconosciuta.»
    Gli schioccò dal basso un’occhiata incuriosita, del tutto incurante di quanto i tratti femminili del suo volto stridessero con l’innocenza di cui era invece intrisa ogni sua parola.
    Era la condanna di Erin Murphy, quella, l’essere completamente inconsapevole della propria presenza nel mondo.


    RevelioGDR
  8. .
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Era tipico di Erin sottovalutare le situazioni, ma lo era altrettanto improvvisare rimedi per sopportarne ogni effetto collaterale. Non sopperiva mai, lei, non era capace di piangersi addosso, la infastidiva anche solo l’idea di dover annegare nell’autocommiserazione; era invece piuttosto brava a guardare oltre per strizzare solo il meglio - o il meno peggio - dalle situazioni con cui quotidianamente si interfacciava.
    Era un po’ quello, ciò che stava facendo adesso con Joo-Hyuk, determinata a cavalcare la lastra di ghiaccio stabilizzato senza contemplare neppure per un secondo l’eventualità di una catastrofe. Sarebbe caduta e avrebbe ritentato, ma quel giorno intendeva portarsi a casa almeno la soddisfazione d’aver imparato quel che non aveva mai neppure osato tentare prima.
    «Muletto, grazie.» Tirò su il mento, afferrando entrambe le mani dell’altro con le proprie. «Tu guidami che io imparo in fretta.»
    Quel che si limitò a fare in realtà fu piegare le ginocchia e divaricare appena le gambe, prima di fissare uno sguardo estremamente concentrato negli occhi del coreano. Sembrava convinta che fosse un buon inizio, che poi mancasse di qualsiasi forza motrice per la prima spinta di pattinaggio non sembrava un pensiero che la scomodasse granché. Il mondo per Erin viaggiava su regole anticonformiste ed astratte, a lei era sempre piaciuto di più così, perciò focalizzarsi sull’esperienza di JH le avrebbe semplicemente permesso di assorbirne a propria volta il talento.
    Quel che non avrebbe mai potuto prevedere neppure nelle più anticonvenzionali dimensioni parallele, tuttavia, fu l’interferenza di una palla di pelo rossiccia letteralmente alla deriva sulla pista, una bizzarra personificazione del suo futuro più imminente probabilmente, oltre che l’innesco perfetto per un improvviso e rovinoso precipitare degli eventi.
    «Oh no! Nononon-!»
    Quella che aveva creduto essere un’àncora di salvezza divenne entro pochi istanti una zattera in via d’affondamento, così Erin sentì mancare la stabilità del corpo di Kwon ed al contempo la più esimia resistenza imposta al proprio baricentro non abbastanza esperto. I piedi iniziarono a slittare sul terreno ghiacciato senza alcun tipo di coordinazione, il peso di Joo-Hyuk sbilanciato improvvisamente su di lei costrinse l’equilibrio a sopperire, ed entro appena un altro paio d’ansimi sconnessi Erin si ritrovò letteralmente inchiodata alla balaustra perimetrale della pista, il freddo del ferro contro i reni che contrastava esageratamente il calore del corpo dell’Opal vicino, vicinissimo, praticamente addosso.
    Si accorse di avergli allacciato le braccia intorno al collo solo quando lo sentì tirare indietro il busto, allora Erin accettò di allentare la presa senza tuttavia trovare il coraggio di lasciare le sue spalle, i piedi che continuavano a scivolare qualche centimetro a destra e poi a sinistra quasi a voler infierire sul disastro appena scatenatosi.
    Lo guardò negli occhi per pochi secondi, assorbendo in un silenzio sbalordito la disinvoltura delle parole che lui scandì poco dopo, quindi fece l’ultima cosa che solo pochi minuti prima avrebbe creduto possibile: scoppiò a ridere. Forte, di cuore, di stomaco, lasciò venir fuori l’ilarità che la caratterizzava nella sua più pura essenza, quella che le permetteva di ridere di ogni disgrazia ed apprezzare persino i più rocamboleschi imprevisti della vita come fossero stati solo parte della più ironica delle commedie.
    Lo fece fino a sentire le lacrime agli occhi, finché la pancia non iniziò a far male dal troppo scuotersi, finché non arrivò a chiedersi quando fosse stata l’ultima volta che aveva riso così tanto...
    Il lampo di un ricordo qualunque delle spiagge di Brighton le attraversò gli occhioni verdi come un lampo a ciel sereno, le labbra ammorbidirono gradualmente i singulti delle risate e qualcosa in lei tornò a smuoversi di nostalgia. Era ovviamente stato con Joshua che aveva riso così tanto per l’ultima volta, era praticamente solo con lui che succedeva di lasciarsi andare ad una tale innocente spontaneità.
    «Okay, adesso farò una piroetta e tutti applaudiranno.»
    Ma ad Erin la nostalgia stava stretta, la feriva più di quanto avrebbe dovuto, le ricordava tutte le volte in cui era stata scartata e rinnegata da quand’era venuta al mondo, era in altre parole il veleno per lei più efficace. E per questo, lei, lo rigettava come un corpo allergico.
    Cercando di ritrovare la dovuta compostezza, sfruttò la tana di sicurezza costituita dalle braccia di Joo-Hyuk per roteare goffamente su se stessa, l’ampio abito a non agevolare minimamente la manovra e le gambe leggermente tremanti di esitazione.
    «Guidi tu?»
    Schioccò solo uno sguardo all’indietro, cercando la complicità del compagno di sventure con un sorrisino serafico, prima di tentare di guidare le sue mani ai lati della propria vita. Da davanti si sarebbe goduta la vista, ma lui da dietro le avrebbe impedito di precipitare prima d’aver compiuto il primo passo.
    Se il moro avesse assecondato le intenzioni, l’irlandese avrebbe allora allargato leggermente le braccia, implorando il proprio equilibrio di non tradirla troppo presto, per azzardare finalmente il primo giro di volo su quella distesa perlacea.


    RevelioGDR

    Sopperisce al capitombolo con Joo-Hyuk, e poi riprova a pattinare con lui perché barcolla ma non molla.
  9. .
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Quella era indubbiamente una delle poche cose a cui Erin Murphy non avrebbe mai potuto fare l’abitudine. Occasioni formali, abiti scomodi, tacchi così sottili da minacciare l’incolumità delle caviglie meno allenate, e troppi pezzi di passato concentrati in un’unica sala paradossalmente troppo piccola, per quanto immensa potesse rivelarsi allo sguardo.
    Percorse scale e corridoi con la prudenza di chi ha appena imparato a camminare, cercava almeno di tenere alto il mento e dritte le spalle, ma le onde svolazzanti dell’abito e la poca discrezione di quest’ultimo non le rendevano facile l’abitudine a passare inosservata.
    L’aveva scelto per lei la commessa della boutique, insistendo su come quella miriade di diamantini avrebbero brillato sul suo incarnato diafano, incendiando se possibile ancor di più la folta chioma rossa definita in boccoli a dir poco perfetti. L’averli tenuti completamente sciolti sulle spalle le conferiva quella minima sicurezza in più, certo non sufficiente a rallentare la tachicardia, ma utile almeno a farla sentire minimamente se stessa in mezzo ad uno sfarzo che mai prima d’allora aveva potuto contemplare in vita sua.
    Entrò da sola nella Sala Grande, indugiando qualche istante di troppo sull’uscio senza voler cercare niente e nessuno con lo sguardo. Non si era davvero aspettata un invito ufficiale, lei e Joshua viaggiavano su binari lontanissimi da convenzioni di quel tipo, eppure in quel momento non poté fare a meno di chiedersi se fosse pronta a vederlo lì in compagnia di qualcun altro. Hidenstone era pregna di storia, per lui, trascorsi che per quanto addormentati dovevano ancora potersi dire vivi e svegli, ombre in un armadio che forse Erin non era davvero pronta a spalancare.
    Si impose almeno di non puntare gli occhi sui propri piedi, immettendo nei polmoni tutta l’aria necessaria a riossigenare il cervello, quindi selezionò qualche attività apparentemente interessante per concentrarvi tutta la propria attenzione.
    Non aveva mai visto una pista di pattinaggio natalizia, prima d’allora. In effetti non aveva mai visto niente di tutto quel che riempiva la sala, per lei il Natale non aveva mai significato festeggiamenti o magie di sorta, solo la più triste routine in una famiglia disfunzionale che a stento si accorgeva delle più usuali convenzioni.
    Con una luce tutta nuova negli occhi, quindi, scelse di puntare proprio a quella distesa di ghiaccio per cominciare, una mera speranza di intrattenersi nell’arco di una serata che minacciava di rivelarsi più lunga di quanto voluto.
    Fu sulla strada che incrociò la figura inequivocabile di chi già una volta l’aveva salvata dal disagio più tipico di ogni novellino. Le mani affondate nelle tasche e le labbra a formulare una domanda dalla risposta tristemente prevedibile.
    «Se mi fai da spalla provo a corrompere qualche veterano.» Affiancò Joo-Hyuk continuando a guardare avanti. «Sono sicura che la maggior parte accetti di partecipare solo armato di sostanze forti.»
    Un sorriso a distendere le labbra carnose, tinte di un rosso acceso per l’occasione, mentre gli occhi finivano sul viso del coreano offrendogli la vista su ogni fremito interiore che le stava agitando le viscere. Un libro aperto. Come sempre e più che mai.
    Fu allora che un magnete invisibile catturò il suo sesto senso - o forse solo il campo visivo più prossimo - rivelandole proprio alle spalle dell’Opal una scena che ebbe il potere di farle venire una sola, singola, sfiancante vertigine.
    La figura di Joshua Evans spiccava in lontananza da dietro Kwon, avvolto in un completo che lo vestiva spaventosamente bene, delicato e sfrontato come l’anima di chi lo indossava. Non fu tanto il vederlo impegnato a poca distanza in una conversazione con la Caposcuola Dioptase, né la più prossima vicinanza dell’Opal dagli occhi da gatta, quanto più il semplice saperlo presente senza che gliene avesse fatto parola. Parlavano di tutto, in genere.
    Deglutì, mandando giù il sospetto che le prime ombre iniziassero a svincolare dagli spiragli dell’armadio, cercando di ignorare quella martellante sensazione di non essere voluta lì, di non dover vedere, sentire, o anche solo conoscere i pensieri più superficiali dell’unica persona che di lei invece conosceva sempre tutto.
    Distolse lo sguardo solo per tornare a puntellarlo su Joo-Hyuk, ostinata e più trepidante di prima.
    «Sai pattinare?»
    Gli avrebbe rivolto un cenno che indicava la pista, ma le gambe ormai non le avrebbero più concesso di starsene ferma nella stessa posizione per più di tre secondi filati, così - a prescindere dalla risposta dell’altro - Erin si sarebbe avviata a grandi passi verso la distesa ghiacciata, ringraziando gentilmente l’elfo che le offrì un paio di pattini per poi varcare l’uscio della recinzione come il più splendente e fiero fiocco di neve incendiario.


    RevelioGDR

    Arriva da sola, intercetta Joo-Hyuk poco prima di notare Joshua circondato da femmine (?), quindi propone al primo una pattinata.
  10. .
    Erin Murphy sicuramente presente :3
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Erano giorni che Meala si comportava in modo bizzarro; era irrequieta, sempre nervosa, particolarmente ribelle. Non mostrava comportamenti tanto ingestibili dai tempi dell’adolescenza, quando si ostinava ad infilarsi nelle pantofole di sua nonna provocando puntualmente all’anziana dei veri e propri attacchi cardiaci. Sembrava come se qualcosa la agitasse, impedendole di rispettare quel codice di docile obbedienza che ormai da anni le permetteva di affiancare Erin nel ruolo di compagna più fidata.
    Era una vipera dal cuore buono, Meala, golosa di briciole di carne essiccata ed appassionata di penne, utili a dilettarla quando sceglieva di attorcigliarvi intorno i suoi modesti ventisette centimetri di corpo. Tendeva a non disturbare mai la sua protetta durante i compiti, sempre timida davanti agli estranei, e apprensiva guardiana della testiera del letto durante le notti di pioggia.
    Quel giorno Meala era scomparsa.
    Neppure quello succedeva più, a dire il vero, l’animaletto pareva aver trovato facilmente un suo comfort persino negli estranei ambienti di Hidenstone, seguiva Erin a lezione arrotolandolesi al polso ed a stento si lasciava notare dagli osservatori limitrofi. Il fatto che quel pomeriggio l’irlandese non riuscisse a trovarla da nessuna parte confermò l’esistenza di qualche fenomeno che il famiglio doveva trovare disturbante.
    «Un tempismo perfetto per mettersi a fare i capricci, complimenti!»
    Lo urlò al vuoto assoluto della scalinata che stava discendendo, Erin, esasperata da una ricerca sfiancante che la stava costringendo a sacrificare un pomeriggio di studio dalla preziosità inestimabile. Quella sensazione di non essere mai abbastanza al passo con il livello accademico dei coetanei la portava a sfruttare ogni pausa dalle lezioni in biblioteca, il naso nascosto dietro qualche vecchio tomo e la scrivania invasa da appunti d’ogni tipo. Niente che dovesse avere a che fare con la folle ricerca di un serpentello dispettoso, insomma.
    Talmente presa da quei rancorosi pensieri, la Murphy peccò presto della disattenzione che nella vita la portava costantemente ad inciampare, saltare appuntamenti, o incappare in ritardi di sorta. Una sbadataggine totalmente ingenua, la sua, che qualche volta però poteva costarle conseguenze irreversibili.
    Non si interrogò più del necessario, infatti, in merito a quel tragitto in discesa costellato da candelabri, a dire il vero non si interrogò affatto, continuando piuttosto a perlustrare ogni angolo tra gradini e corrimano in cerca dell’evasa.
    Inutile specificare, dunque, che non si rese neanche lontanamente conto di essersi appena addentrata nella parte più accessibili delle segrete.
    Si ritrovò a stringersi le braccia al petto quando l’umidità iniziò a pungerle le ossa, fastidiosa e pungente in quel sentiero di roccia che sembrava non dover portare a nessun posto in particolare.
    «Hai intenzione di farmi saltare anche la cena o pensi di venir fuori prima che mi arrabbi sul serio?!»
    Era abituata a rivolgersi alla creaturina come se quella potesse effettivamente comprendere ogni singola sillaba, e di solito finiva per farlo con ancora più enfasi quando aveva bisogno di sfogare qualche emozione troppo forte con qualcuno che non le facesse avvertire il peso di quell’abbassamento di guardia.
    Intanto l’umidità aumentava, le fiaccole si facevano più rade, ed ogni svolta pareva allontanarla sempre di più dal brusio che aveva lasciato al piano superiore.
    Fu allora che un vago senso di inquietudine scese come un velo a solleticarle la nuca, una ragnatela di brividi a farle accapponare la pelle, e la sensazione di aver appena commesso un errore che le strisciava nello stomaco agitandola d’angoscia.
    Dove diavolo era finita?
    Strinse i denti tra loro per non sentirli tremare, sapeva che sarebbe successo, la solitudine non le piaceva neppure nel mondo normale, figurarsi in quell’intestino di strade anonime ed isolate. E quelle poi cos’erano, celle?
    «Dio, no...»
    Annaspò in un singulto di terrore, spalancando gli occhioni verdi nel realizzare quel che aveva intorno. Quindi si voltò, Erin, intenzionata a tornare indietro per rimandare la ricerca ad un luogo meno inquietante di quello, solo per rendersi conto che indietro la strada appariva irriconoscibile quanto quella che aveva di fronte. Era finita in una specie di labirinto sotterraneo, troppo buio e silenzioso per poter sembrare confortevole, ed apparentemente privo di una via di fuga abbastanza evidente.
    In altre parole, secondo ogni possibile previsione, Erin si era appena persa.


    RevelioGDR
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Le strade erano due, entrambe proiettate al futuro.
    Un giorno abbastanza lontano da poter guardare indietro come si fa con la storia, Erin avrebbe ricordato quel giorno - e quell’incontro - come il più sbagliato o il più giusto di tutta la sua vita. Qualcosa in lei ne era fermamente convinta, la stessa qual cosa che le suggeriva che persone come Zuleyka non potevano cimentarsi in chiacchiere di circostanza destinate alla banalità; persone come lei lasciavano segni, colpivano per essere ricordate, e non permettevano a chi vi incappasse di dimenticarle con auspicata facilità.
    Persone come Zuleyka, tra le altre cose, non sembravano preoccuparsi granché neppure delle più convenzionali norme civili, ed Erin quello lo scoprì quando sentì lo sguardo dell’altra incollarlesi addosso come resina, insistente ed ostinato, attraente e fatale come la più elegante delle ragnatele.
    «Si dice che offra diversi tipi di visioni, non solo quella banalmente telescopica...»
    Lo disse in risposta alla prima considerazione in merito all’aliscopio, e lo fece con voce distratta che non riusciva a reggere la sfida con quegli occhi pieni di sfrontatezza. Lo disse per dire qualcosa, per ampliare del minimo indispensabile il valore di un oggetto che in quel momento sembrava non poter essere a sua volta abbastanza importante. D’altra parte, se a persone come Zuleyka non era mai importato, sembrava non dover importare a nessun altro.
    Con quell’ombra scrutatrice ancora addosso, Erin provò a guardarsi intorno in cerca di un appiglio sicuro, un angolo di sicurezza che prevenisse la demolizione persino della sua certezza di poter ancora camminare.
    Lo trovò su una panca in legno, situata in un punto diametralmente opposto rispetto alla ragazza ma non troppo lontano da rendere ardua una potenziale interazione. Era salita fin lì nell’illusoria ricerca di una solitudine, solo per scoprire che la solitudine era l’ultima cosa di cui avesse bisogno, se l’altra sembrava a proprio agio nel disagio altrui, persone come Erin se la cavavano molto meglio nella colloquialità più naturale.
    Ascoltò le ultime parole di lei mentre sedeva sul legno, le ginocchia raccolte al petto e le braccia a cingerle per non disperdere più calore del necessario. Ancora piccola, sempre un punto indistinto nel mondo troppo grande.
    «Non sembri una persona che teme l’ignoto.» Persone come Erin sapevano leggere. «Non sembri una persona che teme e basta, in realtà.»
    Tornò a guardarla mentre le ciocche infiammate le si agitavano sulla testa, danzando in un vento che minacciava di farsi sempre più aspro, ma che ancora non mitigava quel bisogno più terreno di concretezza ed interazione.
    Non credette ci fosse bisogno di specificare l’origine di quella sua insinuazione, Zuleyka era tra gli elementi più difficili da ignorare di tutto l’istituto, sembrava dal canto suo vivere su un piano spazio-temporale completamente diverso da quello di tutti gli altri, senza tuttavia voler badare agli effetti di questa consapevolezza su chi si trovasse a circondarla.
    Erin, dal basso della sua umile normalità, sapeva bene di temere parecchie cose, e non ebbe paura di includere in queste anche gli eventuali effetti di un telescopio magico. Sapeva tenerli egregiamente a bada, i propri timori, ci conviveva come fa un pazzo in un manicomio, rassegnata e comprensiva, ma non aveva mai provato l’ebbrezza di sfidare l’oblio senza temerne le ripercussioni.
    E Zuleyka, invece?
    Avrebbe atteso ancora qualche attimo, sicura di ricevere come sola cortesia unicamente un prolungamento di quel silenzio insistente che già poco prima aveva visto brandire dall’Opal, quindi avrebbe raccolto ogni frammento di innocenza che la caratterizzava, ostentando di fronte a lance di imperscrutabilità un più accurato spiraglio di intuizione.
    «È persiano o arabo?» Avrebbe inclinato la testa su un lato, tormentando con le dita l’orlo dei pantaloni sulle caviglie. «Il tuo nome, intendo, si addice al tuo aspetto ma non ai tuoi tratti.»
    Il suo nome gridava Irlanda quanto il cognome, l’accento, e le lentiggini, il patriottismo di chi l’aveva messa al mondo aveva toccato il picco massimo di arroganza in quell’anima abbandonata alla vita come un avanzo di cena, ma Zuleyka era diversa, meno leggibile, un contrasto vivente che vedeva un apice in ogni aspetto di lei. Che fossero i capelli, le sopracciglia, o l’appellativo, nessuno sarebbe stato in grado di interpretarla senza prima impazzire.

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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Non era mai stata brava a comprendersi, Erin, ma se l’era sempre cavata fin troppo bene ad ascoltare le vibrazioni delle anime che la circondavano. Finiva spesso, in effetti, a confondersi con esse dimenticando di possedere a propria volta uno spirito da nutrire, accudire, ed eventualmente curare; non si era neppure mai posta il dubbio di star vivendo effettivamente una vita a metà, lei che le esperienze se le ingurgitava ad ampie boccate, gettandosi da ogni dirupo con l’unica intenzione di compiere la più bella capriola in aria mai vista prima. Era come se finisse sempre per prendersi cura delle vulnerabilità altrui, godendo intanto unicamente del meglio che la vita riservava a lei.
    Prima o poi avrebbe dovuto chiedersi dove sarebbe mai potuta andare a finire, continuando in quel modo. Prima o poi, non certo adesso che il sollievo dato dall’idea che Joshua le fosse finalmente stato restituito continuava ad eclissare qualsiasi più recente preoccupazione.
    D’un tratto persino le peripezie accademiche di un istituto ben fuori dalla sua portata le parvero più tollerabili, le lezioni dalla dubbia moralità, i pranzi in un covo di divoratori che sembravano a stento accorgersi dello spazio che lei occupava sulla panca, la soddisfazione di aver contraddetto le più misere aspettative genitoriali, l’angoscia per aver strappato ai nonni sacrifici che non meritavano. Era tutto più giusto, adesso, un quadro di macerie e cenere che valeva la pena sofferta di ogni catastrofe superata.
    Accennò un sorrisino vispo alle prime parole dell’Ametrin, quelle che insinuavano una peculiare condivisione di precetti tra lui e l’oscuro esercito degli arroganti Black Opal, una definizione questa che si era sempre rifiutata di brandire per non cadere vittima di pregiudizi che non le piaceva assaporare.
    «Forse sono i tuoi, i colori da mettere in dubbio.» Concesse, senza pensarlo davvero. «Ma ho sentito dire che non sono contagiosi, quindi dovresti essere al sicuro.»
    Uno slancio di ottimismo verso un futuro che non avrebbe più voluto guardare al passato, o almeno che si illudeva di poterlo fare, ignaro di quanto entro poco tempo quella bolla di intimità avrebbe potuto infrangersi per riversarle addosso tutto quel che si era sempre convinta di poter gestire.
    Ricercò la sua mano per unirla alla propria, palmo contro palmo, più grande di qualche centimetro e protettiva come la sua intera persona lo era con lei. Ne sfiorò i polpastrelli dolcemente, prima di intrecciarne le dita e portarsi quel nodo di pelle e ricordi al petto, là dove lui avrebbe facilmente potuto percepire un battito cardiaco vivo, sereno, un animale domestico che fa le feste al rientro a casa dell’umano per cui vive.
    Joshua Evans avrebbe potuto mischiarsi all’essenza degli Opal in ogni modo possibile, fosse anche restando marchiato dagli occhi ipnotici di chi sapeva bene come divorare uomini, ma per lei sarebbe stato sempre più forte di qualsiasi contaminazione, al di sopra di uniformi e colori, così come lo aveva conosciuto sulle spiagge tiepide di Brighton. Solo Joshua, solo Jo.
    Quanto alla domanda che venne dopo, quella che le confermò un’attenzione maniacale a dettagli che chiunque altro avrebbe lasciato cadere per comodità, Erin tornò a farsi più seria sulle labbra, negli occhi, e dentro al cuore. Imporgli una verità più grande dell’innocenza che li aveva uniti sarebbe stato incredibilmente crudele, oltre che del tutto superfluo per entrambi; avrebbero forse un giorno parlato di quel che poteva essere, come il racconto di un romanzo letto qualche anno addietro di cui discutere su dettagli e sfumature, ma forse la mancata prontezza di lui era anche la più tenera volontà di lei di non scoprire, di non esporre, e di conseguenza di non mettere in pericolo ciò che sembrava vivere molto meglio sotto al velo, che fuori alla portata delle definizioni più convenzionali.
    Non c’era mai stato assolutamente niente di convenzionale, in effetti, in loro.
    «Prima o poi.»
    Eppure lo disse, annuendo in un cenno del capo, ci credette, lo promise così persino a se stessa: un giorno avrebbero tirato via il drappo di seta che li riparava dalla vista del mondo e di loro stessi, che fosse per raccontarsi una storia o per riconoscere una realtà, prima o poi avrebbero guardato oltre il parapetto, resistendo alle vertigini e riconoscendo la naturalezza di quel che erano stati, e che erano ancora, in un modo che non contemplava regole né pretesa alcuna.


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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Ebbe la certezza che Hidenstone differisse drasticamente da Hogwarts quando la risposta del docente le si schiantò addosso con un’onda d’urto quasi traumatica. Nella vecchia scuola l’etica e la morale condizionavano spesso gli insegnamenti, arrivavano talvolta a farsi addirittura fastidiose in mezzo a concetti imparati solo parzialmente per non danneggiare le coscienze. Hidenstone era diversa, le terre del nord lo erano, ed Erin seppe in quel momento che forse l’invalidante protettività delle tradizioni scolastiche ormai abbandonate non le dispiaceva poi così tanto.
    Un’ulteriore conferma a quanto appena notato giunse qualche attimo più tardi, quando da un drappo rivelatore spuntarono quelle che nessun occhio avrebbe potuto non riconoscere come carcasse. Si ritrovò improvvisamente a trattenere il respiro, non tanto per paura di scoprire un odore spiacevole quanto più per metabolizzare quel che stava guardando, mentre il bisbiglio del giovane al proprio fianco le faceva accapponare la pelle: non aveva idea di cosa fosse un Dahmer, ma se aveva a che fare con dei cadaveri mutilati avrebbe volentieri fatto a meno di quella puntata.
    A riscuoterla da quella doccia di inquietudine, comunque, fu proprio l’intervento di Kwon, seguito dalla controproposta di un docente che si rivelava bizzarramente comprensivo nei riguardi dei limiti morali del ragazzo. Erin, dal canto suo, fece saltare lo sguardo un paio di volte dal volto dell'uno a quello dell’altro, incapace di immaginare al volo quanto complessa avrebbe potuto rivelarsi per il coreano l’offerta del professore, quindi fece l’unica cosa che avrebbe potuto fornirgli un sostegno potenzialmente utile seppur discreto.
    «Animale di carta, tieni.»
    Un sussurro, diretto e chiaro anche se nascosto dietro alla mano che le copriva la bocca, stando attenta a non farsi notare da altri che non fossero Joo-Hyuk, mentre le dita dell’arto libero correvano a strappare un foglio verde pastello dal proprio blocco di appunti. Glielo passò casualmente, assestando poi una gomitata al manuale aperto sulle pagine dell’incanto trasfigurativo che sfruttava carta anziché carne, quindi lasciò cadere accidentalmente la propria penna sul capitolo adiacente, quello inerente alla reversione di una trasfigurazione già effettuata. Chartanimus e Reverto, due argomenti inclusi nel programma del loro anno che non avrebbero scomodato alcun tipo di anima vivente.
    Con un colpo di tosse sarebbe quindi tornata a pensare al proprio esperimento, sgusciando fuori dal banco per andare a selezionare la propria cavia. Avrebbe tanto voluto contemplare a sua volta una fede abbastanza rigida da consentirle di tirarsi indietro, e invece aveva solo bisogno di arrivare alla fine di quella lezione senza dare troppo nell’occhio.
    «Elego Recresci...»
    Fissò negli occhi il criceto che aveva accuratamente raccolto da quell’obitorio improvvisato, sentendo nella mano sinistra la bacchetta vibrare di un’energia che tuttavia non uscì mai dalla punta legnosa. Fece una pausa, inspirò a fondo, quindi focalizzò lo sguardo sul punto in cui sarebbe dovuta comparire una zampetta anteriore, evidentemente mancante.
    «...Elego Recresci!»
    Richiamò nella mente le sembianze di un arto artigliato, quello che sarebbe potuto appartenere ad un pappagallo tropicale, utile ad afferrare ed arrampicarsi, potenzialmente pratico anche per raccogliere una quantità maggiore di semi di girasole.
    Lo fece mentre sperava, nonostante i buoni propositi, che quel criceto non conoscesse mai un risveglio vitale.

    RevelioGDR

    Suggerisce a Joo-Hyuk un'idea per il suo esercizio, poi tenta di innestare (?) una zampa di pappagallo su un criceto.
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Quel che Erin aveva sperato di poter nascondere all’orizzonte finì per incastrarsi prevedibilmente negli occhi sempre attenti di Joshua, e lei non ebbe il cuore di meravigliarsene, per tanto che era abituata a leggersi attraverso il suo sguardo cristallino più di quanto non fosse a farlo ad uno specchio.
    Sapeva raccontarsi una verità sempre personalizzata, lei, aveva imparato a farlo fin da più piccola, quando accettare la realtà nella sua crudezza avrebbe potuto significare doversi abbandonare a scelte drammatiche, e nel tempo aveva deciso che digerire la vita per come lei la vedeva e non per come realmente fosse era molto più facile. Così aveva continuato sulla stessa linea anche a Hidenston, quando un incidente pozionistico riusciva a sembrarle semplicemente una capriola malriuscita di un’indole troppo curiosa, e non il primo grido di fragilità di uno spirito addestrato a non essere mai abbastanza. Questo lo lesse piuttosto sul volto di lui, ne assorbì la preoccupazione ed ammortizzò una premura che era abituata a rivolgere ad altri e mai a se stessa, e quando lui si fece più vicino per dar voce ad un dubbio più legittimo di quanto lei volesse, Erin fece ciò che sempre aveva successo di fronte ad una messa al muro: sorrise. Distese le labbra contro quelle di Joshua, schiudendole solo per mordere lascivamente le sue una o due volte, lenta e paziente, con lui e con le proprie verità, intenta ad ammorbidire pensieri troppo ispidi per quell’attimo di quiete al di fuori dal mondo.
    Lasciò che le ciglia si abbassassero sugli occhioni verdi, arrese all’unico sapore che avesse mai davvero considerato casa, e per attimi impossibili da quantificare lasciò semplicemente che quel bacio rispondesse ad ogni più proibita domanda.
    «...Lei è molto bella, avevi ragione.»
    Lo disse dopo, quando anche l’ultima goccia di nostalgia venne risanata da quella riunione di labbra, cosicché non ci fosse alcuna ombra esterna a contaminarne l’unicità. Non aveva problemi a parlare di altre donne, Erin, aveva conosciuto così a fondo Elisabeth attraverso i racconti dell’Ametrin da considerare sciocco qualsiasi fastidio in merito all’argomento. Ma loro due dovevano restare al di fuori di quel passato, per quanto vivo potesse ancora dirsi, lei nello specifico doveva restarne ben lontana.
    Aveva comunque detto il vero in merito alla Lynch, uno di quegli elementi che si era precipitata ad intercettare durante i primi giorni. Era bella, era Donna, sapeva di determinazione e consapevolezza come forse lei non avrebbe mai saputo dirsi, non aveva faticato a comprendere le armi del suo fascino. Eppure l’irlandese viaggiava su binari totalmente diversi, se Elisabeth era la luna nera di un eclisse, Erin era la libertà di una cometa, candida e ribelle fra le altre innumerevoli stelle ammiccanti.
    Quando il focus dell’argomento virò sui colori che entrambi condividevano pur sembrando poli opposti di uno stesso globo, Erin si concesse un sorriso vispo che la sapeva molto più lunga di quanto il suo volto di bimba lasciava intuire.
    Un perché all’opinione espressa da Joshua lei lo immaginava, e neppure in quel momento contemplò la possibilità di tacere quel che le passava per la mente.
    «Per convincerti che esiste davvero del mistero indecifrabile là dove tu semplicemente non sei pronto a guardare.» Sollevò una gamba sul suo bacino, si mise più comoda, cercò senza pudore i suoi occhi. «Hai sempre sofferto di vertigini, quando si parla di anime.»
    Incurante della delicatezza di quanto discusso, incastrò quel pensiero nelle iridi di lui come fosse un prezioso tesoro da preservare, che fosse o meno qualcosa su cui lui avrebbe concordato.
    Aveva sempre creduto che lui schivasse a grandi salti le più pericolose emozioni della vita solo perché timoroso di non meritarle, dubbioso di volerle davvero assaporare, ed ostinato nel più arrogante dei modi a negarne gli effetti collaterali alle persone vicine. Era il suo particolare modo di amare, quello di non amare affatto.
    Riprese la parola prima che quelle insinuazioni potessero spalancare abissi, comunque, tentando di anticipare risposte di cui nessuno dei due aveva realmente bisogno, e lo fece con la leggerezza di un politicante che maneggia argomentazioni economico-sociali dalla superflua rilevanza.
    «I Black Opal sono estremisti, troppo egoisti e sempre impegnati a muovere guerra al mondo...» Sospirò piano, un cipiglio pensoso tra le sopracciglia. «Ma la vita è fatta di sfumature, Jo, nessuno può considerarsi solo bianco o solo nero.»
    Una frase che forse in futuro si sarebbe tinta d’ironia, quella, un precetto che Erin aveva sempre brandito con orgoglio e decisione, ma che minacciava di ritorcersi contro colui che si sarebbe dimostrato disposto a sfidare i confini di quel bianco e di quel nero, arrivando a diluirsi di sfumature forse molto più del dovuto.
    Niente, comunque, a cui Erin avesse motivo di pensare adesso.
    «Resta qui stanotte.»
    Quel desiderio, piuttosto, perentorio come poche altre pretese mai espresse in vita sua, glielo pronunciò dritto negli occhi come la più irresistibile delle sentenze.
    Avevano fatto di peggio, nelle loro estati inglesi, dove le fughe notturne e i rientri dopo l’alba erano riusciti a sembrare i più perdonabili dei misfatti.
    Lei aveva bisogno di lui, e non intendeva tacerglielo.


    RevelioGDR
23 replies since 3/11/2022
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