Erin Brighid Murphy ☼ Ametrin
Le parve di non aver mai visto un osservatorio prima d’allora.
Fu su quel pensiero che si interruppe ogni riflessione, una boccata di stupore che investì la coscienza di Erin non appena i suoi piedi interruppero il passo sull’uscio dell’ultimo piano. Stringeva ancora al petto i tomi usati all’ultima lezione della giornata, addosso una divisa che iniziava a sgualcirsi per la poca attenzione che riceveva da chi la possedeva, e quegli occhioni troppo grandi rispetto al viso che sembravano volersi riempire avidamente della vista offerta dalla cupola, golosi come sempre di fronte alla meraviglia, ingordi, bramosi.
Non ebbe l’accortezza di guardarsi intorno prima di avanzare in quell’angolo di cielo ai confini del mondo, ipnotizzata quasi dalla miriade di stelle che le riservarono un tacito benvenuto attraverso miliardi di occhiolini luccicanti d’oro e argento. Neppure il vento, dispettoso nell’agitarle la chioma fulva, riuscì a guadagnarsi considerazioni necessarie a distogliere l’attenzione di Murphy da uno spettacolo mai visto prima d’allora.
Aveva sempre avuto un rapporto controverso, con il cielo, quel manto esageratamente sconfinato da far girare la testa al solo guardarlo, a volte rasserenante d’azzurro ed altre temibile nel suo grigio plumbeo che prometteva tempeste. Era la notte, però, che il cielo le aveva sempre permesso di osare mettersi più a nudo, quando nella statica oscurità si lasciava pungere di stelle e dominare dalla luna, suggerendo speranza e occhielli di libertà là dove il nero avrebbe dovuto soppiantare qualsiasi altra luce.
Era stato sotto a cieli puntellati di stelle che aveva assaporato le emozioni più forti, Erin.
Non ne comprese il motivo, ma se fino a quel momento un manto stellato le era parso stimolante e adrenalinico, quel giorno finire vittima della sua contemplazione la destabilizzò nel profondo. Fu un languore basso e borbottante, quello che le si mosse nello stomaco non appena la mente finì in balia della vulnerabilità che impone la notte, un vago senso di solitudine e nostalgia a cui non seppe dare un nome. Forse erano solo pizzichi di ricordi, il fare dispersivo e confondente di Hidenstone, la consapevolezza di una solitudine che non le aveva mai fatto bene e che nel tempo si era sempre impegnata ad evitare.
Fu quell’ultimo pensiero a permetterle di notare quanto, in realtà, in quell’osservatorio non fosse tecnicamente affatto sola. In netto ritardo rispetto a quanto suggerivano le più convenzionali norme di cortesia, forse, eppure perfettamente in linea con l’indole eternamente distratta di uno spirito troppo affaccendato a fantasticare per rispettare i tempi della vita reale.
«...Oh, Dio, scusami!»
Rabbrividì, un po’ per l’asprezza del vento e un po’ per quel rovinoso ritorno sulla terra ferma. Si umettò velocemente le labbra, Erin, mettendo a fuoco l’identità del primo ospite senza incontrare alcun tipo di difficoltà: come l’aveva riconosciuta a lezione, Zuleyka non si impegnò a passare inosservata neppure in quella bolla astrale. Più che i capelli - già di loro sufficientemente peculiari da non lasciarsi dimenticare - erano gli occhi, per la Murphy, ad aver guadagnato un posto di rilievo sul podio degli elementi più affascinanti dell’accademia. Unico punto considerabile convenzionale di tutta la sua estetica, sembravano riuscire a contenere senza vergogna tutta la sfrontatezza di cui la giovane si faceva baluardo, segno evidente di quanto la particolarità esibita nel vestiario reggesse perfettamente il passo con l’anima che per natura l’altra si portava dentro.
«Me ne vado, se ti ho disturbata.»
Alzò una mano, un segno di resa che colmò poco più tardi con un pugno chiuso di impaccio che l’irlandese tornò a portarsi al petto, strumento perfetto per tormentare l’angolo di uno dei libri imprigionati. Intendeva davvero fare quanto annunciato, quando lo disse, ma proprio quando ebbe smesso di dirlo una voce nella testa iniziò a gridare un bisogno totalmente opposto. Lo schiaffo invisibile che l’osservatorio aveva assestato al suo già precario equilibrio di nervi aveva operato manovre particolarmente delicate sulla sua coscienza, e l’ultima cosa a cui Erin in quel momento potesse dirsi pronta era restare sola.
«Anzi, forse potremmo restare entrambe, sembra esserci abbastanza spazio.»
Fin troppo, in effetti, c’era praticamente tutto il cielo.
Si disse disposta a vedere l’altra opporsi all’offerta, negò a se stessa di non essere pronta ad affrontare tutti quei fantasmi che le si erano infilati nel baule al momento della partenza, tra un indumento e l’altro. Eppure, se Zuleyka fosse stata abbastanza attenta ai particolari, avrebbe potuto vedere le spalle della rossa tremare impercettibilmente: se ci entrasse ancora la colpa del vento, a quel punto, nessuno avrebbe più saputo davvero dirlo.
Quel che intanto Erin si impegnò a fare fu accatastare a terra libri e tracolla, piccola in uno spazio di mondo che si impegnava sempre ad occupare solo quanto necessario e non di più, abituata fin da bambina a non disturbare, a giocare a non esistere, a non aver paura per non dover chiedere conforto. Avanzò poi più avanti, indicando quello che le parve si chiamasse aliscopio, senza ancora osare avvicinarvisi.
«Sai come funziona?»
Non si stava impegnando granché per rendersi invisibile, stavolta, ma dall’inizio di quell’anno scolastico troppe cose parevano aver raggiunto un punto di rottura, la soglia di un cambiamento, e tutto in lei iniziava a gridare all’evoluzione.
Un peccato, per Zuleyka, essere capitata proprio nell’occhio di quell’invisibile tempesta.