The angel from my nightmare

E.M.

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  1. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Di quella prima estate trascorsa lontana da Hidenstone, Joshua ricordava ogni cosa.
    La consapevolezza del non poter tornare, il dolore che sapeva di portare ai propri genitori, l'insicurezza circa ciò che ne sarebbe stato del futuro... credere di poter andare oltre al tumulto di emozioni che lo aveva invaso in quel frangente sembrava un'utopia, dunque mai e poi mai si sarebbe aspettato che gli eventi prendessero una ben determinata piega.
    Non era la prima volta che i genitori gli proponevano di trascorrere l'estate a Brighton, nella vecchia casa dei nonni paterni. Erano anni che non vi metteva piede, ma l'idea di cambiare aria per un po' non gli dispiaceva.
    Non era la prima volta neppure che i suoi occhi incrociavano lei, Erin Murphy, una ragazza poco più giovane che all'epoca aveva tredici, forse quattordici anni. Avevano giocato insieme da bambini, ma col il trascorrere del tempo e la maturazione di entrambi, si erano persi di vista. Non se la ricordava così, con quei lunghi capelli del colore del fuoco, le lentiggini a colorarle il viso e gli occhi dallo sguardo intenso in grado di risvegliare la sua curiosità. Eppure certe cose non cambiano nel corso degli anni; probabilmente non l'aveva mai guardata con gli occhi di adesso.
    Si erano osservati da lontano quei primi giorni di agosto, tentando un avvicinamento spontaneo quando meno se lo aspettavano. Quel legame fra loro era nato in maniera così naturale da lasciare Josh in sospeso al termine di quella estate, non del tutto pronto a tornare alla vita di sempre.
    Dopo una serie di spiacevoli notizie e le conseguenze che ne conseguirono, Erin era stata la prima cosa bella in grado di distrarlo dal pensiero di ciò che lo avrebbe atteso da settembre in avanti. La cosa più sconvolgente era stato scoprire che fosse una strega. Il mondo era decisamente piccolo se bastava guardare al di là della siepe per incontrare qualcuno che, come lui, era dotato di poteri magici.
    Trascorse molto tempo a tentare di carpire a sua madre informazioni significative circa la famiglia Murphy, ma non ne cavò un ragno dal buco. La curiosità che nutriva nei confronti di quella ragazzetta dall'animo vivace ma contenuto diveniva via via sempre più intensa, tanto da impedirgli di pensare a qualunque altra cosa.
    Erin ben presto divenne la droga di cui aveva bisogno. Le scrisse per buona parte dell'inverno, poco prima di perdere i contatti. Lei impegnata negli studi a Hogwarts, lui intento a recuperare i programmi che riusciva a svolgere in completa autonomia.
    Arrivò l'estate successiva e la ragazzina di undici mesi prima era cambiata ancora: più alta, più bella. Josh impiegò molto meno tempo, quella volta, ad approcciarla, e da allora fu tutto in discesa. Erin era in grado di aprirgli una finestra sul mondo che aveva sentito di aver perso, lui le raccontava degli anni trascorsi in quella realtà a cui lei si era da poco affacciata.
    Ancora oggi forse non riuscirebbe a identificare l'esatto momento in cui la sentì diventare qualcosa di più di una semplice amica, ma ricorderebbe perfettamente la sensazione che provò nel baciarla per la prima volta.
    Da quel momento Erin fu la sua unica certezza in un mondo che non sapeva dargliene altre. La terza estate a Brighton fu il coronamento di un anno di attesa, al termine del quale gli fu detto di poter tornare a Hidenstone.
    Ciò che accadde in seguito e come si sentì è cosa ormai risaputa. Rimettere piede nella scuola che gli aveva sconvolto la vita fu più difficile di quanto avesse preventivato. La ricerca di Erin era l'unica cosa che gli dava la forza di non crollare davanti ai timori che si erano impossessati di lui negli ultimi giorni. Aveva atteso pazientemente, poi aveva iniziato a domandare in giro se qualcuno la conoscesse e finalmente una ragazza dai colori degli Ametrin gli indicò l'infermeria.
    Con un sospiro di sollievo e il cuore che accelerò di poco i suoi battiti, corse a perdifiato verso il luogo indicatogli.

    Spalancò la porta stando bene attento a non far troppo rumore. Non gli importava di rischiare di svegliare gli eventuali pazienti, voleva solo farle una sorpresa. Erin non sapeva del suo ritorno, ma Josh sapeva di poterla trovare a Hidenstone.
    La vide e la riconobbe in un attimo, individuando la chioma rossa che spiccava vivace sulle sterili lenzuola da ospedale. Non sapeva cosa le fosse successo e in quel momento non riusciva neppure a preoccuparsene: era solo contento di vederla.
    Le si avvicinò con lentezza esasperante, attento a non fare rumore. Lei gli dava la schiena, sdraiata e del tutto inerme tra quelle lenzuola.
    Il respiro, lento e calibrato, gli fece capire che stesse dormendo e, sedendosi sul materasso, poggiò le mani su entrambi i lati del suo corpo. Il peso fu tale che la ragazza venne trascinata verso il basso e a quel punto che non si svegliasse sembrava poco probabile.
    Si avvicinò al suo viso scostandole una ciocca di capelli dall'orecchio, a cui si avvicinò sussurrando parole che avevano condiviso per tre lunghe e felici estati.
    «Possiamo vivere come Jack e Sally se vogliamo...»
    Ma se qualcuno glielo avesse domandato, Josh avrebbe risposto che no, non l'amava. Come non aveva amato nessuno prima di lei. Un segreto che per Erin non era tale e che la ragazza aveva finito per accettare, perché parte del suo essere. E in maniera del tutto egoistica, Josh quella volta non scappò come aveva fatto in precedenza. In quel momento aveva bisogno di lei.
    La sua vita era come un puzzle: nessun pezzo era più importante di un altro, ma risultavano tutti indispensabili affinché l'insieme iniziasse ad avere un senso.
    Attese di rivedere quegli occhi, momento esatto in cui avrebbe saputo che sarebbe andato tutto bene.
    Avrebbe pensato poi a cosa quell'incontro significasse, in un mondo in cui le due dimensioni della sua vita si intrecciavano in una medesima e pericolosa realtà.
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Non era mai stata la fortuna, il suo punto forte.
    Fin da quand’era venuta al mondo Erin aveva dovuto far fronte ad una sorte perennemente avversa, disinteressata, e spesso cinica nei riguardi di uno spirito troppo avventuriero per poter contemplare una qualche sorta di prudenza.
    Chi dunque si sarebbe sorpreso scoprendola ricoverata d’urgenza in infermeria ancor prima che il primo anno scolastico a Hidelstone potesse veder compiuti i suoi primi due mesi?
    Non ricordava granché dell’incidente, quel che non avrebbe mai dimenticato era piuttosto la sensazione rovente nello stomaco, una nausea irrefrenabile quanto l’ebollizione di un vulcano, e poi il voltastomaco che l’aveva prosciugata di qualsiasi energia: intossicazione da pozione malriuscita, quella la diagnosi. Non contagiosa, ma bisognosa di sorveglianza costante ed un’infinità di lavande gastriche a base di intrugli dal sapore insopportabile.
    Si era risvegliata in un letto troppo candido per i suoi gusti, asettico e sconfortante, il volto giudicante di un’infermiera a rimproverarla tacitamente per l’esperimento finito male, e la prima ondata di scoraggiamento come unica fedele compagna di giorni e notti.
    Non era la prima volta che si trovava costretta ad arrestare la sua perenne corsa alla vita, da ragazzina si era rotta qualche osso durante corse ed arrampicate, era crescita con le ginocchia eternamente sbucciate da esplorazioni incaute, ma quel primo fallimento nella nuova strada consapevolmente intrapresa sembrava dover pesare più di qualsiasi altro imprevisto incontrato prima d’allora.
    Aveva un valore tutto suo, per lei, Hidenstone. Non era il desiderio d’orgoglio da far guadagnare alla famiglia, né l’ambizione irrefrenabile di chi volesse costruirsi chissà quale carriera, non l’arroganza né l’esuberanza, era semplicemente la più innocente voglia di rivalsa. Non personalmente sua, ma di colui il quale quella scalata al successo se la vedeva stroncare sotto ai piedi a cadenza terribilmente regolare, ostruita e oltraggiata da un destino ben più crudele di quello spettato alla rampolla irlandese.
    Il pensiero che Joshua scoprisse quanto appena accaduto non la demoralizzava - certa che il ragazzo si sarebbe limitato a prenderla bonariamente in giro per quella goffaggine caratteristica in ogni sua impresa - ma se si soffermava a pensare a quanto banale fosse stato il motivo della sua frenata in confronto agli impedimenti ben più gravi che toccavano a lui la abbatteva completamente, gettandola in un abisso di delusione nei riguardi di se stessa che contribuì a rendere tutt’altro che sopportabili i giorni di convalescenza.
    Quel giorno aveva lasciato raffreddare il pranzo sul comodino ed ingurgitato unicamente la pozione curativa, il pallore sul suo volto faceva risaltare più del solito la miriade di lentiggini e la folta chioma fiammante già per natura indisciplinata; qualche ora trascorsa a leggere i manuali delle lezioni che stava perdendo, finché un sonno nutrito esclusivamente dalla noia non era sceso ad appesantirle le palpebre, convincendola a raggomitolarsi sul lato che rivolgeva alle vetrate per abbandonarsi ad un riposo che il corpo a dispetto dello spirito bramava disperatamente.
    Sognava parecchio, in quei giorni, sognò anche quel pomeriggio, complice certo la tempesta di pensieri e sensazioni che il nuovo inizio le aveva infuso nella testa fin dal primissimo giorno. Non avrebbe ricordato nulla della dimensione onirica, ma quando qualcosa o qualcuno le mosse il materasso, fendendo lo strato di incoscienza con una voce inconfondibile, Erin non pensò neppure per un istante che quella non potesse non essere la realtà.
    Con una boccata d’aria strozzata in gola, più sorpresa che spaventata, spalancò di slancio gli occhioni verdi, le labbra a schiudersi istintivamente in una reazione intorpidita dal sonno.
    «Possiamo vivere come Jack e Sally se vogliamo...»
    Parole che sentiva appartenerle più di qualsiasi altra garanzia, un innesco infallibile ad un cuore che perse un paio di battiti nell’attimo in cui le percepì. Seppe ancora prima di voltarsi quale volto avrebbe trovato vicino, eppure l’adrenalina che le si riversò nelle vene non trasse da quella preparazione alcun tipo di attenuante.
    «...Non è possibile.»
    La voce ancora sporca di sonno, le ciglia che tentavano di impedire alla luce di ferirle gli occhi, e sulle labbra la nascita di un sorrisone che non sarebbe riuscito a nascondere neppure una di tutte le emozioni che la assalirono in quella primissima messa a fuoco.
    «L’angelo dal mio incubo...»
    Sentì la gola stretta incrinare le ultime sillabe, deglutì inutilmente, e senza più indugiare fece quel che le era sempre più riuscito più naturale.
    Ritrovarlo, raggiungerlo, sentirlo.
    Un leggero colpo d’addominali la slanciò abbastanza da gettargli le braccia attorno al collo con la vitalità che la caratterizzava, vittima di una mancanza di equilibrio che l’avrebbe costretta a ricadere indietro un attimo più tardi, ma con lui teneramente imprigionato a sé, tocco di vita su un letto che sapeva di sterile ed anonimo.
    Lasciò che la bocca le si riempisse di una risata sommessa che era sfogo, esultanza e sollievo, le ciglia a trattenere due fili umidi di emozioni sul bordo delle palpebre, ed il cuore impazzito che rimbalzava in un petto rimasto spento troppo a lungo.
    «Dimmi solo che sei qui per restare.»
    Un sussurro, affidato direttamente all’orecchio di lui, prima ancora di sentirsi pronta a sciogliere la stretta, ma come sempre forte e pronta a sostenere anche la più cruda delle verità.


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  3. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Josh era stato condannato a una vita impeccabile. Esclusa la sua malattia, tutto ciò che lo circondava rasentava la perfezione a cui chiunque avrebbe anelato, mentre lui non riusciva ad apprezzarne le fortune come avrebbe dovuto. Chiunque lo circondasse aveva un occhio di riguardo per lui, un'attenzione in ogni gesto o parola, un affetto che lo rendeva inviolabile, eppure nulla di tutto ciò riusciva a redimerlo.
    D'altro canto, quando si cresce nella bambagia risulta difficile discostarsi da una simile realtà. Non che si aspettasse che tutto ciò gli fosse dovuto, anzi, delle volte era quasi impossibile sostenere gli sguardi compassionevoli di chi gli stava intorno, tuttavia non riusciva a coglierne la reale fortuna. Non capitava di rado che, giunto alla consapevolezza di cosa avesse preso a significare per altri, se ne allontanasse, come a salvaguardare loro piuttosto che se stesso.
    Amarlo, nel suo personalissimo modo di guardare alla vita, significava soffrire e non poteva permetterlo.
    Erin era l'ennesima vittima di quella usuale piega degli eventi. Ma in quell'istante, nello scorgere l'incredulità negli occhi ricolmi di sogni interrotti della ragazza, Josh decise di potersi prendere qualche attimo per assaporare la sua felicità.
    Ricambiò la stretta e cadde con lei sul materasso, muovendosi quel poco che gli consentì di sdraiarsi al suo fianco, le sterili lenzuola che parvero a un tratto più funzionali a quell'abbraccio che coprivano entrambi.
    «Diciamo che per il momento non ho impegni altrove.»
    Non avrebbe potuto prometterle nulla. Non era in grado di garantirle che sarebbe rimasto né per chissà quanto tempo. E andava bene così, in quel frangente che erano riusciti a ritagliarsi da un'esistenza piuttosto complessa.
    Si allontanò da lei solo quando sentì la sua presa ammorbidirsi, passandole un braccio dietro la nuca e incastonando il proprio sguardo nel suo. Quegli occhi, la loro vivacità e la schiettezza che li animava gli erano mancati. E quel fuoco nei capelli lunghi che disegnava una ragnatela scarlatta sulla sua maglia profumava di lei e di quel che significava per lui.
    C'era un unico dilemma che stonava all'interno di quel quadretto idilliaco.
    «Che succede?»
    Le domandò con fare indagatore. La fronte aggrottata e il sopracciglio sinistro inarcato a indicare il dubbio che stava prendendo forma tra i suoi pensieri. Perché si trovava in infermeria? E soprattutto perché lui non ne aveva saputo niente?
    Quel posto non era certo uno dei suoi preferiti, ma lo aveva frequentato a sufficienza anni prima per poterlo considerare alla stregua di una vera e propria casa. L'odore di disinfettante e il bianco asettico che lo circondavano non lo infastidivano più.
    «Non mi hai detto nulla di questo
    Indicò con un cenno del capo la sua figura, con relativa permanenza nell'infermeria. Il cipiglio indagatore e il tono severo a esprimere quanto la scoperta non gli fosse andata a genio. Quando aveva saputo dove trovarla la felicità e l'impazienza lo avevano accecato; ora voleva la verità e la preoccupazione divenne palpabile nella sua voce e in ogni suo gesto, incluso quello che lo portò a scostarle con delicatezza una ciocca di capelli dal viso.
    L'aveva cercata a lungo per ben quattro giorni. Ora che l'aveva trovata aveva intenzione di farsi raccontare tutto, ogni più misero dettaglio di quella vicenda a cui non voleva credere. D'altro canto bastava lui a riempire di preoccupazioni entrambi.
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Si incastrarono con la naturalezza di chi non ha mai avuto bisogno di spiegare niente, i loro corpi, trovarono il proprio posto l’uno accanto all’altra guidati dalla più genuina irrazionalità, e quando la nuca di Erin trovò rifugio sul braccio di Joshua qualcosa nell’universo parve rimettersi finalmente a posto.
    Era sempre stato quello il loro innesco più efficace: l’istinto.
    Nessuna promessa aveva mai sporcato d’arroganza il loro rapporto, né avevano mai osato parlare del futuro ostentando un’illusoria resistenza della loro vicinanza, persino l’inizio di ogni nuova estate vedeva sempre l’arrivo a Brighton pulsante del dubbio di non rivedersi.
    Erin aveva sempre voluto credersi disposta ad accettare qualsiasi epilogo, l’affetto che nutriva verso quel giovane sapeva sconfinare i più canonici precetti di quotidianità e aspettativa; a lei la vita piaceva ingurgitarla a larghe sorsate, la staticità di un futuro certo e già scritto l’avrebbe soffocata. Credeva così tanto nella peculiarità del loro rapporto da non saper temere in alcun modo neppure la routine di un anno scolastico, lui era già un pilastro portante di tutta la sua esistenza.
    «Aspettavo di riuscire a scrivere una lettera personalmente. Ti saresti preoccupato sapendomi reduce da una rissa finita male...»
    Quando Eris mentiva le pupille le si restringevano vertiginosamente nelle iridi verdi, e la fronte si distendeva di qualche millimetro sollevandole le sopracciglia aranciate dagli occhi già per natura troppo grandi, quasi a voler diluire l’assurdità di quanto detto in uno sguardo che sapeva sempre come farsi leggere da chi lo conosceva.
    Che si fosse lasciata coinvolgere da una rissa non era completamente improbabile, ma che lo avesse fatto proprio nel periodo che più preferiva in ogni nuova conoscenza era a dir poco impensabile.
    «...Tricopozione Lisciariccio.»
    Le venne fuori come un rigurgito di indomabile sincerità, non tanto per impedirgli realmente di preoccuparsi quanto più per l’insana incapacità di mettere in scena anche solo la più piccola fandonia. Sbatté le ciglia un paio di volte guardandolo fisso negli occhi, immobile in un silenzio che avrebbe condotto all’intuizione di lui dettagli immaginabili in merito alla complicata preparazione di un intruglio fuori dalla sua portata, prima di sciogliersi arrendevolmente in una risata che sapeva di mare, di innocenza, e di complicità.
    Fu liberatorio tirarla fuori, sentire la pancia indolenzirsi per le contrazioni di quella ilarità, fare un tuffo indietro nel tempo alla spensieratezza che avevano assaporato sotto lo sguardo della miriade di stelle di un cielo inglese.
    «Ehi non ho abbastanza tempo per gestirli, okay?» Alzò gli occhi ad indicare la capigliatura dispettosa. «E qui sono tutte sempre così... perfette.»
    Il sorriso le si ammorbidì sulle labbra, fino a svanire in una nube di pensieri all’orizzonte che Erin non era evidentemente ancora pronta ad accogliere. Le piaceva il proprio buon umore, era l’arma che le aveva permesso di risorgere dalle brutture di un passato deciso da altri, non avrebbe concesso alle preoccupazioni di oscurarle il sole finché non si fosse rivelato inevitabile.
    «Dicono che potrebbero rilasciarmi domattina, comunque.»
    Sospirò con calma, una nuova quiete a discenderle nelle viscere, la consolazione di poter finalmente scambiare un dialogo con chi non aveva motivo d’esser schivo o sospettoso. Si era concessa del tempo anche per guadagnarsi delle nuove amicizie, ma in un percorso iniziato in nome di una causa non sua non era facile riuscire a sentirsi al passo con l’ambizione che la circondava. Ogni studente di Hidenstone sembrava disposto a sfoderare i propri artigli per arrivare in vetta, se Hogwarts era stato per lei un acquario di opportunità l’accademia adesso riusciva a sembrarle una vasca di squali in cui sopravvivere o lasciarsi sbranare.
    Aveva già iniziato a chiedersi che diavolo ci facesse lei lì dentro, e qualcosa le suggeriva che non avrebbe smesso molto presto di domandarselo.
    Ma se nessuno prima di Josh si era mai scomodato a lavorare sulla sua autostima, era altresì inconfutabile che la sua pelle si era sempre dimostrata immune al pessimismo, motivo per cui le bastò un nuovo spunto di riflessione a ristabilire il sereno.
    «Hai visto?»
    Puntò il dito di una mano verso la sedia più vicina, indicando la divisa dai colori inconfondibili che le era stata tolta a vantaggio di una canotta sanitaria più comoda e pratica.
    Non aveva motivi per mettere in dubbio la professionalità dello Snaso smistatore, eppure non chiedersi se le proprie volontà non avessero forse influenzato troppo l’intuito della statua era impossibile. Aveva conosciuto l’essenza degli Ametrin sulle labbra di Joshua, dapprima tramite i suoi racconti, poi in quel sapore di rispetto e libertà che le aveva permesso di restare in piedi a dispetto di ogni avversità, contro una famiglia che non l’aveva mai voluta, in equilibrio su sacrifici e costrizioni costanti.
    «Te lo saresti mai aspettato?»
    Lei no, da sempre convinta di avere tutto da imparare da una personalità come quella di Evans, non una sola volta si era concessa di credersi al suo stesso passo, o meritevole dei suoi stessi colori.
    Era l'effetto Hidenstone, forse.


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  5. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Se Josh avesse saputo tempo addietro cosa Elisabeth e Jesse avevano accettato pur di averlo nelle loro vite e a cosa invece avevano rinunciato in quell'infinitesimale frangente di tempo che avevano trascorso assieme, forse si sarebbe comportato in maniera diversa.
    Se fosse stato consapevole di cosa Erin vedeva in lui, di cosa significava per quella giovane fiamma che gli ardeva tra le braccia da ormai tre anni a quella parte, forse le avrebbe detto di bruciare per qualcun altro, di consumarsi per qualcuno che avrebbe saputo e potuto accorgersi di quei sentimenti profondi e contorti che tuttavia lui avrebbe definito con poche, semplici e note parole.
    Se Josh avesse saputo tante cose, si sarebbe comportato in modo molto diverso con tutti coloro che lo avevano circondato in quei vent'anni di vita. Ma lui era quello che era: troppo egoriferito per pensare a qualcun altro, per comprendere come gli altri potessero amarlo, solo perché lui non era in grado di amare così profondamente nessuno a sua volta.
    Questo lo sapeva, Joshua Evans, eppure non riusciva a tenere lontano da sé chi, un giorno o l'altro, lo avrebbe accusato di dolori che non avrebbe mai desiderato causare.
    Per il momento, però, per uno che come lui viveva il presente, andava bene così.
    Chiuse il sipario su quei pensieri, concentrandosi sul profumo di Erin e sulla sua presenza, su quella dolce tortura inflitta con chirurgica precisione al centro del petto, lì dove il dolore di pochi attimi prima aveva lasciato spazio alla familiarità di quel contatto tanto anelato nei giorni precedenti.
    Fu come riprendere a respirare.
    «Sapevo che avresti picchiato qualcuno prima o poi.» Lo disse con ironia mentre le labbra si distendevano in un sorriso sghembo e la mano destra andava a cercare quella più piccola e fredda della ragazza.
    Quando la verità venne fuori, Josh le restituì uno sguardo indecifrabile. La vide scoppiare a ridere mentre lui si soffermava a spostare lo sguardo sulla chioma scarlatta, notandola meno crespa di quanto non fosse abituato a vederla. Che si stesse facendo bella per qualcuno? Inutile dire che quell'intuizione lo colpì e non alla pari di un fulmine a ciel sereno: Erin era bella da mozzare il fiato e non sarebbe rimasta ad aspettare lui.
    Josh non lo aveva mai preteso, ma non per questo lo accettava di buon grado, nella costante ed esasperante contraddizione che lo contraddistingueva.
    La sua scusante era ed era sempre stata la sincerità più assoluta. Si era ripetuto più volte in passato che, per non dover convivere con l'accusa di aver fatto soffrire qualcuno e ancor di più con la consapevolezza di averlo fatto, bastasse dire di non desiderare una relazione, di non essere pronto a innamorarsi, di volere al medesimo tempo e allo stesso modo due persone completamente diverse.
    Se agli altri andava bene, continuava a ripetersi, perché preoccuparsi?
    Non era ancora riuscito a comprendere l'urgenza ustionante di alcuni individui di lasciarsi trascinare nel dolore pur di scorgere un barlume di felicità insieme a lui. Perché la verità era questa: Josh non riusciva a stare lontano da chi, pur senza dirlo, gridava aiuto in un mondo in cui non si sentiva compreso.
    A tal proposito il suo cuore percepì una morsa nel sentire le parole di Erin e nello scorgere distintamente quell'ombra che tendeva a trascinarla nell'oscurità di un'anima fin troppo essenziale nella vita del giovane per consentirglielo.
    Le afferrò il mento tra le dita della mano destra e tentò di sollevarle il viso fino a poter poggiare le proprie labbra sulle sue.
    «Ti riferisci a qualcuna in particolare?»
    Le sussurrò addosso, lasciando che i loro respiri si mescolassero nel bisogno che sentivano di avere l'uno dell'altra, nel silenzio della sera che si apprestava ad ingerirli.
    Se Erin non si fosse scostata, Josh avrebbe catturato quelle labbra tra le proprie come a farle esalare l'ultimo respiro, incerto di voler sentire o meno il nome di chi l'avesse fatta sentire inadatta a quella realtà.
    Si staccò da lei solo per rivolgere lo sguardo lì dove lo stava conducendo. Un accenno di sorriso nello scorgere quei colori che a lui stavano tanto bene quanto un pugno in un occhio. Lo sapeva che era finita tra gli Ametrin, glielo avevano detto, ma non se lo aspettava.
    «Ti avrei vista meglio con i colori dei Black Opal, forse.»
    Una Casa che per lui aveva numerosi e importanti significati.
    Tralasciò quel dettaglio e riportò le iridi di ghiaccio su di lei, inclinando appena il capo.
    «Vediamo se immagini il perché.»
    Il buio. L'oscurità che avvolge i sensi e li annichilisce a favore di una personalità imperscrutabile, di un'ambizione fuori dal comune e della più pura essenza che rende l'uomo peccatore di cuore e al contempo vittima della propria mente.
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Quel che Erin aveva sperato di poter nascondere all’orizzonte finì per incastrarsi prevedibilmente negli occhi sempre attenti di Joshua, e lei non ebbe il cuore di meravigliarsene, per tanto che era abituata a leggersi attraverso il suo sguardo cristallino più di quanto non fosse a farlo ad uno specchio.
    Sapeva raccontarsi una verità sempre personalizzata, lei, aveva imparato a farlo fin da più piccola, quando accettare la realtà nella sua crudezza avrebbe potuto significare doversi abbandonare a scelte drammatiche, e nel tempo aveva deciso che digerire la vita per come lei la vedeva e non per come realmente fosse era molto più facile. Così aveva continuato sulla stessa linea anche a Hidenston, quando un incidente pozionistico riusciva a sembrarle semplicemente una capriola malriuscita di un’indole troppo curiosa, e non il primo grido di fragilità di uno spirito addestrato a non essere mai abbastanza. Questo lo lesse piuttosto sul volto di lui, ne assorbì la preoccupazione ed ammortizzò una premura che era abituata a rivolgere ad altri e mai a se stessa, e quando lui si fece più vicino per dar voce ad un dubbio più legittimo di quanto lei volesse, Erin fece ciò che sempre aveva successo di fronte ad una messa al muro: sorrise. Distese le labbra contro quelle di Joshua, schiudendole solo per mordere lascivamente le sue una o due volte, lenta e paziente, con lui e con le proprie verità, intenta ad ammorbidire pensieri troppo ispidi per quell’attimo di quiete al di fuori dal mondo.
    Lasciò che le ciglia si abbassassero sugli occhioni verdi, arrese all’unico sapore che avesse mai davvero considerato casa, e per attimi impossibili da quantificare lasciò semplicemente che quel bacio rispondesse ad ogni più proibita domanda.
    «...Lei è molto bella, avevi ragione.»
    Lo disse dopo, quando anche l’ultima goccia di nostalgia venne risanata da quella riunione di labbra, cosicché non ci fosse alcuna ombra esterna a contaminarne l’unicità. Non aveva problemi a parlare di altre donne, Erin, aveva conosciuto così a fondo Elisabeth attraverso i racconti dell’Ametrin da considerare sciocco qualsiasi fastidio in merito all’argomento. Ma loro due dovevano restare al di fuori di quel passato, per quanto vivo potesse ancora dirsi, lei nello specifico doveva restarne ben lontana.
    Aveva comunque detto il vero in merito alla Lynch, uno di quegli elementi che si era precipitata ad intercettare durante i primi giorni. Era bella, era Donna, sapeva di determinazione e consapevolezza come forse lei non avrebbe mai saputo dirsi, non aveva faticato a comprendere le armi del suo fascino. Eppure l’irlandese viaggiava su binari totalmente diversi, se Elisabeth era la luna nera di un eclisse, Erin era la libertà di una cometa, candida e ribelle fra le altre innumerevoli stelle ammiccanti.
    Quando il focus dell’argomento virò sui colori che entrambi condividevano pur sembrando poli opposti di uno stesso globo, Erin si concesse un sorriso vispo che la sapeva molto più lunga di quanto il suo volto di bimba lasciava intuire.
    Un perché all’opinione espressa da Joshua lei lo immaginava, e neppure in quel momento contemplò la possibilità di tacere quel che le passava per la mente.
    «Per convincerti che esiste davvero del mistero indecifrabile là dove tu semplicemente non sei pronto a guardare.» Sollevò una gamba sul suo bacino, si mise più comoda, cercò senza pudore i suoi occhi. «Hai sempre sofferto di vertigini, quando si parla di anime.»
    Incurante della delicatezza di quanto discusso, incastrò quel pensiero nelle iridi di lui come fosse un prezioso tesoro da preservare, che fosse o meno qualcosa su cui lui avrebbe concordato.
    Aveva sempre creduto che lui schivasse a grandi salti le più pericolose emozioni della vita solo perché timoroso di non meritarle, dubbioso di volerle davvero assaporare, ed ostinato nel più arrogante dei modi a negarne gli effetti collaterali alle persone vicine. Era il suo particolare modo di amare, quello di non amare affatto.
    Riprese la parola prima che quelle insinuazioni potessero spalancare abissi, comunque, tentando di anticipare risposte di cui nessuno dei due aveva realmente bisogno, e lo fece con la leggerezza di un politicante che maneggia argomentazioni economico-sociali dalla superflua rilevanza.
    «I Black Opal sono estremisti, troppo egoisti e sempre impegnati a muovere guerra al mondo...» Sospirò piano, un cipiglio pensoso tra le sopracciglia. «Ma la vita è fatta di sfumature, Jo, nessuno può considerarsi solo bianco o solo nero.»
    Una frase che forse in futuro si sarebbe tinta d’ironia, quella, un precetto che Erin aveva sempre brandito con orgoglio e decisione, ma che minacciava di ritorcersi contro colui che si sarebbe dimostrato disposto a sfidare i confini di quel bianco e di quel nero, arrivando a diluirsi di sfumature forse molto più del dovuto.
    Niente, comunque, a cui Erin avesse motivo di pensare adesso.
    «Resta qui stanotte.»
    Quel desiderio, piuttosto, perentorio come poche altre pretese mai espresse in vita sua, glielo pronunciò dritto negli occhi come la più irresistibile delle sentenze.
    Avevano fatto di peggio, nelle loro estati inglesi, dove le fughe notturne e i rientri dopo l’alba erano riusciti a sembrare i più perdonabili dei misfatti.
    Lei aveva bisogno di lui, e non intendeva tacerglielo.


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  7. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Erin era una vera e propria condanna. Croce e delizia per quel suo animo tormentato fin nel profondo, che non riusciva a trovare tregua se non negli occhi di pochissime e speciali persone. Erin era una di quelle, perché era in quei due smeraldi che il ragazzo riusciva finalmente a scorgere la pace tanto anelata.
    Josh non sopportava l'idea che si sentisse messa a confronto di altre, tanto lei aveva da dare. Ma nell'esatto momento in cui capì il perché aveva tentato la riuscita di quella pozione, non poté fare a meno di fermarsi a riflettere. Elisabeth Lynch poteva avere svariati difetti, da che lui ricordasse, ma era bella da mozzare il fiato. Non faticava a ricordare la sensazione di passare le dita tra quei capelli scuri e setosi, il profumo che l'avvolgeva e il sapore delle sue labbra, il calore che il suo corpo era stato in grado di restituirgli.
    Elisabeth era il massimo per lui, complice quella tendenza iniziale a sfuggirgli come poche avevano avuto l'intenzione di fare. Essere riuscito ad averla dopo mesi - se non anni - di tentativi fallimentari l'aveva resa un traguardo ineguagliabile.
    Erin, d'altro canto, era ciò che di più luminoso si fosse mai affacciato nella sua vita. Per quante difficoltà la ragazza si fosse ritrovata ad affrontare fin dalla più tenera età, per Josh era, da tre anni a quella parte, motivo di entusiasmo. Docile, arrendevole e ingenua all'apparenza, nascondeva dentro di sé un'animain grado di riaccendere ogni speranza e rischiare qualsiasi ombra dell'animo turbolento dell'inglese.
    Erano talmente diverse da rappresentare gli antipodi l'una dell'altra, così come differenti erano le sensazioni che Josh nutriva nei loro confronti: se Elisabeth era la tentazione e il fuoco che annienta qualunque cosa sulla propria scia, Erin era l'entusiasmo di vivere e la fiamma della speranza.
    Sbuffò aria dalle narici mentre rivolgeva lo sguardo di fronte a sé, a quel soffitto che non era in grado di restituirgli nulla, se non il tempo di riflettere su ciò che avrebbe dovuto e potuto dirle.
    «Lo è. E' vero.»
    Ancora una volta quell'onestà che tanto millantava lo caratterizzasse venne fuori in tutta la sua semplicità.
    Erin, per quanto potesse nutrire una qualsivoglia forma di competizione nei confronti di Elisabeth, sapeva bene cosa l'altra significasse per lui.
    Ma persino Josh, che si considerava ormai uomo vissuto a suo malgrado, non era in grado di intercettare quei flebili segnali che la vita sembrava porgli davanti: Elisabeth era cresciuta ed era cambiata, ma lui non poteva ancora saperlo; Erin era un bocciolo in attesa che qualcosa o qualcuno le desse il via per l'ultima, grande presa di consapevolezza.
    Ma benché la rossa apparisse ingenua e pronta ad assecondare chiunque avesse intenzione di prevaricare su di lei, l'animo selvatico che si nutriva della sua ribellione esalò in un fiato parole che sembrarono incasellare Josh alla perfezione. Il ragazzo schiuse le labbra in un chiaro tentativo di dire la propria su una verità assoluta, una certezza che tuttavia non avrebbe ammesso di condividere né di riconoscere, ma Erin fu più veloce e riprese da dove aveva interrotto, insinuando nel ragazzo l'incertezza di essere stato letto da lei come da nessun altro prima.
    Ascoltò ciò che la ragazza aveva da dire sui Black Opal e, fin dalla prima affermazione, sorrise.
    «E' una critica al mio modo di pensare o al loro?»
    Non aveva tutti i torti, comunque: i Black Opal erano in un certo qual senso i Serpeverde di Hogwarts bagnati dell'avventatezza dei Grifondoro, un'accoppiata decisamente pericolosa.
    Si lasciò avvolgere, colse la sua voce come un balsamo su una ferità per troppo tempo trascurata.
    «Prima o poi mi dirai dov'è che non guardo?»
    C'era della genuinità in quella ragazza. Un'apertura totale a cui Josh era stato abituato tempo addietro da due sole persone nella propria vita. Era quel che più aveva amato di loro, se di amore si può parlare; una dote che temeva che il tempo avesse trascinato via.
    Annuì e la strinse maggiormente a sé, sapendo che l'infermiere Maeve lo avrebbe sbattuto fuori da quella stanza non appena lo avesse visto importunare una delle sue pazienti. Ma fino ad allora, si disse, non c'era motivo per andare via.
    Sospirò e lasciò che la mano sinistra vagasse sulla schiena di Erin, intrecciando le dita in quella ragnatela scarlatta che era la sua folta chioma. Nel silenzio che li avvolse non si era reso conto di conoscerla tanto bene da considerare ogni suo dettaglio casa.
    Inconsapevole di cosa sarebbe accaduto l'indomani, Josh chiuse gli occhi e lasciò la mente libera di vagare nei ricordi, portando inevitabilmente a confronto due persone che mai avrebbero dovuto essere equiparate per i più banali motivi.
    Era fatto così, lui: sempre pronto a tirarsi la zappa sui piedi da solo, poiché non abbastanza per soddisfare tutte le persone a cui più teneva al mondo.
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    Erin Brighid MurphyAmetrin

    Non era mai stata brava a comprendersi, Erin, ma se l’era sempre cavata fin troppo bene ad ascoltare le vibrazioni delle anime che la circondavano. Finiva spesso, in effetti, a confondersi con esse dimenticando di possedere a propria volta uno spirito da nutrire, accudire, ed eventualmente curare; non si era neppure mai posta il dubbio di star vivendo effettivamente una vita a metà, lei che le esperienze se le ingurgitava ad ampie boccate, gettandosi da ogni dirupo con l’unica intenzione di compiere la più bella capriola in aria mai vista prima. Era come se finisse sempre per prendersi cura delle vulnerabilità altrui, godendo intanto unicamente del meglio che la vita riservava a lei.
    Prima o poi avrebbe dovuto chiedersi dove sarebbe mai potuta andare a finire, continuando in quel modo. Prima o poi, non certo adesso che il sollievo dato dall’idea che Joshua le fosse finalmente stato restituito continuava ad eclissare qualsiasi più recente preoccupazione.
    D’un tratto persino le peripezie accademiche di un istituto ben fuori dalla sua portata le parvero più tollerabili, le lezioni dalla dubbia moralità, i pranzi in un covo di divoratori che sembravano a stento accorgersi dello spazio che lei occupava sulla panca, la soddisfazione di aver contraddetto le più misere aspettative genitoriali, l’angoscia per aver strappato ai nonni sacrifici che non meritavano. Era tutto più giusto, adesso, un quadro di macerie e cenere che valeva la pena sofferta di ogni catastrofe superata.
    Accennò un sorrisino vispo alle prime parole dell’Ametrin, quelle che insinuavano una peculiare condivisione di precetti tra lui e l’oscuro esercito degli arroganti Black Opal, una definizione questa che si era sempre rifiutata di brandire per non cadere vittima di pregiudizi che non le piaceva assaporare.
    «Forse sono i tuoi, i colori da mettere in dubbio.» Concesse, senza pensarlo davvero. «Ma ho sentito dire che non sono contagiosi, quindi dovresti essere al sicuro.»
    Uno slancio di ottimismo verso un futuro che non avrebbe più voluto guardare al passato, o almeno che si illudeva di poterlo fare, ignaro di quanto entro poco tempo quella bolla di intimità avrebbe potuto infrangersi per riversarle addosso tutto quel che si era sempre convinta di poter gestire.
    Ricercò la sua mano per unirla alla propria, palmo contro palmo, più grande di qualche centimetro e protettiva come la sua intera persona lo era con lei. Ne sfiorò i polpastrelli dolcemente, prima di intrecciarne le dita e portarsi quel nodo di pelle e ricordi al petto, là dove lui avrebbe facilmente potuto percepire un battito cardiaco vivo, sereno, un animale domestico che fa le feste al rientro a casa dell’umano per cui vive.
    Joshua Evans avrebbe potuto mischiarsi all’essenza degli Opal in ogni modo possibile, fosse anche restando marchiato dagli occhi ipnotici di chi sapeva bene come divorare uomini, ma per lei sarebbe stato sempre più forte di qualsiasi contaminazione, al di sopra di uniformi e colori, così come lo aveva conosciuto sulle spiagge tiepide di Brighton. Solo Joshua, solo Jo.
    Quanto alla domanda che venne dopo, quella che le confermò un’attenzione maniacale a dettagli che chiunque altro avrebbe lasciato cadere per comodità, Erin tornò a farsi più seria sulle labbra, negli occhi, e dentro al cuore. Imporgli una verità più grande dell’innocenza che li aveva uniti sarebbe stato incredibilmente crudele, oltre che del tutto superfluo per entrambi; avrebbero forse un giorno parlato di quel che poteva essere, come il racconto di un romanzo letto qualche anno addietro di cui discutere su dettagli e sfumature, ma forse la mancata prontezza di lui era anche la più tenera volontà di lei di non scoprire, di non esporre, e di conseguenza di non mettere in pericolo ciò che sembrava vivere molto meglio sotto al velo, che fuori alla portata delle definizioni più convenzionali.
    Non c’era mai stato assolutamente niente di convenzionale, in effetti, in loro.
    «Prima o poi.»
    Eppure lo disse, annuendo in un cenno del capo, ci credette, lo promise così persino a se stessa: un giorno avrebbero tirato via il drappo di seta che li riparava dalla vista del mondo e di loro stessi, che fosse per raccontarsi una storia o per riconoscere una realtà, prima o poi avrebbero guardato oltre il parapetto, resistendo alle vertigini e riconoscendo la naturalezza di quel che erano stati, e che erano ancora, in un modo che non contemplava regole né pretesa alcuna.


    RevelioGDR
     
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