Votes taken by Elisabeth Lynch

  1. .
    Che Elisabeth non fosse la stessa -in realtà la player molto poco attenta- era la cifra di quanto in realtà la ragazza non stesse affatto bene. Arrivò persino ad arrossire violentemente quando il docente le procurò un apparecchio acustico fuori dal mese gratuito di prova, scandendo lentamente il luogo del recupero. Solo che non aveva chiesto solo quello. E proprio ciò che non le era stato rivelato le donò un profondo brivido lungo la schiena. «Si è fatto trovare, quindi...» Con quella piccola gigantesca informazione sospesa, insieme alla certezza che l'oscurità fosse sovrana in quella imbarcazione, si era avvicinata al Caposcuola, creando nei fatti una mini squadra rosso-grigio-nera che sulla carta avrebbe portato a termine il compito brillantemente, ma che nella realtà... avrebbe potuto scoprirlo solo vivendolo. Già il fatto che non si era resa conto prontamente dell'occupazione dell'altro automa -qui la player chiede umilmente scusa per non aver letto il post di Harry Wood- non fu un inizio brillante, recuperando in extremis con la risoluzione dell'indovinello e soffocando una risata nel vedere Blake un tantino trafelato. «Triangolo delle Bermuda, morte, Renata Sorrah e la sua nave gioiello, morte, un paio di automi pericolosi, fanne quattro dispersi e davvero davvero pericolosi», si avvicinò all'amico, dandogli una gomitata affettuosa. «Morte, Blake, non la senti anche tu?» Ribatté in risposta al fatto che avrebbe fatto meglio a cambiarsi con la magia se non voleva finire col morire assiderato sui monti. Monti che pensava fosse la loro destinazione a causa della risoluzione dell'indovinello ma di cui l'automa non sembrava esattamente convinto. Un rumore sinistro e poi della nebbia viola. «No, ti prego, non ancora», mugugnò memore che una nebbia non dissimile nel colore fu l'ultima cosa che vide prima di essere rapita.
    E se tale può essere il termine che li fa trovare all'interno di una grotta -che li avesse fatti smaterializzare? impossibile, ma mai dirlo con lo zampino della Sorrah- ancor più strano fu vedere un Lighthouse in versione mannara e poi in versione psicologo. Quanto a lei... <i>«Sul serio? Lui il figo ed io la modella di intimo?»
    consapevole però che in un altro universo, magari in una vita frivola e babbana sarebbe stata una delle più grandi e rinomate modelle. Ma non era quello il caso. Le visioni durano poco e seppur incuriosita dalle ali nere e rosse verso cui aveva quasi sollevato una mano, vedere finalmente del bianco fu quasi una boccata d'ossigeno. Quasi, appunto. Il freddo è quasi insostenibile, il tempo a disposizione poco visto che persino respirare sembra uno sforzo immane. Ed eccole lì, delle orme e poi dell'ossidiana, che sarebbe stata utile per rafforzare incantesimi e poi... «Lo sentite anche voi?» Sussurrò ai due colleghi, indicando una sfera enorme da cui sembrava provenire dei lamenti, dei respiri pesanti. Si avvicinò a Jesse, annuendo in risposta alla sua proposta, mentre Blake tentava di evocare una spada, se aveva ben capito. Non era un incantesimo del suo anno. La Lynch voltò il capo in direzione del loro automa fedele, potevano usare anche lui come diversivo. Solo che non sapeva se mandare direttamente lui in campo o se chiedergli un aiutino. Forse meglio la seconda. «Ehi, amico, come te la cavi con le stelle?» L'idea era quella di suscitare nell'automa la volontà di usare un polaris minior in direzione del bersaglio individuato, magari anche risvegliato dagli uccellini svolazzanti di Jesse, mentre lei avrebbe tentato di... È attirato dalla magia bianca. Come un pop il ricordo di quella informazione le arrivò come un boomerang e quindi l'istinto la portò ad alzare semplicemente la bacchetta verso l'alto. Per la magia bianca ci voleva una magia di cura o di difesa e se per la prima non le veniva in mente nulla, sulla punta della lingua aveva solo un'unica parola. O meglio due. «Templi Mentis». Solo dopo aver creato uno scudo il tempo necessario per attirare l'attenzione, avrebbe implorato con lo sguardo e con una parola -«ora!»- l'intervento dell'automa, con la sua magia astrale, mentre lei tentava di gettargli addosso una gabbia allo scopo di indebolirlo ulteriormente. «Tutela Fulgur».
    Elisabeth
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    Se non sbaglio nessuno del mio gruppo ha usato l'azione dell'automa.
    LIZ
    Azione 1: Templi Mentis per attirare ulteriormente l'automa
    PP: Empatia, 8 (LOL)
    Incantesimo: Nome: Santuario della Mente
    Classe: Scudo
    Formula: Templi Mentis
    Movimento: Alzare la bacchetta verso l'alto
    Effetto: dalla bacchetta prorompe una cupola dorata che cura o lenisce gli effetti delle magie mentali e illusorie in un area massima di 10 mq, ed indebolisce quelli lanciati su bersagli all'interno di quest'area.
    Note: La magia può protrarsi per tutto il tempo in cui il mago tiene alzata la bacchetta, rinunciando a scagliare altri incanti. Con Dif I tutti gli incanti lanciati contro chi è all'interno della cupola dorata, quando si scontreranno con questa, verranno come avvolti da una pellicola d'oro che li rallenterà dandogli un malus massimo di -3. Con Magipsicologia questo incanto avrà un bonus pari a +4
    Con Carisma ≥35 l'area massima aumenta a 20mq
    Con Carisma ≥45 l'area massima aumenta a 35mq

    Azione 2: Tutela Fulgur
    PP: Intelligenza, 17
    Incantesimo: Nome: Gabbia elettrificata
    Classe: Elementale
    Formula: Tutela Fulgur
    Movimento: Disegnare due linee orizzontali con la bacchetta poi farne una verticale direzionando infine la bacchetta verso la creatura che si vuole intrappolare
    Effetto: Crea una specie di gabbia di fulmini che intrappola al suo interno delle creature magiche di medie e grandi dimensioni.
    Note: Questo incantesimo non funziona con le creature di piccole dimensioni che riuscirebbero a scappare dalla stessa. Con la skill Incantesimi I chi lancia l'incantesimo ha un +2 al dado. Per liberare la creature basta il Finite Incantatem. Se l'animale prova a superare la gabbia non viene folgorato ma si stanca.

    AZIONE AUTOMA:
    Nome: Fattura polare
    Classe: Astrale
    Formula: Polaris Minior
    Movimento: tracciare in aria la sagoma del Piccolo Carro terminando con la stella polare
    Effetto: da ciascuno dei sette punti delle stelle dell’orsa minore si genererà una stella cadente. Le sette stelle si scaglieranno contro il bersaglio, inseguendolo e deviando se necessario, per colpirlo anche da più direzioni
    Note: L'attacco è da considerarsi Aggirante e i danni sono calcolati lanciando 1d16, a meno che il PG non possegga Duello 1.


    Oggetti: ha i soliti orecchini alle orecchie (Paletto mercurio duplice (danni d20+2): che diventano una coppia di orecchini a forma di squalo e delfino. Toccando il delfino diventano un paletto rotondo e sottile; toccando lo squalo, uno squadrato e largo).

    Narrativo: ha uno zainetto dove ha sicuro una matita, dell'acqua e il magifonino.
  2. .
    Qualcuno avrebbe dovuto trovare un modo per spiegarle quella incomprensibile legge magica che regolava il tempo: come diamine era possibile che al biennio pur seguendo tutte le materie si trovava con più tempo libero rispetto al triennio in cui aveva potato via quello che riteneva inutile e superfluo per concentrarsi esclusivamente su cinque insegnamenti? Giurava di esser arrivata ad un livello tale di multitasking che avrebbe fatto morire anche il più impavido degli uomini. Sì, proprio quelli che con due linee di febbre si appellavano a druidi, sciamani e sacerdoti per avere l'estrema unzione. E, rimanendo in esalazioni di ultimi respiri e preghiere che ti accompagnavano nell'aldilà, la lezione di Antiche Rune diveniva il suo personalissimo campo di morte. Non si trovava solo tra due fuochi rappresentati da Joshua e Cameron, appartenenti al suo stesso anno, quella era una lezione in cui convergeva l'intero triennio e quindi alla quanto più probabile presenza di fantasmi presenti e passati, probabili futuri, nelle persone di Lucas, Jesse, Blake e Lilith, senza dimenticare Vesper. Un calderone esplosivo vero e proprio, una lezione capace di metterla in ginocchio e non nel modo più piacevole e sensuale della sua versione.
    E sarebbe andata anche peggio. «Ma che diamine?» fu la reazione nel non trovarsi il calmo ex Responsabile degli Opal ora sugli Ametrin, bensì Labaan famoso per essere un amante del pettorale nudo, gioielli che non potevano essere definiti meri punti luce e compagno/marito/amante del Capo Villaggio di Denrise. Ah, sì, anche uno dei Superquattro. Un uomo cui portare rispetto ma non proprio da prendere come suo personalissimo modello. «Salve», non si sperticò in complimenti, leccate di culo o suonate di violino improvvisate, preferendo andare ad occupare un posto il più lontano possibile da Lighthouse. Con il Caposcuola i rapporti, dopo anni, erano ben oltre i minimi storici: il nulla cosmico. Persino ora che Evans era tornato. Sperava non si facesse trascinare anche lui dal carisma e dal fascino dell'Ametrin, aggrappandosi alla sua più che annuale relazione con Adamas. Ed a proposito di relazioni... dov'era finito Cohen?
    La sua presenza lì, prima di altri personaggi delle sue vicende personali, poteva rivelarsi un vero e proprio asso nella manica. Forse.
    Kwaku si lanciò in scuse che avevano del torbido in merito all'assenza dell'irreprensibile Olwen che era stato già sostituito dalla vecchia e non cara MacEwen, in una staffetta cui persino un appassionato di tennis non riusciva a tenere fissi gli occhi sul testimone. «Punti in più per Labaan ed il suo essere selvaggio», seppur il breve accenno su quello che avrebbero toccato la mandò in crisi. Cultura baltica? In che senso? Alcuni studiosi facevano risalire ad essa i tre paesi che detti uno dopo l'altro sembravano uno scioglilingua -Estonia, Lettonia, Lituania- o impropriamente tutti quelli che si affacciavano nel suddetto Mare: a quelli di prima si aggiungono Danimarca, Germania, Danimarca, Polonia, Svezia, Russia e Finlandia. No, la Norvegia manco per l'anticamera del cervello. «A prescindere da quali paesi includiamo nella cultura balcanica -per me i soli Estonia, Lettonia, Lituania- la religione cristiana, nelle sue declinazioni, è diffusa in ogni angolo del globo ed ha come simbolo la croce; la miniatura della Kobukson ricorda le drakkar -che però sono della cultura scandinava, quindi seppur Svezia, Danimarca e Finlandia si affaccino sul mar Baltico, secondo alcuni studiosi è improprio definirli anche Baltici. Ma se vogliamo metterli in un calderone, direi che possiamo vederne delle influenze anche nell'imbarcazione coreana», prese un attimo, riordinando le idee. «Quanto ai koropukkuru sono nani o comunque esseri legati alla natura, un po' come gli spiriti o il popolo verde riscontrabili, sotto altri nomi, in tutte le culture. Infine Thor. Non ricordo se propriamente Lituani od Estoni, c'era Taarapita, Taara, che è associato al dio del fulmine. Quindi direi... il fumetto di Thor». Sperava che la sequela di informazioni che aveva sciorinato fosse comprensibile al signor di Sigurd, così come lo era nella sua mente contorta.
    Elisabeth
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    Pensieri sparsi su Cameron Cohen, Joshua B. Evans, Lucas Jughed Jones, Jesse Lighthouse, Blake Barnes, Lilith Clarke. Risponde alla domanda.
  3. .
    C'erano state tante metafore per indicare quel triangolo fatto di due opali ed un ametrino. Palle e birilli, croce e delizia, un festival di lussuria, invidia, superbia ed accidia; ma mai di un pisello in due buchi. «Triangolo con Lighthouse, ricordi?» Sperava che quello bastasse nel rievocare alla memoria dell'opalina, in stile Vietnam, i racconti fatti all'inizio dell'anno, con dovizia di particolari sul ruolo di Jones, Lighthouse ed Evans nella sua vita. E poi un accenno di Cohen ma senza sbilanciarsi più di tanto perché con il battitore dei Dioptase la questione era ancora complicata ed in via di divenire, a differenza delle dinamiche del passato che credeva essere sepolte. Credeva, appunto, perché il ritorno di Josh aveva mandando all'aria il suo castello di carte con un solo sguardo dei suoi. Se solo chiudeva gli occhi poteva risentire il respiro del suo viso infrangersi contro il suo quando l'aveva bloccata nella volotnà di uscire da quell'aula. Uscire non avrebbe dato vita a quel susseguirsi di eventi che avevano portato ancor più coas nella sua esistenza. Non aveva alcuna intenzione, al momento, soffermarsi sulla natura dei sentimenti che provava per l'ametrino, perché aveva paura di scoprire che quello che credeva morto in realtà era solo rimasto quiescente come qualche vulcano dimenticato da qualsiasi divinità nell'Oceano Pacifico. Far confluire tutto nel mero atto sessuale era quello che le causava meno dolore -«È quello che è stato alla fine, no?»- come una calda coperta da avvolgere su quel corpo che aveva subito vari sbalzi di peso ed un principio di disturbi alimentari ed alcolismo. Era stata un rottame, così tanto che tornare in forma era costata fatica, sudore ed un lavoro su stessa che era riuscita a compiere solo grazie a quel mezzogigante silenzioso con tutti, ma non con lei. Delle volte le mancava quello stile di vita sconclusionato del confratello o della sensazione che aveva provato nel risvegliarsi nello stesso letto la prima mattina di Natale trascorsa senza la presenza di Glynnis. «Morgana, odio ridurre tutto in quella parola», ammise, rivelando quanto in realtà nell'unione di corpi aveva sempre lasciato un pezzo di lei. Hinds aveva la fame della voglia di ritornare a vivere; Cohen del sentirsi parte di qualcosa, di sapere di valere la pena per qualcuno; Evans la parte più pura e migliore che avesse mai avuto. Cose che nulla avevano a che vedere con il copulare crudo e semplice.
    Il pensiero che avesse fatto degli errori di valutazione l'aveva sfiorata diverse volte, così come l'interrogarsi sulla sua sessualità visto che trovava piacenti i corpi in ogni loro minima bellissima imperfezione e poco importava a chi facessero capo se ad un uomo o ad una donna. Aveva trovato eccitanti vene sulle mani ma anche dei perfetti sederi a mandolino appannaggio più della corporatura femminile che maschile; la linea sinuosa di gambe dritte che svettavano con il sapiente uso di tacchi o i polpacci massicci di un ragazzo che faceva dello sport la sua religione e della palestra il tempio in cui praticarla.«Mi piacciono le persone brillanti, quelle che hanno da dire qualcosa, che ti danno qualcosa, poco importa se hanno tra le gambe il pisello o meno», se solo si fosse sforzata sarebbe stata capace di trovare quel quid che aveva visto nello sguardo ombroso di un'ametrina al suo secondo anno. E poco centravano quei pantaloncini corti che avevano stuzzicato il suo interesse.
    Ma il tempo di esser lei al centro del palco era finito, toccava ad un'altra persona finire sotto le luci della ribalta: Deva Lyanne Lestrange. «Mpf, allora parlami delle tue intolleranze», si corresse, studiandola nei particolari alla pronuncia di ogni singolo nome, drizzando le antenne sulla prima e mettendo da parte i secondi, altri rosso-grigio-neri che sperava facessero più il loro dovere nel portare alto i colori che indossavano. «Occhio ai perfetti idioti, sono quelli che ti fanno trovare nei casini senza che neanche tu possa renderti conto». Però il tarlo di quel nome, lo stesso che aveva sentito qualche ora prima su labbra che avevano reclamato il possesso delle sue, continuava a persistere nella sua mente come un tarlo. Quante possibilità c'erano che quell'Erin Murphy fosse la stessa Erin di Josh? Un flebile disgusto al pensiero di averla etichettata come qualcosa appartenente al bruno non la fece comunque desistere dal porre la domanda che più di tutte aveva interesse nell'esser risposta: «cosa pensi della Murphy?»
    Poi due fanali a cui non si poteva aver scampo vennero posati su di lei, in quella serietà ancora più rigida di quella che aveva imparato a conoscere e superare quando la Lestrange si trovava sulla sua strada. «Pensavo che con la fauna che popola l'accademia avessi trovato pane per i tuoi denti», perché per quanto fosse a conoscenza dell'inesistente vita sessuale della sedicenne dall'altra sperava davvero che le cose cambiassero per lei, non tanto per l'atto in sé, quanto più per la possibilità di aprirsi a qualcosa che per quanto potesse avere il capace di romperti le ossa in piccolissimi infinitesimali frammenti era l'unico che ti faceva sentire vivo: l'amore. «Non hai trovato davvero nessun altro? Nessuno che ti stimoli la voglia di puntargli una bacchetta alla gola e poi sbatterlo contro il muro?» Il problema è che lei l'aveva trovato, solo che i suoi tratti erano confusi dal sovrapporsi dei visi dei suoi amanti.
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    Non sapeva di star seminando pensieri, con la complicità della Lestrange, i cui frutti avrebbe visto iniziar a sbocciare solo un mese più tardi. Il focus centrale era sempre e solo lei, con il suo piagnisteo ed un atteggiamento da povera vittima che le andava stretto. Era consapevole che ogni singola, piccolissima, scelta che aveva compiuto nel corso del tempo l'aveva portata sino a lì: di nuovo Prefetta, di nuovo tra due fuochi, di nuovo con il seme colante di Josh tra le gambe. Sembrava quasi la danza del gambero quell'inizio di quarto anno, una ripetizione del suo primo secondo che avrebbe voluto cancellare con un colpo di spugna per com'era finito. L'illusione che potesse chiudersi quella parentesi nefasta con la resurrezione di suo madre era stata uccisa ancor prima di poterla accarezzare davvero. A differenza dell'altro grande ritorno che in poco più di settantadue ore aveva già cambiato il percorso accidentato dell'Opal. «Lui poteva evitare di tenere il pisello in due buchi». Sembrò tornare per un attimo la vipera di un tempo, lasciandosi andare ad un commento piuttosto infelice anche per lei, giusto il tempo di continuare poi sulla strada della fottuta verità che si ostinava a voler abbracciare. «Io di giocare con i sentimenti di Lucas ancor prima di rendermi conto di quello che provassi per lui», lo sprezzo su quelle ultime tre lettere, perché se solo si fosse dimostrata padrona reale del suo cuore non avrebbe avuto quel risultato, «io potevo evitare di scopare con il mio migliore amico e renderlo un traditore», così come nel tentativo di resistenza fallita di finire a scopare nei bagni con Cam. Aveva scioccamente etichettato come un momento dettato dallo sconforto il bacio che lui le aveva dato nella sua vecchia camera ad Oslo, gravata dalla visita alla tomba della sorella; eppure aveva distanziato l'amico una volta tornati a scuola, cercando di non rimanere mai da sola con lui, in un posto dove potevano nascondersi. Aveva funzionato per un paio di settimane ed il resto aveva fatto la storia. L'odio e lo sprezzo che le erano stati riversati nel suo ritorno a scuola, dopo un silenzio più che prolungato corrispondente -aveva appreso poi- alla scomparsa di Evans si dimostrarono nulli rispetto alla shitstorm che si era beccata dopo che aveva ammesso, in una cazzo di galleria di esser stata con l'altro essere più odiato nel castello. Nulli sembravano essere i suoi salvataggi di quegli stessi compagni che non perdevano occasione alcuna di sbeffeggiarla, equiparandoli ad un atto dovuto poiché doveva esserci stato un motivo se la Burke le aveva dato la Spilla. E poi tolta. E poi riaffidata nuovamente. «Sono tutti se e ma, Deva, e con quelli non si va da nessuna parte». Non corresse la sedicenne sul cognome della Prefetta dei giallo-viola, la guardò piuttosto come a dire ti pare che io debba puntare la bacchetta a qualcuno per farmi una sana scopata?. «Spero di salvarmi con quello delle donne», la risata non produsse suono, solo un ghigno appena abbozzato. Allungò le braccia all'indietro, reclinando il capo e studiandola. «Sai quali sono i miei disastri, ma io voglio conoscere i tuoi», la provocò, «ad esempio chi dobbiamo odiare, sopportare e se qualcuno ti sta scaldando il letto oltre alle tue chiappe ossute», Non è vero, il suo sedere seppur piccolo era comunque un bel vedere.
    Elisabeth
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    Barnes da ubriaco aveva una visione d'insieme ed un'analisi dei fatti da brividi. Con il gin a scorrere nelle vene al posto del sangue, il pavone lanciò diverse freccette che andarono a segno sul tabellone senza neanche bisogno di prender la mira. Semplicemente un tiro dopo l'altro. In primis le aveva detto, senza neanche troppi giri di parole, che i ragazzi per cui aveva aperto le gambe non valevano neanche un'unghia di lei. Non era d'accordo con quella affermazione, quanto più con il sottotesto che si trascinava dietro: era la seconda scelta di qualcuno. Aveva finto di non vedere elementi, prendendone altri a lei favorevoli ingigantendoli fino a calzare come un guanto su di lei. Lei che comunque manipolava ma non fino in fondo come le piaceva credere. Persino la sua lingua faticava a contrastare quella logica del biondino nell'accusarla di essere troppo attaccata alla paura delle conseguenze da non riuscire a smollarsi un po' neanche quando lo chiedeva al re del divertimento. Indossare un paio di capi fuori dalla sua comfort zone non significava che fosse davvero pronta a buttarsi, di nuovo, senza pensare alle conseguenze. Spoiler: in un certo senso lo farà mesi dopo, ma quella è un'altra storia. Quella che si svolse nella terrazza di un club, prima e nella pista da bowling, poi era una storia completamente diversa. La sfida tra i due si era riaccesa, a suon di birilli, palle e parquet.
    Con un colpo di bacchetta -tentato un paio di volte prima di riuscirci- avvicinò il carrellino con gli alcolici servendosi da sola di uno shottino di tequila, pura, senza sale e limone. La smorfia che comparve fu più per il retrogusto forte dell'alcol che per il liscio -come diavolo era finita sull'altra pista la palla- di Blake. «Vedi? Avevo ragione a credere che non sai fare centro», una frase che era un doppio senso vivente. La sua risata riecheggiò nella sala, alla vista di soli tre birilli cadere giù, già pronta a pregustarsi il primo pezzo dell'outfit di Blake che sarebbe volato via. Ne lasciò lei la scelta che non si avvicinò, preferendo servirsi della sua bacchetta e di un pigro «evanesco» per liberarlo della camicia.
    Zoppicando tornò allo stand delle palle, facendosi attirare dal riflesso smeraldo di una di esse: le sembrava cattiva, distruttrice. «Fatti più in là». L'intenzione era solo di spingerlo con il fianco, non di perdere la presa sulla palla che se ne rotolò via direttamente nella canalina. «Dai, non vale», provò a lamentarsi, di fatto calciando via l'altra calzatura che le era rimasta. «Uff». Si chinò a prenderne una rosa, così, solo perché voleva toglierla dal mucchio. Odiava il rosa, il confetto e tutto ciò che rientrava nella categoria degli unicornosi. «Questa te la dedico», si pavoneggiò, buttando giù un altro shot e con l'altra mano a sostenere la palla che caricò con il braccio all'indietro. La gamba destra era avanti, la sinistra dietro e leggermente piegata. Poteva dare l'idea di quello che stava facendo, ma in realtà non era poi più così lucida come voleva far credere. La tequila stava salendo più velocemente dei drink che si era scolata in disco, l'euforia andava di pari passo alla voglia di voler vincere a tutti i costi e di non sbagliare a tirare. Cercò di controllare il baricentro, tenendolo stabile, sentendo la presa di indice, medio e pollice allentarsi leggermente. Doveva fare in fretta. Portò di nuovo il braccio all'indietro e poi lasciò scivolare la palla via dalle sue mani verso la pista. La palla sembrava andare dritta, fino alla meta, seppur un po' troppo vicina al bordo sinistro e alla canalina. Mancava meno di un metro. «Dai, dai, dai», le parole in rapida successione ad accompagnarla. Sbam. Non fu il rumore di birilli che cadevano, bensì quello della palla che finiva dritta nello scolo. «MA È ASSURDO!» Si girò di scatto verso l'amico, punteggiando con l'indice il petto nudo. «Dai, non dirmi che hai truccato anche la pista». Il motivo di fastidio era anche sul fatto che le rimaneva addosso solo la gonna cortissima, un paio di slip praticamente invisibili ed un top che non prevedeva l'uso del reggiseno. Il prossimo pezzo da togliere l'avrebbe lasciata comunque molto più nuda di quello che aveva mai potuto vedere Blake del suo corpo. «Scegli bene cosa togliere, Blake». Lo avvertì, rimanendo vicina a lui, segno che non sarebbe stato necessario l'utilizzo della magia per farlo. «Ho una partita da vincere».
    Elisabeth
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    Black Opal
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  6. .
    Elisabeth Lynch non sapeva quale strada stesse seguendo. Non aveva più quelle parole-chiave disposte in rigido ordine cronologico, sequenziale, trovandosi nel più totale caos, priva di ancore, certezze cui aggrapparsi in quella sequela di catastrofi in cui si era trasformato il ballo. Nulla a che vedere con quello che aveva ipotizzato dopo aver accettato l’invito di Cameron. Quello che era successo in una manciata di pochi, concitati, minuti si era svolto così lentamente per lei da pesare come se fossero passati svariati lustri e non qualche giro della lancetta più lunga dell’orologio. Il suo cervello aveva provato a dividere tutto per sequenze, affidandosi alla sua razionalità, bombardata da Cohen e la sua scenata, che funzionava a scatti, così come quel cuore che perdeva battiti ad ogni secondo che trascorreva tra Joshua e quella ragazza di cui lui aveva accennato, senza che lei si fosse mai presa la briga di indagare su chi fosse, da dove provenisse e cosa volesse. I suoi punti di forza e quelli di debolezza su cui infierire con sapienza. In passato, invece, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. Era rimasta nel suo mondo già disastrato, barcamenandosi tra il senso di colpa, la confusione e il crollo della certezza di aver superato Evans. Doveva immaginare che la strategia delle tre scimmiette non avrebbe potuto reggere in eternità: le situazioni irrisolte, le cose e le persone importanti trovavano sempre un modo per stanarti, placcarti ed abbatterti.
    Nonché il modo di sorprenderti.
    Non aveva mai sentito quel tono gelido uscire dalla bocca di Josh, neanche nei loro battibecchi più duri, e realizzare che non fosse riversato su di lei la sconvolse. Ben stava prendendo le sue difese, in pubblico, nonostante avesse cercato un luogo più tranquillo in cui parlare, dove la musica non fosse troppo forte e le orecchie dei curiosi, seppur tese, non capaci di registrare quanto si dicevano. Il linguaggio dei loro corpi però li sbugiarda: Erin aveva accusato il colpo più per la reazione dell'ametrino che per le parole dell'Opal; lei che aveva le punte dei piedi in direzione dell'ametrino ma anche nel cercare una via di fuga qualora quanto avrebbe potuto udire fosse stato in grado di suonare come una condanna definitiva; Joshua che tentennava con sguardo e rigidità del corpo mentre prendeva tempo su cosa fare. Capì quello che avrebbe fatto una frazione di secondo prima che aprisse bocca, invadendola con quelle iridi che erano imperscrutabili. «D'accordo», riuscì a dire, non lasciando trapelare altro che non fosse già stato rivelato prima: l'amarezza per quello che il loro rapporto aveva scatenato e di come continuasse ancora a farlo anche con altri protagonisti.
    Non lo seguì, non lo fermò, decisa che non avrebbe più cercato nessuno. Chi non l'avrebbe fatto semplicemente non la voleva e se non la voleva era inutile che lei finisse con lo scodinzolare per avere un minimo di attenzione. Non si volse neanche a seguire il suo defilarsi con lo sguardo: ne aveva abbastanza di vedere solo schiene che si allontanavano. Ma due petti si avvicinarono, solo che lei non sapeva ancora della presenza di uno, poiché si accorse dell'incedere veloce di uno degli Opal del primo anno. Pochi secondi e sarebbe giunto: un attimo di quiete prima di una nuova ondata di maltempo. Sentiva il peso di quelle due pozze nere profonde a scavare fino a dentro l'anima, come aspettandosi di leggervi qualcosa, proprio mentre Erin sembrava aver ritrovato la parola, pronunciando il nome di qualcuno che avrebbe dovuto conoscere. In frazioni di secondo lanciò con lo sguardo il messaggio alla matricola di occuparsi di lei, non sapeva quali fossero i loro rapporti ma da come era accorso e da come la mano andò a cercare quella della rossa ma era evidente che non fosse una semplice compagna di scuola. Quello dopo si era voltata di scatto nel vedere solo la fine della spallata di Miller. Il riccioluto dei bluverde che era divenuto recentemente amico di Cameron si era abbattuto come un fulmine -in realtà sembrava ricordare più un toro che caricava un torero- contro Evans. Sentiva di non farcela più, di stare per crollare e manifestare tutte quelle emozioni ingarbugliate sotto forma di magia. Quanto sarebbe sbagliato andare ora dall’Ivanova a chiederle il permesso per occupare nuovamente la riproduzione di un’arena nella sua aula per sfogarsi a suon di incantesimi su malcapitati manichini? Forse per nulla, se significava evitare una prossima strage.
    La meta finale di Julian però non fu iniziare una rissa con Josh bensì lei, che nel frattempo aveva lasciato vagare lo sguardo alla ricerca del profilo del suo ragazzo -poteva ancora definirlo tale dopo lo schifo che le aveva riversato addosso?- tra i presenti senza però riuscire a trovarlo. Si allungò a recuperare la scatola del suo regalo, sempre più desiderosa di andarsene da lì e lasciarsi dietro le nuove fresche macerie che aveva causato, ma lo studente del biennio non ne voleva sapere di demordere dai suoi intenti. Poteva dar vita ad una sequela di imprecazioni intervallata da incantesimi di natura offensiva contro di lui o qualcuno avrebbe potuto avere da ridire? Le dita erano già scivolate nell’apertura strategica del vestito a recuperare il catalizzatore, avvolgendo l’impugnatura per esser lesta nel più che plausibile prossimo utilizzo. Si arrestò perché il figlio di Jessica era entrato in quello strano circolo, che sarebbe stato meglio ribattezzare circo, poiché la Clarke aveva deciso di istruirlo precocemente sulle cazzate che gli adulti -i semi adulti- riuscivano a fare in poche semplici mosse.
    Surreale. Tutta quella situazione era decisamente surreale. Il piccolo Alex la osservava curioso, così come gli altri, stretto in quei vestiti riadattati alla sua età ma pur sempre fedeli nella fantasia che lei stessa aveva scelto con Josh tre anni prima. L’ennesimo scherzo del destino, l’ennesimo schiaffo a rinfacciarle qualcosa con cui non aveva mai chiuso davvero i conti. Non voleva che potesse assistere ad una qualche sceneggiata da parte dei presenti e così si frappose tra la Clarke ed il suo concasato, ignorando nei fatti una eventuale reazione di Kwon e dell’innocentina non poi così tale come l’aveva dipinta Josh. «Lilith, va bene così», la Caposcuola avrebbe potuto desumere da sé che non ci sarebbe stato nulla di cui preoccuparsi, che poteva tranquillamente maneggiare Miller senza alcun supporto, anche perché poteva facilmente immaginare quale sarebbe stato il fulcro della loro conversazione. O meglio, chi. Allungò una mano sulla testolina del figlio della Whitemore, scompigliandogli i capelli in un gesto di tenerezza un po’ scattoso visto che non era abituata ad avere a che fare coi bambini e con le dimostrazioni d’affetto, persino basilari come quelle. «Perché non mi conservi un paio di caramelle? Un paio delle tue preferite e lasciale nel nostro posticino segreto», ovvero l’ultimo cassetto del suo comodino dove quando aveva imparato a gattonare e a curiosare aveva trovato un paio di pupazzetti di pezza a forma di animale comprati appositamente per lui. Non aveva mai ammesso fossero suoi e non lo avrebbe di certo fatto neanche in quel momento.
    «Andiamo, Miller? Non volevi forse parlarmi?» Ne richiamò l’attenzione, con uno schiocco di dita sotto il suo naso, superandolo poi verso l’uscita dalla Sala Grande. Aveva bisogno di respirare un po’ d’aria fresca, addirittura sarebbe stata capace di accendersi una sigaretta se solo non avesse mai avuto il desiderio di provarla, ed il portone d’ingresso sapeva essere ancora spalancato. Si bloccò, probabilmente causando un tamponamento con l’americano, vedendo Cameron e poco distante un’altra Dioptase che sapeva essere la ragazza -se mal non aveva capito dai racconti di Cohen- di quello che aveva voluto parlarle un attimo prima.
    Non sembrava passarsela bene, i suoi capelli erano una massa confusa di rosso e castano, i lineamenti tirati per il fastidio e la rabbia, il polso su cui aveva allacciato il suo dono privo di qualsiasi ornamento. E realizzò. Realizzò che quello strattone che aveva sentito prima provenire da lui probabilmente corrispondeva all’esatto momento in cui se l’era sfilato, sbarazzandosi di un monile che era la loro rappresentazione, i due meno male che insieme andavano a formare un per fortuna. Sentì gli occhi pizzicare, le mani tremavano nel mantenere la scatolina che ancora non era riuscita ad aprire. Lo fece in quel momento, davanti a tutti, sciogliendo il fiocco e rivelando una di quelle cupole magiche che se agitate facevano cadere la neve sul paesaggio bloccato nel tempo. Solo che a differenza di quelle di manifattura babbana, quella era davvero magica: fiocchi di neve erano presenti, ma vorticavano su un campo da Quidditch e su un manico di scopa che si muoveva per il campo. Aguzzò la vista e vide che era lei, lei in sella alla sua scopa a caccia di bolidi. C’erano anche quelli. Sentì stringere il petto ma non avanzò un passo verso di lui, ferma nella sua decisione di non seguire più nessuno. Un solo mormorio si levò, uscendo sotto forma di domanda: «se n’è liberato?»
    Elisabeth
    Lynch

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    Black Opal
    Prefetta
    Battitrice

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    In ordine di apparizione: Joshua B. Evans, Erin Murphy, Joo-hyuk Kwon, Julian Miller, Lilith Clarke, Cameron Cohen, Regina Beauvais.
  7. .
    L’amore può essere una via di fuga; l’amore può essere un’ancora di salvataggio in un mare in tempesta; l’amore può essere il peso, l’iceberg, che ti fa affondare.
    Ed è l’ultimo caso a rappresentare Elisabeth Lynch.
    Per amore aveva lasciato Lucas, per onestà gli aveva rivelato di essere stata baciata da Josh e che per quello stesso motivo ne era uscita confusa.
    Per amore si era donata a Joshua, accettando persino l’idea di condividerlo -con la speranza di un tempo limitato- con un’altra persona.
    Per amore verso la donna che l’aveva messa al mondo e che l’aveva tirata su al meglio delle sue possibilità aveva lasciato la scuola, i suoi compagni ed il ragazzo che lei aveva scelto.
    Per un amore in potenza aveva finito col mettersi un’intera scuola contro.
    L’amore aveva condizionato la vita di una ragazzina che, per lungo tempo, aveva tenuto a bada i sentimenti, ridotti al minimo le relazioni interpersonali, per via del terrore dell’ennesimo abbandono nella sua vita. Tutto, in qualche modo, era stato collegato al racconto della madre di un padre assente, che non l’aveva mai voluta conoscere, dandole l’idea -che poi si era rafforzata con il passare degli anni- di non essere meritevole di nulla, quando in realtà il vero villain della sua storia era la morte.
    Vita e morte, creazione e distruzione, odio e amore: forze opposte che regolano l’intera esistenza, dove quello che diversifica gli uni dagli altri è il modo in cui si reagisce ad essi. E sul palcoscenico, in cui si era trasformata la Sala Grande, venne messa in scena l’ennesima storia divisa in atti ancora da numerare, con scene caratterizzate dal senso di completezza, di fine, che avrebbe avuto quell’intreccio.
    Padrona della matassa da cui si propagavano fili spezzati, annodati ed intrecciati vi era Elisabeth. La teatrante, come volevano le commedie e le tragedie, disponeva di un canovaccio, con nessuna battuta scritta ed un finale incerto, che si sarebbe auto-scritto a seguito delle interazioni con protagonisti e figuranti.

    Atto primo, scena prima: il melodramma della primadonna che non ti aspetti.
    La battitrice, con la vicinanza di un’amica ritrovata e quella del ragazzo con cui è da poco in una relazione ufficiale, si sente così tanto a suo agio, nella sua bolla sicura, da sentirsi libera di commentare le accompagnatrici di due giovani uomini che hanno avuto un ruolo -in realtà che hanno ancora- nella sua vita. Ciò che non sa è che il ragazzo al suo fianco, quello che era stato capace di darle nuova speranza, una comprensione senza pari data la loro stretta somiglianza nel modo di reagire ai loro vissuti, in realtà si senta ferito da quei commenti. Li ingigantisce, ne stravolge il senso, ne aggiunge degli altri e poi se ne serve per creare proiettili da impilare nel caricatore che scaricherà poi tutto su di lei, ad altezza mente, cuore, ego.
    I colpi vanno a segno, nessuno scudo difensivo era stato innalzato, i rinforzi alla difesa a giungere così in ritardo da lasciarla sconvolta. Nel momento massimo di rabbia di lui la Prefetta fa un passo indietro, un riflesso involontario mandato dalla sua mente a fine di proteggerla da uno scatto d’ira e forza gemello, se non superiore, a quello che le aveva lasciato evidenti segni sui polsi. Un lampo di paura avrebbe illuminato a giorno quelle iridi sottili. La paura si alternò con la rabbia e l’amarezza nel sentire una sua imitazione esasperata a dei livelli estremi. Trovava assurdo, grottesco e manchevole di senso la difesa a spada tratta della Whitemore. Poi, quando direzionò il suo discorso sull’Ametrin tornato, Elisabeth realizzò che non le avesse perdonato il fatto di esserci andata a letto. Il discorso che aveva fatto a Jones, anni prima, poteva essere in qualche modo sovrapposto a quello di Cohen, differenziandosi per minuzie o una grande verità: lei e Cameron non stavano insieme. Avrebbe potuto non dirgli nulla, occultare e dimenticare ma ciò l’avrebbe snaturata, nonché darle la sensazione di tradire il loro rapporto di amicizia. Col senno del poi si diede della stupida, ma in che modo avrebbe potuto affrontare il norvegese il ritorno di Ben? Silenzi, sotterfugi e bugie tutto ciò che disprezzava, odiandole ancor di più quando la madre le rivelò che con la sua imminente dipartita sarebbe rimasta sola al mondo, senza neanche più avere la possibilità di fantasticare sulla ricerca, ritrovamento e ricongiungimento con suo padre.
    Scelse la strada del silenzio, con quel filo che legava l’Opale al Dioptasio riempirsi di tanti piccoli nodi resistenti ed un principio di sbilanciamento.
    Dalla sua matassa seguì un secondo filo: era uno di quelli ricchi di sfumature di colore già nel processo di filatura. Arancione brillante intervallato da ciuffi neri ed alcuni rossi, questi più distanziati nella lunghezza. Il nero in rappresentanza della delusione, dolore e perdita molto più presente nel capo tenuto da Lucas; il rosso in memoria dell’affetto, amore e relazione breve vissuta; l’arancione in colore dell’amicizia ma anche dell’evoluzione, della crescita della maturità di un legame che sarebbe rimasto anche una volta terminato il percorso chiamato vita. Se Lucas aveva scelto proprio Jessica ci doveva essere un motivo solido alla base, seppur a lei incomprensibile, per cui sì, continuava ancora ad essere fortemente convinta che meritasse di meglio rispetto alla corvina, ma quel che contava rimaneva la sua felicità, quella che non era mai riuscita davvero a dargli.

    Atto primo, scena seconda: quando lo sguardo di Lucas e le parole di Cameron avevano spoilerato il futuro prossimo ad Elisabeth.
    Quante probabilità c’erano che Joshuua Benjamin Evans fosse dotato di un radar naturale capace di captare la minima variazione emotiva di Elisabeth Lynch? L’essere andato da lei proprio nel momento in cui ne aveva avuto più bisogno non era un qualcosa di raro o legato solo ad eventi come il ballo scolastico natalizio. Forse avrebbe potuto trovarne risposta dal terzo ed ultimo filo che partiva dal suo gomitolo, quello un po’ malconcio, dal colore indefinito, pieno di nodi ma anche di piccole onde, segno che qualche momento cruciale fosse stato affrontato e risolto. Poi, proprio a metà della lunghezza c’era una matassa intricata da cui si potevano scorgere fili tagliati, altri intrecciati e poi interrotti, altri ancora intersecati con uno giallo e verde, quasi accecante. Guardò meglio e capì di essere vittima di un errore di parallasse: quello non era un incidente di percorso sul loro filo, bensì il gomitolo, l’essenza di Josh. Aveva fatto un errore di valutazione: il filo verde come la speranza, giallo come la spontaneità e caldo come il sole, screziato persino di rosso, non era riconducibile a Jesse Lighthouse -il suo infatti era dalle sfumature arancioni come quello di Lucas o così preferì credere, come se entrambi avessero trovato il modo di superare lo stallo del passato- ma alla ragazza di cui le aveva parlato dopo quel chiarimento non chiarimento che c’era stato.
    Come Lucas le aveva fatto capire con lo sguardo e Cameron manifestato con le dure parole, Elisabeth aveva teso la mano ad afferrare il supporto di Josh, portandolo ai lati della Sala Grande non per appartarsi nell’accezione sensuale e sessuale del termine, quanto più per avere un momento solitario per capire cosa farne di quel filo.

    Atto secondo, scena prima: se io non ce l’ho, tu non ce l’hai, dove diamine è finita?
    L’oggetto della ricerca è la parte migliore di Elisabeth, quella nascosta dentro un cuore che aveva generosamente donato in una vasca idromassaggio, a Bath, tre anni prima. C’era da dire che vari pezzetti erano stati allungati sottobanco nei mesi precedenti, rendendo quasi più cerimoniale l’affidamento. Non aveva mai pronunciato quelle due parole a nessuno ma ciò non significava non averle provate o richiamate in altro modo. Tra Elisabeth e Joshua non c’era stato sesso ma l’amore ed in una sua derivazione anche nell’aula in disuso. La passione, la fame e la rabbia avevano mascherato quello che era rimasto a riposare sotto le braci, un qualcosa che se ridestato avrebbe potuto incendiare tutto. Non glielo’aveva forse promesso quando aveva dato il suo assenso con un «e allora brucia»? Era uscita da quella stanza con una sfida celata in parole di commiato, che risuonavano simili a che “se avesse voluto avrebbe saputo dove trovarla”.
    «Non mi ha mai cercata», quella realizzazione si tradusse in uno strattone doloroso.
    E fu lì che richiese la restituzione di ciò che gli aveva affidato.
    E fu lì che si sentì morire nel sentirsi rispondere su come avrebbe dovuto fare. A nulla valse la traccia di sofferenza -o era insofferenza?- nella sua figura un po’ sfocata.
    «Sei tu che stai tentando di sottrarti a…»

    Atto secondo, scena seconda: quando Elisabeth si rivede in una sua pallida versione sedicenne.
    Il “disturbo” della rossa era stato occultato dal suo principio di risposta ad Evans. L’interruzione vera e propria avvenne quando occupò una posizione trasformando il segmento in un triangolo scaleno. «Principiante» e solo perché le cose dovevano essere fatte bene, dato che più rappresentativo sarebbe stato un triangolo isoscele. 
Nel tempo in cui l’altra studiò il suo vestito anche la giocatrice di quidditch fece lo stesso. Le uniche cose in cui i due abiti si somigliavano erano le alette cascanti a metà braccia, la scollatura a cuore e l’accento -più evidente in quello di Liz sul punto vita, per il resto differivano per tessuto, colore, spacco vertiginoso -assente in quello della Lynch- e significato. Se nella Murphy si poteva vedere una Cenerentola 2.0 nella Lynch la scelta dei toni (o)scuri aveva un richiamo equiparabile al cattivo delle favole, ma che in realtà presentava le diverse sfumature che componevano l’animo di un essere umano. Niente bianco o nero, niente giusto e sbagliato ma solo una moltitudine di chiaroscuri a simboleggiare quanto si facevano le cose sbagliate per i motivi giusti e le cose giuste per i motivi sbagliati.
    La guardò e rivide se stessa al primo ballo -di rosso vestita e con un abito non poi così diverso da quello che l’opalina stava indossando quella sera- vide in lei la paura e la speranza combinarsi in un mix potente da riuscire a fermare il cuore. Tanto lo sapeva perché l’aveva provato più volte. Voleva quasi prenderla per le spalle e scuoterla fino a farle capire che anche lei aveva perso la testa -e il cuore- per il ragazzo oscuro, così avverso all’amore ma in cui ci si ritrovava sempre invischiato, a volerlo far ricredere sulla delusione e sul mordo da cui era affetto, per cui lei poteva esserne la cura. Perché il morbo di Evans non portava il nome di Elisabeth Lynch, ma quello di qualcun altro. O altra. Non disse e fece niente di tutto quello, anzi si volse a guardare Josh con sguardo interrogativo e fortemente ferito. E così si trovò a chiedersi quale versione le avesse mai raccontato della storia, perché quell’uscita era fortemente infelice, pregiudicata dai pettegolezzi e parzialmente rivelatrice della situazione.
    «La vedo un po’ difficile, Erin -giusto?» le iridi tornarono su quel viso carico di efelidi. «Calzano regolari, un solo piede per volta, nonostante abbia provato a farcene stare due in una scarpa sola». Niente rabbia o sarcasmo, niente furia o distruzione, solo tanta tristezza, amarezza e dolore ben visibili anche per un cieco. Si chiese cosa sapesse davvero e se mai l’altro l’avesse aggiornata con un bollettino medico letto in conferenza stampa o se avesse optato per tenere per sé quanto accaduto. «E poi non sono io ad aver lanciato la moda o la sola a seguirla», con quell’informazione avrebbe lasciato che fosse l’altra a scegliere cosa farne.
    Avvertì un improvviso strappo al cuore. Guardò la sua matassa: il filo che la legava a Cameron Cohen era così sfibrato da mantenersi solo per via di uno di quelli all’apparenza sottili, ma resistenti. Non sapeva cosa l’avesse scatenato, non aveva avuto modo di vedere il destino riservato a quel regalo che gli aveva fatto e che lei stessa gli aveva allacciato. 
Non aveva tanto tempo a disposizione. Fece un passo indietro quasi a voler spezzare quel triangolo: non aveva più sedici anni, non era più quella Lyllybeth -Lyl- disposta anche a condividere pur di averlo; non avrebbe trascinato Cam in quelle sabbie mobili in cui aveva lasciato Jug. Se era arrivata sino a lì con Evans era per capire le sorti del loro legame, di quel filo: spezzarlo, ingarbugliarlo, rigenerarlo o lasciarlo allo stato brado, privo di senno e regole come in quel momento. Da lì in poi avrebbe potuto riprendere a tessere la trama della sua vita.

    Atto terzo: Joshua Benjamin Evans.
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    In ordine di apparizione(?): Cameron Cohen, Lucas Jughed Jones, Joshua B. Evans, Erin Murphy.
  8. .
    Come in ogni storia c'è un principio, uno sviluppo -più o meno intrecciato, più o meno ricco di ostacoli da superare lungo il percorso di sviluppo del protagonista- ed una conclusione. Quest'ultima non prevede per forza un finale felice.
    Nella sua mente il racconto del ballo aveva avuto il suo inizio nel momento in cui Cohen l'aveva invitata, in un ristorante raffinato, ignorando l'elefante di cristallo nel mezzo del loro salotto: da brava autrice l'aveva depennato dal suo racconto, arrivando direttamente al momento in cui lui l'aveva vista in quel vestito ricco di sfumature e giochi di luce. Poi c'era stato il momento della danza, il rinfresco, una giravolta sulla pista di pattinaggio ed un bacio sotto il vischio che prometteva ben altro, alzando le aspettative. La conclusione la loro uscita di scena intenti nella ricerca di luogo appartato dove potersi amare liberamente.

    Ma quella era la vita vera e non un semplice racconto, tra fiaba e romanzo erotico.

    Bisogna però iniziare dal principio e quello era il momento che avevano condiviso al lato del portone d'ingresso alla Sala Grande, con lei intenta a sistemare la cravatta ed il norvegese impegnato a difendere l'operato di un confratello, nonché recente amico. «Per caso aveva la testa inclinata quando te l'ha sistemata?» avanzò l'ipotesi, scaricando la colpa su Miller, scartando l'ipotesi che fosse stato lo studente del terzo anno a rimetterci mano dopo l'aiuto dell'amico. Nel farlo aveva scaricato su di lui il regalo che aveva portato per lui, invitandolo poi ad aprirlo non solo per un problema di logistica visto che non sapeva dove tenerlo, visto che non aveva previsto la presenza di alcuna pochette e non voleva appesantire la linea del vestito, infilandolo in una delle tasche.
    Si gode ogni singolo istante che impiega nello sfilare il biglietto, ogni micro espressione alla lettura delle parole che aveva scritto di getto, finendo con il sollevare lo sguardo su di lui nel suo stesso momento. Il labbro venne mordicchiato per tutto il tempo che lui aveva impiegato nel richiamare alla memoria e poi riassumere la promessa che li aveva definiti. E così, come allora, sentì una piccola fitta di panico che venne messa a tacere dal bacio casto che si scambiarono e dalla sua innocente presa in giro su come gli avesse chiesto di allacciarle al collo la collana che per quella sera aveva lasciato sul comodino. Le dita sollevarono il bracciale con tutto il cuscinetto che lo sorreggeva nella scatola, sfilandolo e poi concentrandosi sulla chiusura fino a quel momento nascosta che non aveva un aspetto comune: il corpo rigido, infatti, era un'ancora stilizzata. Aprì il gancio, liberando l'anello, avvolgendo il cuoio semi rigido al polso che l'altro le aveva teso. Lo chiuse, rigirandolo fino a far emergere quei due innamorati che univano le due metà di mondo -il loro mondo- fino ad unirlo, creandone uno nuovo. Lo sfiorò con le dita, le stesse dita che scesero lungo il suo palmo fino ad intrecciarle con le sue. «Pronta».
    Credeva che il loro ingresso fosse passato inosservato agli occhi di chi più temeva incrociare e rimase di quella convinzione anche perché la McKenzy stava mettendo su uno dei suoi soliti teatrini con l'aiuto del suo famiglio, questa volta.
    Lì incrociò Deva impegnata a liberare il vestito dell'opalina che era rimasto impigliato alla staccionata che delimitava la pista di ghiaccio. Cameron fu pronto ad usare la sua lingua di serpe mancata -era stato infatti uno studente di Durmstrang- dandogli un piccolo colpetto di gomito al costato. «Nah, alla fine i suoi frutti servono per la vittoria della Coppa», peccato che ne perdesse un po' troppi per strada per i suoi gusti. «Ero nel mio periodo di beneficenza» chiarì alla Lestrange che l'aveva definita masochista. Oh, lo era, ma non in relazione a Gillian.
    Mentre aveva lasciato che il suo ragazzo -era ancora strano definirlo come tale- ed una delle amiche più care si stringevano la mano a seguito delle sue presentazioni e avvertimenti, la sua attenzione venne attirata da un siparietto che in passato le avrebbe fatto venire i capelli bianchi o rosa nel caso in cui fosse stata in possesso dei poteri di metamorphomagus di Cohen. Non riuscì a trattenersi dal commentare, abituata forse troppo bene al sostegno che il Dioptase le aveva sempre dato quando si lanciava in affermazioni tutt'altro che lusinghiere. All'inizio non riuscì a capire cosa le stesse dicendo, sconcertata dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Cam su tutte le furie, la freddezza che trasudava in ogni sillaba e parole che non trovavano il nesso, nella sua mente, rispetto a quello che lei aveva detto. «Cosa?!» Il sopracciglio teso aveva finito con il trasformare la sua espressione, da yogurt inacidito per via del fastidio che aveva provato nel vedere quelle due coppie a sconcertata per il fatto che l'altro non avesse capito. «Non è la stessa cosa, Cam», rispose con stizza, dimenticando che altri potessero ascoltare quel litigio. «Lei ha sempre cercato di imitarmi, di avere quello che avevo io; io non ho mai aspirato ad essere la prossima Madre Teresa di Calcutta». Perché Mia Freeman era la Santa, Elisabeth Lynch la reincarnazione del Diavolo. Jessica Veronica Whitemore una pallida imitazione. Dal quidditch alla spilla da Prefetta, passando dai ragazzi cui si era svenduta per avere un briciolo della loro attenzione, a differenza della Lynch. Era così egoriferita da non aver preso in esame la possibilità che la sua irritazione potesse essere scatenata dal fastidio del suo commento rivolto ai suoi ex, alimentata da una gelosia rinnovata a seguito dell'ammissione di quanto era accaduto con Evans poche settimane prima. «E non sa di Lucas», pensò con lui nella sua piena crisi melodrammatica a smollare un regalo che non aprì, ma che tenne con entrambe le mani, mentre si allontanava. Di nuovo. «Pensi che la situazione sia sempre scappare?!» Non era alto il tono di voce, forse l'avrebbe sentito solo la Lestrange, ma era stato una rivelazione su quanto l'atteggiamento di Cohen iniziasse a starle sul culo. Seguire la sua schiena, le mani a stringersi attorno al regalo di lui, diventa pesante da sostenere a lungo soprattutto quando la sua chioma diviene di un rosso intenso. Lascia che si allontani da lui nonostante un «non andare» martella nella sua testa insieme alla domanda della matricola. Di scatto si gira, non a fissare lei, bensì un Jones che nonostante sia impegnato nel ricreare la natività -per il bue e l'asinello aveva in mente un paio di figuranti- comunica attraverso il legame che li unisce da diverso tempo. Non c'era bisogno di un interprete per leggere la delusione nel non vederla agire con Cohen, spronandola ad essere la solita Lynch inscalfibile davanti all'ennesimo ostacolo. Nel suo mare di grigio, accentuato dal riflesso del vestito, l'aspirante giornalista avrebbe letto: «cosa diamine stai facendo? Perché lei? È stato prima o dopo che noi...» Ancora una volta quello che aveva dato il via il ritorno del figliol prodigo tornava a farsi sentire: l'escandescenza di Cameron, l'arrivo trafelato di Lucas nel captare che qualcosa non andasse da un semplice scambio di messaggi e poi la sorpresa londinese del Dioptase e relativa definizione del loro rapporto. Rapporto che sembrava esser colato a picco come un moderno Titanic. «A quanto pare la normalità mi annoia», riuscì a ritrovare la voce, prestando finalmente attenzione alle domande che la verde argento in rosso vestita aveva posto. Quella era stata la prima, seppur seconda nel suo ordine di domanda, quanto all'altra risposta...
    Joshua Benjamin Evans era cambiato, non solo nella malattia e nella maturità che il tempo e le vicissitudini avevano tratteggiato sui suoi lineamenti, anche nei suoi rapporti interpersonali, in particolar modo quello che condivideva con lei. Non si erano più parlati dopo l'aula che aveva assistito alle domande e all'attrazione che continuavano comunque a provare, eppure quel ragazzo che si era affannato a coprirla con la sua felpa dopo averla liberata -insieme a Jones- dalla sua gabbia c'era ancora da qualche parte. Così come quel ragazzino che aveva rubato la giacca a qualcuno per salvarla in occasione del ballo inaugurale voluto dalla Burke anni prima. Seppur consapevole che non avesse ancora effettuato una scelta dirsi infelice o delusa sarebbe stato solo un atto di pura infamia, codardia, e non sarebbe stato meritevole di tutto quello che era stato e che sarebbe potuto essere.
    Era così stordita che non sapeva neanche se iniziare un'analisi del perché si stesse avvicinando, con il suo abito grigio seppur più sporty che chic in grado di illuminargli ancor di più quei cerchietti in cui si era persa e ritrovata per la prima volta. «Ben...» mormorò quel diminutivo che avrebbe fatto drizzare le antenne della Lestrange visto che quando si era ritrovata ad aggiornarla sulla sua vita aveva appellato l'ametrino o con il cognome o con il secondo nome, mai con il primo. «Joshua», si corresse alzando il tono, ignorando che alle sue spalle vi fossero diversi membri della sua casa. Un improvviso dolore all'indice sinistro spostò le pupille da lui che si avvicinava al regalo che stringeva, precisamente su quel bigliettino incastrato che aveva finito col graffiarle la falange. Sporco di qualche gocciolina di sangue lo aprì, mentre portava il dito alle labbra a pulirlo, leggendo e ricordando quello che Cohen vedeva in lei. «No», occhi velati su di lui sollevati, palpebre a battere velocemente a scacciare quel velo dalla sua vista. «Non va tutto bene», dietro di lui Jones e Whitemore a danzare indifferenti. E forse andava bene così. O forse non andava bene così. Tornò a mettere a fuoco il suo viso e capì che forse era giunto il momento che lui le restituisse ciò che gli aveva affidato sin dai tempi di Bath. «P-Vuoi?» chiese, indicando con un cenno del capo una delle tante panche che correvano lungo il perimetro della Sala Grande e senza attendere un cenno di risposta si avviò verso la parte più scura, vuota, della stanza, scegliendo una di quelle poste in una rientranza che permetteva di vedere tutto ma di non essere vista se non ci si prestava la dovuta attenzione. Non si sedette, l'unico ad occuparla fu il regalo di Cameron che posò con forza, tanto da provocare un piccolo tonfo. «Ho bisogno che tu me la restituisca», avrebbe iniziato qualora l'avesse seguita seppur a debita distanza. «Perché da quando te l'ho data nulla è più andato per il verso giusto ed io ho bisogno di tornare intera, perché sono stanca di avere come unica compagnia la metà peggiore», probabilmente l'avrebbe presa per pazza ma il suo discorso aveva un senso, un peso, almeno nella sua mente. «Ormai non ti serve più, no?» Seppur avesse desiderato essere sarcastica fu il dolore di quelle parole a prevalere, perché nonostante il tempo fosse passato e l'avesse reso un ricordo, era tornato più vivo che mai con il loro primo ed ultimo incontro. «Ho bisogno che tu mi restituisca la parte migliore di me, Ben». La sua umanità, il suo cuore.
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    Un parto plurigemellare sarebbe stato più facile.
    So... Pre scarto-gate: interagisce con Cam, allacciando il bracciale;
    scarto-gate: risponde a Cameron, tentenna su Deva L. Lestrange cui risponde alla fine. Comunica con lo sguardo(?) con Lucas Jughed Jones, non segue/ferma Cameron, all'arrivo di Josh dice che obv non va bene nulla.
    Post scarto-gate: chiede a Joshua B. Evans di seguirla ad una delle panche, una delle più lontane e chiede cose.

    Se ho dimenticato qualche interazione sorrattemy.

    Buon drama a tuttə.
  9. .
    Deva Lestrange era una delle poche persone di Hogwarts di cui serbava un piacevole ricordo, il che era tutto dire visto che la differenza di età, quando frequentava lei il quinto anno e l'altra il primo, era notevole. Eppure, da quando l'aveva vista sedere al tavolo degli Opali la Lynch si era dimostrata felice di avere un volto amico, una spalla malefica su cui fare affidamento, una lingua così tagliente che non permetteva sconti. Era quello che voleva da sempre: una persona capace di tenerle testa, di non farsi problemi nell'indorare la pillola ma non per questo offenderne la sua intelligenza, a differenza di altri.
    In un certo qual modo fu sollevata che fosse l'ex Serpeverde ad aver varcato quella soglia e non uno dei tanti fantasmi che stavano tornando a farle visita, seppur la sua presenza simboleggiava non poter fingere che quanto fosse accaduto nella stanza in disuso non fosse mai successo. La presero alla lontana, entrambe, con la primina ad affinare il suo sarcasmo e lei a corromperla con qualcosa sapeva interessarle terribilmente, come l'alchimia. «La solita sanguisuga», commentò lasciando intendere come possedesse l'opera di Spencer e che gliel'avrebbe data non appena tornate in Sala Comune. Ma il tempo dei convenevoli durò come un gatto in tangenziale. La sedicenne fece la sua mossa tirando fuori Evans, lei cercò di buttarla in caciara con la storia delle scommesse sul suo conto. Non funzionò, perché l'altra era riuscita andare oltre, subodorando la colossale stronzata che aveva fatto neanche avesse installato un paio di magitelecamere nell'aula del misfatto. Non aveva alzato la gonna, ci aveva pensato lui. Non aveva perso la dignità perché Joshua non rientrava in quella categoria dell'universo. O almeno così le faceva comodo credere. «Ti prego cosa?» si lamentò, prendendo posto e tirando fuori le unghie da perfetta idiota qual era. «Non è un imbecille», le uscì di getto. Altrettanto velocemente chiuse la bocca e la fissò. «Okay, lo è ma io di più», concesse, tornando a vagare con lo sguardo per non leggervi il disappunto alle sue parole successive: «però lo sai che lui è lui». Joshua Benjamin Evans rappresentava la sua croce e delizia ormai da anni e per quanto ci avesse lavorato su, per quanto il tempo era trascorso opacizzando persino i ricordi, era bastato rivederlo, parlargli, stargli vicino per ricadere nella sua spirale. «Pensavo non avesse più potere su di me ed invece mi sono sbagliata, Dev». I piedi finirono lì dove di solito gli altri studenti posavano i loro regali sederi, le ginocchia si unirono ed i gomiti appuntiti li usarono come sostegno per reggere il peso della sua testa. «La seconda», la voce attutita dalla posizione che aveva assunto. «Dopo che...» si fermò, prendendo a massaggiarsi le tempie come ad alleviare la pressione che stava salendo insieme all'emicrania martellante. «Ho pensato di andare da lui, ma ho avuto paura su come avrebbe reagito», o meglio su quanto la sua reazione si sarebbe scostata dalle sue aspettative. E se quello avrebbe significato che il rapporto che avevano fosse una semplice amicizia o se davvero c'era qualcosa di più che avevano finto di non vedere da quando erano andati a letto insieme la prima volta e alla fine della sua storia con la Freeman. «Cosa hai sentito tu di noi Il riferimento era a lei e Cohen, di cui gli aveva parlato per sommi capi, senza mai approfondire davvero. Realizzarlo fu l'ennesima pugnalata allo stomaco: strano che riuscisse ancora a reggersi in piedi. «Sai cosa mi fa strano? Che da quando ci siamo riviste io ti abbia parlato solo di Evans e di nessun altro», gli occhi emersero tra i polpastrelli, il viso ancora parzialmente occultato da palmi e dita unite. «Morgana, cosa ho che non va in me?»
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  10. .
    Non riusciva a spiegarsi come Lucas continuasse a dimostrare un spirito di adattamento ed una capacità di perdono tali da equipararlo ad un santo.
    Due antipodi che trovavano il modo di comunicare, nonostante quello che avevano vissuto, di creare qualcosa di nuovo da pezzi così infinitesimali da passare inosservati agli occhi dei più distratti e frettolosi. Elisabeth nutriva rispetto per quel ragazzo col cappello che aveva fatto così tanta strada da quando, in una delle sue ronde, l'aveva trovato grondante di sangue, il viso tumefatto ed i lividi già a presentare il loro conto. Avevano affrontato i loro demoni, magari non erano riusciti neanche a sconfiggerli, talvolta preferendo aggirarli invece che incontrarli in campo aperto, eppure... lui era lì.
    Lui era lì, ad ascoltare i suoi deliri che non potevano più usare la scusa dell'essere alticcia; lui era lì, a sentire che ancora una volta Joshua avesse scatenato un vero e proprio terremoto nell'equilibrio precario che era la sua vita; lui era lì, mentre realizzava che voleva Cameron Cohen, ma aveva paura di ammetterlo o forse realizzare che una volta avuto non era poi quello che aveva desiderato. Dietro di lei solo le macerie delle sue scelte, nessun posto migliore dopo il suo passaggio, nessuna speranza o rinascita. Beh, magari gli altri che avevano avuto a che fare con il suo pessimo carattere avrebbero trovato il modo per fiorire come aveva fatto Jones.
    Agì, senza pensarci troppo, senza sapere neanche lei cosa stesse davvero facendo: un bacio ben diverso da quelli che avevano condiviso, lontano anni luce da quel primo timido sfioramento di labbra dove lei gli aveva chiesto di insegnarle. Aveva appreso fin troppo bene la lezione, dati quelli che ne erano seguiti con persone diverse. Quel bacio brevissimo, quasi infantile nelle intenzioni e nelle movenze, ebbe il sapore agrodolce di qualcosa di bello ma che era passato. Si allontanò veloce come si era avvicinata, iniziando ad intervallare parole ad un anelare sempre più caratterizzato dal panico, sorda ai suoi richiami, fino a quando non le intrappolò il viso con le mani, rivelando quanto fosse più preoccupato che potesse prendersi un malanno e non di averlo baciato. «Perché le tue priorità non sono normali?» Pensò, scuotendo il capo, incredula della sua gentilezza e poi stupita per il fatto che, per una volta, non c'era un terzo che poteva essere ferito da quel gesto. «Tranne Cameron». Odiava la voce della coscienza che ora cercava di affacciarsi dalla sua loggetta per ammirare lo spettacolo: lui che aveva ridotto le distanze tra loro, dove sarebbe bastato uno sbilanciamento per permettere alle loro labbra di incontrarsi di nuovo. Quello e la promessa insita nelle sue parole. «Solo per stasera», ripetè, lasciando che tornasse a familiarizzare con le sue labbra, e lei con lui. Un bacio che nacque lento, un veleno che lei spargeva ma che lui curava con il suo antidoto. Non aveva senso, non sapeva più cosa avesse senso, fatto fu che approfondì quel bacio, chiudendo gli occhi e scacciando via l'immagine di Cameron Cohen che saliva su Ashura per volare via. Via da lei. Lo baciò, beandosi di quel senso di familiarità che aveva il potere di farla stare meglio, di non pensare al risveglio duro che ne sarebbe seguito. Ma quello sarebbe stato l'indomani, non oggi. In fondo gliel'aveva promesso.
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  11. .
    Guardava la sua immagine riflessa nel piccolo specchio da trucco che aveva posato sulla pila di cuscini che aveva creato per stabilizzarlo il più possibile. Gli occhi erano sempre gli stessi, dalla forma allungata, le ciglia voluminose e definite, l'azzurro reso più brillante da un leggero smokey nero; le labbra idratate da una tinta rosso scuro, che richiamava il sangue. I lunghi capelli erano intrecciati e poi arrotolati su se stessi fino a creare uno chignon alto ed elegante. I tratti erano molto più affilati e decisi rispetto a tre anni prima. Quella fu la prima differenza che notò. La seconda l'assenza di orecchini o cerchietti in tema natalizio, nessuna musichetta ad accompagnare il lampeggiare delle lucine del piccolo alberello montato sopra. Ai lobi vi erano i gioielli che in realtà celavano delle armi al loro interno: da quando Garlic glieli aveva fatti recapitare non li toglieva mai. Come quella collana che spuntava dall'accappatoio che ancora indossava sull'intimo scuro. Aveva giurato che non l'avrebbe mai tolta da lì, eppure quella sera avrebbe dovuto fare a meno del pegno di Cameron poiché cozzava con il vestito che aveva scelto e che ancora era appeso alla gruccia ferma sulla parte superiore della porta per non sgualcirlo. Non era in ansia come al suo secondo anno quando sentiva la pressione di dover aprire il ballo e senza cavaliere, con i dubbi su Josh e la sparizione di Lucas. Quella sera sarebbe andata con Cameron e non in un modo qualunque, non di certo in qualità di amica, come ci avevano tenuto entrambi a precisare. Stavano insieme, da pochissimo, ma erano passati in sordina. Non sarebbe stato lo stesso quella sera.
    Arricciò le labbra, i pollici a scrocchiare i mignoli e poi gli anulari.
    Quella serata avrebbe cambiato gli equilibri. Quella serata non le avrebbe permesso di nascondersi tra le ombre, di manovrare i fili e studiare le mosse degli avversari: avrebbe camminato tra loro, a testa alta, ora come allora anche se per motivi differenti. Il magifonino si illuminò. Si allungò dall'altro lato per leggere un messaggio che trasudava nervosismo ad ogni sillaba.

    Per favore, non diventare uno di quei pinguini e non andare in ansia da prestazione. Sappiamo entrambi che non ne hai bisogno. Ci vediamo tra poco.

    Nessun cuore, nessuno smile, solo tanti punti e frasi dal doppio senso assicurato.
    Avrebbe fatto meglio a muoversi dato che era rimasta l'unica della sua stanza ad essere ancora lì.

    Scese l'ultima rampa di scale, quella principale, sollevando il vestito che fu, in qualche modo, il primo pezzo del puzzle del deja-vu che andava componendosi. Il modello non era così diverso da quello rosso indossato tempo prima, un colore che aveva scelto per rimarcare quanto fosse forte nonostante si stesse presentando sola all'evento più importante dell'anno scolastico. Quella volta optò per un vestito dalle sfumature del lilla, grigio e nero, impreziosito da dettagli luminosi e spalline cascanti che mettevano in risalto il suo seno, stretto dalle coppe cucite al suo interno. Ai piedi un paio di décolleté dalle sfumature che richiamavano l'abito; più su, all'altezza dei fianchi vi erano delle tasche nascoste dalle pieghe del tulle che nascondevano il magifonino e il catalizzatore. Nella mano destra stringeva una piccola scatolina quadrangolare che celava al suo interno un bracciale in cuoio nero, con un mondo diviso a metà ed unito da due figure stilizzate che si tenevano per mano. Fermato dal fiocchetto argento c'era un piccolo pezzo di pergamena piegato in quattro:

    Per ricordarti che due “meno male” sono l'àncora dell'altro ed io sarò la tua, sempre.
    Buon Natale
    Liz


    Lo vide, lì, con le spalle al muro nel suo miglior vestito e con la cravatta un po' storta. Sorrise, superando gli ultimi gradini in scioltezza e lasciando che l'abito accompagnasse ogni singolo passo verso di lui. Strinse ancor di più la scatoletta quando lui le disse che era bellissima. «Facciamo finta che tu non abbia detto un cliché e che io non ti stia per sistemare la cravatta», annunciò, piazzandogli in mano il suo regalo ed allungando le mani fino al collo per raddrizzare la cravatta. «Ecco, così va meglio!» Poi, abbassando lo sguardo sull'oggetto che gli aveva smollato andò controcorrente al suo annuncio di darle il regalo successivamente. «Io vorrei che il mio lo aprissi ora», ammise, fulminando con lo sguardo chi rallentava per osservarli, chiedendosi se avrebbero mai smesso di farlo.
    Il secondo momento di deja-vu giunse dopo che accettato il braccio di lui fecero il loro ingresso nella Sala Grande finemente decorata a festa. Le venne l'orticaria. Eppure cercò di rimanere inflessibile mentre avanzavano e lo sguardo a far la conta dei presenti e degli assenti. Un brivido le corse lungo la schiena nel vedere quella pazza della sua compagna di stanza sbracciarsi verso la pista di pattinaggio, indicando quel panda rosso, per cui paventava sempre l'ipotesi di sopprimerlo -non era un caso che non avesse scelto il corso in cura dei viventi- che non avrebbe dovuto essere lì e per cui si dimenava come se ne valesse della sua vita. «Mi sa che dovrai attendere per il cibo», annunciò, voltandosi a guardarlo, «a meno che non vogliamo dividerci», sperava non propendesse per la seconda ipotesi, ma, ad ogni modo, non avrebbe potuto attendere ancora molto prima di intervenire. Recuperare il catalizzatore dalla tasca mentre si avvicinava alla McKenzy, puntarlo in direzione di Pinkie e recitare la formula fu un mero atto di egoismo. Un «Carpe retractum» suonò chiaro vicino alle orecchie dell'amica di vecchia data che salutò con un cenno del capo, mentre tentava di modellare l'incantesimo nel tentativo di riportare il famiglio alla padrona, che avrebbe tenuto sveglio l'intero dormitorio con i suoi eventuali pianti funebri, cercando di evitare gli altri presenti sulla pista. «Se non lo mette al guinzaglio la prossima volta lo faccio esplodere», sibilò a voce bassa in modo tale che solo Cameron, se l'avesse seguita, e Deva l'avrebbero potuta udire.
    Una volta conclusasi quella parentesi -sperava, in cuor suo, senza ulteriori incidenti di percorso- si sarebbe soffermata a guardare il vestito della Lestrange con un sorriso, avvicinandosi a lei e mettendosi al suo fianco, dando le spalle alla pista di pattinaggio. «Scelta di colore interessante», all'inizio da perfetta Serpeverde aveva avuto qualche problema con il rosso e domandarsi se anche per l'altra fosse stato altrettanto difficile indossarlo.
    Qualora il norvegese fosse stato presente la Lynch sarebbe passata alle presentazioni con un semplice «Deva, ti presento Cameron Cohen. Cam, lei è Deva Lestrange, vedi di non farti odiare anche da lei, ne potrei soffrire», il sorriso che sembrava non volersi spegnere. Se non ché... le iridi cerulee avevano scandagliato la pista da ballo, vedendo chi si fosse già arrischiato nelle danze, trovando più di un elemento capace di farle gelare il sangue in pochi secondi. Da una parte Joshua con Lilith Clarke, ex fidanzatina perfetta di Blake, insieme al ritratto della famiglia della Mulino Bianco: Lucas, Jessica e il -resuscitato- figlio di lei con indosso una tutina che gli aveva regalato insieme all'Ametrin tre anni prima. «Morgana, mi stai prendendo in giro?!» Cercò lo sguardo di Deva, mentre sentiva la sua lingua biforcuta sbrigliarsi dalla gabbia in cui l'aveva chiusa prima di lasciare il dormitorio. «La Whitemore non smetterà mai di prendersi i miei avanzi», commentò caustica, mentre il fastidio di vedere Jones così vicino a lei veniva ricacciato indietro, insieme a quello che era successo sui monti. Nessuno, tranne loro due, sapeva quello che era successo. Avrebbe continuato così, non voleva rischiare di mandare all'aria -per l'ennesima volta- le cose con Cohen. «Mi spiace solo per Lucas, meriterebbe di meglio», non era nuovo all'orecchie di entrambi il tipo di rapporto che legava Jessica ed Elisabeth sin dai tempi di Hogwarts. Due nemiche che avevano tentato la strada della diplomazia e rispetto reciproco, ma che sembrava iniziare a scricchiolare in quel momento. Infine, dal viso della Lestrange tornò a focalizzarsi sul suo primo e la vicinanza alla Caposcuola che, fino a quel momento, aveva sempre ignorato rispettosamente. «E così Evans ha deciso di far da cavaliere alla Clarke?» Non sapeva di certo che, quella sua domanda ad alta voce, aveva appena dato via ad un butterfly effect.
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    Interagisce con Cameron Cohen, Deva L. Lestrange ed in qualche modo Gyll McKenzy. Cerca di usare un carpe retractum sul panda pattinatore per riportarlo alla legittima proprietaria. Inoltre, fa commenti acidi sui quattro+1 dell'Apocalisse (Lucas Jughed Jones, Lilith Clarke, Joshua B. Evans e Jessica).

    Azione 1: carpe retractum su panda
    PP: Intelligenza, 17
    Incantesimo: Nome: Incantesimo Aggrappante
    Classe: Generico
    Formula: Carpe Retractum
    Movimento: puntare l’oggetto a cui aggrapparsi, una linea bianca si aggrapperà ad esso e si verrà trascinati in quella direzione o viceversa.
    Effetto: permette di aggrapparsi agli oggetti, raggiungendo posti inaccessibili
    Note: con Tecnica > 25 è possibile modificarne la consistenza della linea bianca
  12. .
    Pensava sempre più che la scelta di un luogo pubblico come quello, in un primo incontro dopo il disastro avvenuto sui monti, non fosse stata una scelta del tutto casuale. Credeva che fosse per trovare un modo per scusarsi, per dirle che non avrebbe voluto perderla, che la sua reazione fosse stata esagerata e che, circondati da Babbani, non avrebbero potuto di certo assaltarsi alla gola con le loro bacchette. Un luogo dove dare inizio ad un periodo di pace e tranquillità che sperava fosse duraturo. La delicatezza dei suoi gesti, la calma placida con cui aveva accettato quel teatrino con la collana e poi il suo tentativo di rifiutare il suo regalo, quel libro da un valore affettivo inestimabile che le aveva messo tra le mani. Un libro che rappresentava il vero cuore, nucleo, di Cameron Cohen, la sua essenza offerta a lei affinché se ne prendesse cura, proteggendola da qualsiasi cosa. Un valore simbolico che valeva ancor di più dell'invito al ballo che ne seguì. Ballo cui avrebbe dovuto comunque presenziare in veste di Prefetto. Già si immaginava gli sguardi, le parole pronunciate a labbra strette, la rabbia di qualcuno ed il dolore di qualcun'altra. «Mia...» Anche lei Prefetta avrebbe visto il suo primo ballo rovinato da loro due che avrebbero volteggiato nella Sala Grande. Un'immagine ancor più dolorosa dei pettegolezzi che giravano. Eppure non era riuscita a non chiedergli in che veste gli stesse chiedendo di partecipare allo Jul Ball di quell'anno e per un po' cedette all'assentire di lui, circa la loro presenza come coppia di amici e nient'altro. Eppure sul suo viso c'era quel sorrisetto ironico che avrebbe voluto cancellargli con un bacio. Preferì bere un sorso del drink che ancora occupava i tre quarti del bicchiere, con i cubetti di ghiaccio a galleggiare in superficie. Sobbalzò nell'irruenza di lui nel riprendere l'oggetto del presente che gli aveva dato, non allontanò la mano quando lui vi posò la propria, accarezzandola con una lentezza esasperante. «Sì, sei stato chiaro», inclinò il capo, mentre il corpo scivolava più vicino al suo, mentre il pollice di lei cercava di arrivare sul suo mignolo. Contatto, aveva bisogno di contatto per quel tutto che era chiamata a divenire. Proprio quel tutto che aveva realizzato di volere quando era giunto Lucas da lei. «Cosa?» Era incredula ora. Il cuore le martellava frenetico del petto, le parole che da un po' di tempo a quella parte aveva desiderato di sentire finalmente erano arrivate ma si sentì terrorizzata. Accettare quel ballo significava accettare anche di essere la sua ragazza, la sua donna e lei, nonostante il Lucas degli inizi, non aveva mai avuto di fatto una relazione. Con l'unica che aveva mandato all'aria nel giro di poche settimane, cosa avrebbe potuto pretendere da quella con il Dioptase? Certo, se guardava indietro all'evoluzione del suo rapporto con il norvegese, poteva dire che in qualche modo avessero già una storia, atipica, ma pur sempre una storia. E così allontanò, almeno per quella sera, i fantasmi dei tre Ametrin che avevano segnato le loro vite: Lucas, il suo primo bacio; Mia, il primo amore di Cameron; Josh, il suo potenziale tutto.
    Si volse a guardarlo, con la mano a toccare quel profilo deciso, le dita sugli zigomi marcati. «Sì, verrò al ballo con te», un sorriso luminoso a sorgere spontaneo sulle sue labbra. «Come mio <i>tutto<(/i>».
    Elisabeth
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  13. .
    Stava smarrendo la strada. Sembrava quasi che il percorso che aveva fatto negli ultimi anni non fosse mai avvenuto. Si sentiva ancora come quella ragazzina impaurita, che si trovava a fronteggiare qualcosa di più grande di lei, di totalizzante come poteva essere l'amore a quell'età. Sembrava come se quella consapevolezza, quella forza che aveva ritrovato al momento della morte della madre per risorgere dalle ceneri del lutto fosse stata completamente esaurita dall'ultimo litigio con Cohen. Non erano stati anni facili, persino la più piccola delle gentilezze la vedeva come un'arma da cui difendersi, finendo col preferire la solitudine e la compagnia della persona che più avrebbe potuto capirla. Si era chiusa a riccio, credendo di essere invincibile, intoccabile da quello che le veniva urlato contro, gli sguardi carichi di giudizio e
    condanna, ma alla fine era stata tutta un'illusione. Il suo mondo stava collassando e l'unico che era giunto al suo fianco era stato il solito Lucas Jug Jones. Aveva capito che c'era qualcosa che non andava da pochi messaggi, aveva lasciato tutto e si era incamminato fino a lì solo per recuperarla. Era l'ennesima dimostrazione di come l'ametrino “sbagliato” ci tenesse a lei, andando oltre il fatto di averlo spezzato più volte, di come in qualche modo quella relazione nata sotto la migliore stella fosse riuscita ad evolversi in uno strano rapporto di amicizia. Eppure... «Non è la stessa cosa», mormorò, appoggiandosi a lui, ricercando quel calore che non sembrava mai raggiungerla perché forse il vero gelo era dentro di lei.
    Un bacio sulla fronte che sembrava più un marchio e non una carezza. E ammise che una parte di lei sarebbe voluta rimanere cristallizzata nel tempo, senza conoscere l'odio, il dolore, la perdita, parole che simboleggiavano la crescita, la maturità, l'età adulta. E quel nome sussurrato sollevò lo sguardo nel suo, non trovandovi altro che affetto profondo, comprensione e qualcosa che non riusciva ad afferrare. Non gli permise di far unire le loro fronti, perché non avrebbe potuto resistere al ricordo rinnovato di Josh. Rimasero vicini, forse troppo, ma non si scostò. Lo sentì promettere di prendersi cura di lei, di dividere i loro fardelli e di portarli avanti insieme. Gli stava dando tutto, per l'ennesima volta, anche troppo. «Okay», biascicò, annuendo e poi sorridendo nostalgicamente a quelle poche parole che avevano segnato l'inizio di tutto.
    «Qualcosa di perfetto». Parole che rotolarono via, libere, potenti ed inarrestabili. Così come inarrestabile fu l'avvicinarsi delle labbra di lei su quelle di lui. L'ultima volta che era successo fu nel suo letto, lei piena di dubbi e di sovrapposizioni, lui ferito per quello che aveva appena saputo. Non sapeva che quello fosse l'ultimo bacio che si sarebbero mai dati. Forse l'avrebbe reso diverso, forse se solo fosse stata più brava nel mascherare le cose, a non voler sempre propendere per la verità ora la narrazione sarebbe stata diversa.
    Ma quello sui monti fu un bacio lieve, quasi incredulo, perché dopo pochi secondi si staccò, portandosi la mano alla bocca e sgranando gli occhi. «Oddio, no, scusa, non volevo, non so neanche se tu hai», si bloccò, scuotendo la testa, ancora troppo sconvolta da quello che aveva appena fatto. «E poi Cam, Josh, è tutto un casino», continuava a parlare a ruota libera, senza riuscire a trovare il modo per fermarsi; neanche quando prese il viso di lui tra le mani, naso contro naso affinché lui la guardasse e vi leggesse scuse e nient'altro. «Non posso avvelenare anche te, Jug».
    Elisabeth
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  14. .
    Il delirio di onnipotenza scorreva nelle vene ogni volta che calava il paletto in quel petto fantoccio, proprio lì all'altezza del cuore, incurante che chiunque si fosse arrischiato di entrare nell'aula di incantesimi l'avrebbe potuta scambiare per una pazza invasata. Solo l'ennesimo tassello del puzzle dei pettegolezzi che giravano su di lei.
    Il problema era che fosse così presa da quel ripetere in loop gli affondi che non si accorse di non esser più da sola se non quando la voce beffarda della Lestrange non le arrivò dritta e chiara alle spalle. Era stato un vero e proprio shock ritrovare quella bambina ormai cresciuta nella sua tavolata la sera del banchetto di inizio anno. Il nome inconfondibile così come i suoi occhi da gatta e la lingua serpentesca. Le era sempre piaciuta la consorella sin da quando aveva avuto modo di conoscerla al suo ultimo anno ad Hogwarts. Lei quindicenne, l'altra ancora con la puzza dei denti da latte. Un'undicenne tutta pelle ed ossa ma dallo sguardo intelligente, vivo ed arguto per la sua età. Ora, dopo che gli anni erano passati, poteva definire quell'incontro come un imprinting, una affinità del tutto naturale capace di superare gli ostacoli dell'età. Non aveva bisogno di fingere con lei, non che sarebbe servito a qualcosa. «Dovresti affinare meglio la punta di sarcasmo nelle ultima sillaba della domanda». Era ormai a cavalcioni sul manichino, ai lobi erano tornati il delfino e lo squalo, nella mancina solo il suo catalizzatore. Con lentezza si rialzò in piedi, castando un banalissimo reparo per riportare quasi alle condizioni di fabbrica il manichino che aveva martoriato nell'ultima mezz'ora. L'incedere verso di lei fu lento, permettendole di riprendere il controllo della sua parte più irrazionale, vulnerabile e sanguinaria. Passo dopo passo, lo sguardo cristallino e sempre più limpido che scrutava il testo che l'altra aveva aperto. «Ricordami di portarti il saggio di Rickterfest sull'importanza dei sigilli aritmantici per gli esperimenti alchemici», un testo che aveva consultato l'anno prima in biblioteca e che aveva deciso di acquistare in libreria tramite il servizio di posta express. Appoggiò i fianchi contro il retro della spalliera del banco al suo fianco, bevendo un sorso d'acqua dalla bottiglia che aveva recuperato dalla borsa. Per poco non rischiò di strozzarsi, finendo con lo sputacchiare qualche goccia d'acqua mista a saliva con discrezione. «Sono già aperte le scommesse su tra quanto finirò di nuovo a letto con lui?» Chiese, con fare non curante, sistemandosi i lunghi capelli in una coda di cavallo, passandoci più volte le dita prima di fermarla con un elastico. «Perché se volessi scommettere potrei suggerirti cose che assicurerebbero la tua vittoria». Tornò a fissare l'arena, sentendo di nuovo la rabbia iniziare a bruciarle dentro. «Come mai sei qui? Successo qualcosa? Qualcuno ti ha dato fastidio? Un artiglio ti si è scheggiato?» Si scostò solo per scivolare sulla superficie più ampia e piatta del tavolino, allungando le gambe ed intrecciando le caviglie. «Ah, se mai dovesse fermarti Cohen -dubito- tu non mi hai vista».
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    Preda e predatore si stavano studiando: ogni respiro in più, un gesto interrotto od uno sguardo prolungato erano sotto la lente d'ingrandimento di entrambi. Era una danza dove entrambi volevano condurre ma anche essere trasportati, ma, per funzionare, sarebbe giunto il momento che uno dei due avrebbe dovuto cedere. Non sapeva come sarebbe andata a finire quella sera e neanche tra loro due, l'unico controllo che aveva e poteva pretendere era di scriverlo sul momento, senza alcuna cosa prestabilita da esseri che se ne fregavano dei comuni mortali quali erano.
    Evitò i paragoni tra quella serata e una di tanti anni prima più o meno nello stesso periodo, perché non sarebbe stato giusto nei confronti di un passato che avrebbe difeso e custodito gelosamente, ma anche per chi era di fianco a lei, nel presente, e che forse avrebbe fatto parte di un futuro un po' più lontano dell'indomani.
    Non commentò la scelta del suo piatto così come lui aveva fatto con lei, forse perché non aveva avuto da ridire sulla scelta del vino che avrebbe accompagnato quella cena che aveva l'aria di essere un primo appuntamento, per una profana come lei. Non ne aveva mai avuto uno e dubitava che mai ci sarebbe stato, non quando si buttava in una cosa a capofitto, seguendo un istinto che l'aveva tradita un paio di volte. Eppure non una sola volta si era pentita delle sue scelte, nonostante avesse accarezzato l'idea del contrario.
    Un brindisi riunì quello che l'alcol aveva diviso, con parole ampliate dal norvegese e che le diedero quella spinta finale per crederci in una risoluzione del conflitto ma anche della natura del loro rapporto. «Nella buona e nella cattiva sorte», riassunse, usando un'espressione che veniva pronunciata sotto forma di giuramento in contesti ben più sacri ed importanti. Si stavano spingendo oltre i confini che avevano disegnato, poi cancellato e poi impilato mattone dopo mattone fino a formare un muro. Lei aveva preso una piccozza per abbatterlo ma non sapeva se l'altro stesse facendo lo stesso o se preferiva osservarla dalle microscopiche crepe che lei stessa stava creando.
    La busta che aveva tenuto con lui per tutto quel tempo tornò alla sua attenzione, ciò che non credeva possibile era la presenza di un ulteriore presente oltre quello che indossava. Stava per rimarcare di non aver bisogno di oggetti, luoghi e ogni qualsivoglia cosa costosa, ma l'espressione di lui e le parole che usò non sembrarono casuali. Si morse la lingua per non commentare come quel pacchetto fosse ben incartato a differenza di altri passati. Probabile che fosse un segno della preziosità che gli stava regalando, molto più del gioiello che impreziosiva la sua scollatura. La carta regalo venne tratta con cura, seguendone i profili dello scotch magico e della piegatura della carta stessa, rivelando qualcosa che sapeva essere davvero importante per Cohen. Una copia di Alice nelle Meraviglie un po' sgualcita e provata dal passare del tempo era ora a metà tra tavolo e grembo, le dita a carezzarne la copertina e la costa, quest'ultima rivelatrice di quante volte e come fosse stato letto. «È di Arya», mormorò, sollevando lo sguardo ceruleo nel suo rivelando quanto fosse turbata. «Non posso accettarlo, era il libro preferito di tua sorella e devi tenerlo tu, Cam, perché io», ma si bloccò, nel sentire quell'insolito ordine pronunciato con delicatezza. Per una volta non si dimostrò essere un palo lì dove non batte il sole. Sigillò le labbra e sollevò la copertina rivelando la prima pagina ed un biglietto. Le pupille lessero quelle parole più volte, il cervello non sembrava voler collaborare nel processare quella richiesta. Se qualche mese prima lo avesse chiesto non si sarebbe fatta remore, se non per i sentimenti di Mia e la possibilità di vederli insieme, nell'accettare perché sarebbero andati in qualità di due amici e non di coppia, ma lì, in quel caso, il tentennamento non sembrò la cosa più giusta da fare, così come continuare a tergiversare ed accettare senza essersi tolta ogni dubbio. «Mi stai chiedendo di venire al ballo con te come amica?» Quell'oppure non pronunciato, risuonava potente nella sua testa e forse non solo nella sua.
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    Lynch

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    Sometimes you have to stand alone. Just to make sure you still can.
    "

    Black Opal
    Prefetta
    Battitrice

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