Holy water cannot help you now

dopo le lezioni tra 7 e 12 novembre

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    Mushu, il suo gatto nero ciccione, l'aveva seguita fino all'ingresso dell'aula di incantesimi, guardandola confuso per essere lì visto che erano due anni che non frequentava più le lezioni della Ivanova. Ma, sebbene non l'avesse scelta come materia opzionale, la donna si era dimostrata aperta nel concederle l'utilizzo dell'arena all'interno della sua aula per potersi esercitare con gli incantesimi, fornendole addirittura un manichino di allenamento. Un'ora tutta per lei, un'ora per lasciar scorrere libera la magia e non a reprimerla. Si sentiva sovraccaricata dal ritorno di Joshua e dal suo fuggire ogni qualvolta notava la presenza di Cameron. Avrebbe voluto urlare, sfogarsi, distruggere qualcosa, qualunque cosa, e prima di dar fuoco all'intera foresta aveva deciso di chiedere aiuto alla rumena che al suo primo secondo anno le aveva regalato il suo cricetino Rain. Lasciò la sua borsa su uno dei banchi bianchi che tempo prima era solita occupare, servendosi solo della bacchetta ed incamminandosi verso il cuore fatto di brecciolina. Iniziò con qualcosa di blando, un paio di incantesimi base come un depulso ed un flipendo che allontanarono di un paio di metri il manichino. Ma non le dava alcuna soddisfazione. Desiderava di più che scagliarsi contro un corpo morto che non poteva rispondere ai suoi attacchi, voleva potersi sfogare al massimo delle sue forze. E così tracciò una e e fece una stoccata finale verso l'oggetto. «Corpus Locomotor». Rianimato gli diede solo un comando: «attaccami». Aveva iniziato a rispondere con l'aiuto degli elementi, tra acqua e vento, fuoco e sabbie mobili; era passata poi all'utilizzo di quelli astrali con sfere potenziate dall'influenza dei pianeti o scudi tirati su alla meno peggio. Ma il manichino era instancabile. Solo che lo era anche lei. Non sapeva però a chi rispondessero quelle fattezze: se al fantasma di un passato che si era materializzato nuovamente nella sua vita o il ragazzo verso cui provava qualcosa ma che non voleva ammettere neanche sotto tortura. O forse, semplicemente, quel manichino era lei stessa. Dopotutto era colpa sua. Un bombarda riuscì solo a far volare via schegge dalla parte superiore destra dell'oggetto incantato, ma null'altro. L'attacco arrivò, fisico, e questa volta la Lynch si servì di quegli orecchini che puntualmente portava ai lobi delle orecchie. Toccò quello a forma di squalo ed il mercurio duplice si plasmò fino a creare un paletto largo e squadrato. Prese la rincorsa e andò verso il manichino. L'irruenza lo fece crollare al suolo ma lei non si arrestava nel conficcare quel paletto ripetutamente nella parte che rappresentava il suo busto. Una, due, tre volte. Se fosse stato un uomo sarebbe stato già morto. Ma lei non si arrestava: continuava ad infliggere dolore a qualcosa di inanimato perché quello significava allontanare il dolore, la rabbia e la frustrazione. Stava riversando ogni singola briciola di forza, in una soddisfazione maggiore persino a lanciare i suoi amati incantesimi offensivi.
    Elisabeth
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  2. Deva L. Lestrange
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    Deva L. Lestrange
    Black Opal | 16 anni
    C'era chi smaniava all'idea di lasciarsi andare, di urlare al mondo chi fosse e di cosa potesse essere capace. C'era altresì chi desiderava restare nell'ombra, o meglio, emergere mostrando unicamente ciò che di più vantaggioso caratterizzava il proprio essere. Deva Lyanne Lestrange era esattamente questo: uno specchietto per le allodole che anelava alle attenzioni e donava lusinghe, conducendo all'inganno di chi più innocente e sprovveduto si dimostrasse nei suoi confronti.
    L'avevano cresciuta così, questo era l'unico modo di essere che conosceva e non voleva né poteva farne a meno.
    Si circondava di due diversi tipi di persone: per la maggior parte chi la vedeva come la principessina ereditaria di una delle famiglie nobiliari inglesi più note della società magica - e non più con il vanto di un tempo - e, in piccola parte, di chi la conosceva per il suo vero essere.
    Elisabeth Lynch aveva alle spalle una storia tale per cui il passato aveva fatto sì che le due entrassero in contatto molti anni prima di Hidenstone e, fregiandosi di un onere che a pochi altri era spettato, aveva saggiato parte della reale essenza della vipera di casa Lestrange.
    E questo implicava avere a che fare col suo veleno.
    L'aveva cercata in lungo e in largo per i corridoi della scuola. Aveva saputo da numerose voci di corridoio che un certo ragazzo - per la Lynch non del tutto insignificante - fosse tornato tra i banchi di scuola e la notizia le era sembrata più succulenta di tante altre che vennero da essa messe in ombra. Le pareva piuttosto strano che la sua Prefetta ne fosse rimasta all'oscuro, anzi, considerato l'atteggiamento schivo degli ultimi giorni, c'era un'enorme possibilità che lo avesse già saputo.
    La trovò nell'aula di Incantesimi, intenta ad accanirsi su un manichino inerme. Deva si domandò, camminando lungo il perimetro dell'arena, se Elisabeth stesse cercando di capire se l'oggetto inanimato avesse un cuore.
    In effetti sarebbe stato carino capire chi, fra quei tre, ne avesse uno.
    «Ricordami di non farti mai arrabbiare.» Commentò con un sorriso zelante mentre prendeva posto su uno dei banchi in prima fila, in modo da avere una migliore visuale di quel macabro spettacolo.
    «Qualcosa non va?» Provocatrice come solo la Lynch e pochi altri la conoscevano. Afferrò un libro dalla propria borsa e ne sfogliò le prime pagine accavallando le gambe. Sollevò lo sguardo di ghiaccio verso l'amica e affilò ancor di più quel sorriso che prometteva minuti interminabili.
    «Lo so, è retorico, ma non potevo farne a meno.» Sospirò e riportò le iridi sulle pagine di un libro di cui non aveva controllato neppure il titolo, ma che in base alla simbologia doveva essere il volume di Alchimia.
    Lo disse con noncuranza, come se la cosa fosse del tutto plausibile e per nulla mirata a far scattare la Prefetta contro di lei.
    «Hai visto chi è tornato?» Sfogliò di nuovo. L'espressione che lottava nel restare seria e indifferente.
    Le voleva bene, a suo modo, ma era proprio curiosa di capire dove si sarebbe spinto l'amore adolescenziale rispetto a quello più maturo di una donna spezzata dal tempo.
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    Il delirio di onnipotenza scorreva nelle vene ogni volta che calava il paletto in quel petto fantoccio, proprio lì all'altezza del cuore, incurante che chiunque si fosse arrischiato di entrare nell'aula di incantesimi l'avrebbe potuta scambiare per una pazza invasata. Solo l'ennesimo tassello del puzzle dei pettegolezzi che giravano su di lei.
    Il problema era che fosse così presa da quel ripetere in loop gli affondi che non si accorse di non esser più da sola se non quando la voce beffarda della Lestrange non le arrivò dritta e chiara alle spalle. Era stato un vero e proprio shock ritrovare quella bambina ormai cresciuta nella sua tavolata la sera del banchetto di inizio anno. Il nome inconfondibile così come i suoi occhi da gatta e la lingua serpentesca. Le era sempre piaciuta la consorella sin da quando aveva avuto modo di conoscerla al suo ultimo anno ad Hogwarts. Lei quindicenne, l'altra ancora con la puzza dei denti da latte. Un'undicenne tutta pelle ed ossa ma dallo sguardo intelligente, vivo ed arguto per la sua età. Ora, dopo che gli anni erano passati, poteva definire quell'incontro come un imprinting, una affinità del tutto naturale capace di superare gli ostacoli dell'età. Non aveva bisogno di fingere con lei, non che sarebbe servito a qualcosa. «Dovresti affinare meglio la punta di sarcasmo nelle ultima sillaba della domanda». Era ormai a cavalcioni sul manichino, ai lobi erano tornati il delfino e lo squalo, nella mancina solo il suo catalizzatore. Con lentezza si rialzò in piedi, castando un banalissimo reparo per riportare quasi alle condizioni di fabbrica il manichino che aveva martoriato nell'ultima mezz'ora. L'incedere verso di lei fu lento, permettendole di riprendere il controllo della sua parte più irrazionale, vulnerabile e sanguinaria. Passo dopo passo, lo sguardo cristallino e sempre più limpido che scrutava il testo che l'altra aveva aperto. «Ricordami di portarti il saggio di Rickterfest sull'importanza dei sigilli aritmantici per gli esperimenti alchemici», un testo che aveva consultato l'anno prima in biblioteca e che aveva deciso di acquistare in libreria tramite il servizio di posta express. Appoggiò i fianchi contro il retro della spalliera del banco al suo fianco, bevendo un sorso d'acqua dalla bottiglia che aveva recuperato dalla borsa. Per poco non rischiò di strozzarsi, finendo con lo sputacchiare qualche goccia d'acqua mista a saliva con discrezione. «Sono già aperte le scommesse su tra quanto finirò di nuovo a letto con lui?» Chiese, con fare non curante, sistemandosi i lunghi capelli in una coda di cavallo, passandoci più volte le dita prima di fermarla con un elastico. «Perché se volessi scommettere potrei suggerirti cose che assicurerebbero la tua vittoria». Tornò a fissare l'arena, sentendo di nuovo la rabbia iniziare a bruciarle dentro. «Come mai sei qui? Successo qualcosa? Qualcuno ti ha dato fastidio? Un artiglio ti si è scheggiato?» Si scostò solo per scivolare sulla superficie più ampia e piatta del tavolino, allungando le gambe ed intrecciando le caviglie. «Ah, se mai dovesse fermarti Cohen -dubito- tu non mi hai vista».
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  4. Deva L. Lestrange
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    Deva L. Lestrange
    Black Opal | 16 anni
    L'aveva cercata in lungo e in largo pur prendendosi il tempo necessario per non apparire una matta senza meta. Tralasciando il fatto che tutti i migliori fossero matti, teneva particolarmente alla propria reputazione e l'idea che la gente doveva avere di lei era quella di una ragazza a modo e sempre padrona di se stessa.
    Non mostrare i propri difetti rendeva forti, inattaccabili ed inespugnabili. Questa era solo una delle numerose regole che la governante di casa Lestrange le ribadiva fin da quando Deva era in fasce.
    Elisabeth si fermò e tornò alla realtà, suggerendole di affinare l'arte in cui la più grande era decisamente ferrata. La Lestrange non amava essere rimbeccata né ricevere utili suggerimenti, ma aveva imparato a tollerarli di buon grado se questi potevano effettivamente tornarli funzionali.
    Un esempio fu il consiglio di lettura della Lynch, che la mora accolse con un sorriso. «Già letto. Ma se hai quello di Spencer lo prendo volentieri.»
    Chiuse il tomo e lo poggiò sul banco di fronte a sé volgendo sguardo e busto alla compagna più grande e in condizioni davvero disastrose. Fu sul punto di suggerirle il suo parrucchiere di fiducia, ma si rese conto nell'immediato di non dover pretendere anche con lei di puntare sempre e solo alla perfezione.
    Era quello il segreto del rapporto che condivideva con il Prefetto: in sua compagnia, Deva non doveva fingere né aspirare a niente. Non sapeva come né perché fosse arrivata a quella totale e incondizionata apertura nei suoi confronti, ma Elisabeth era in grado di capirla e leggerla come nessuno era mai riuscito a fare prima di lei, non giudicandola per il suo essere meschina, non tentando di riportarla sulla retta via o addirittura di prendere su di lei il sopravvento per renderla una propria marionetta.
    Deva la apprezzava e glielo dimostrava aprendosi genuinamente verso di lei.
    Schioccò la lingua contro il palato nel sentir parlare di una scommessa.
    «Perché non c'ho pensato prima?»
    Naturalmente scherzava. Se anche l'idea la tentava, il gioco d'azzardo non era contemplato per una principessina delicata come lei. Poi, quando l'altra le diede il primo, vero input della giornata, si ritrovò a sgranare le palpebre sugli occhi increduli.
    «Oh, Elisabeth, ti prego
    La supplicò. Vi affilò la punta di incredulità, su quell'ultima sillaba, non potendo fare a meno di credere alle proprie orecchie. Sperò di non aver compreso il messaggio subliminale dell'altra, ma si riteneva troppo arguta e intelligente per credere davvero di aver frainteso.
    Si portò una mano sulla fronte e scosse il capo. Come si poteva essere così stupidi? Quel ragazzo le aveva spezzato il cuore dopo averla convinta ad aprire le gambe per la prima volta e certe cose non si dimenticano facilmente. Aveva impiegato mesi a dimenticarlo e, appena lo rivedeva, alzava la gonna?
    Avesse avuto un po' più a cuore la dignità dell'altra, avrebbe urlato per la frustrazione.
    Sospirò e lasciò correre. La guardò prendere posto, la osservò con attenzione perché lei era brava a studiare le persone, carpendo e interpretando le loro emozioni molto più delle proprie.
    «Tutto nella norma. Volevo solo trovarti per chiederti come stavi.» Commentò sommariamente, incrociando le braccia al petto e accavallando una gamba sull'altra. Non tutto ciò che disse fu frutto di fantasia, anzi, si rivelò particolarmente onesta. «In genere sono una stronza, ma non per questo voglio vederti star male per quell'imbecille.»
    Il momento tenerezza fu interrotto da un'altra informazione che dava accesso a numerose strade, alcune più intriganti di altre. Inarcò un sopracciglio, la mora, nel contemplare il riferimento datole da Elisabeth.
    Cohen.
    Cameron Cohen.
    Sapeva chi era semplicemente perché era girata voce che i due se la facessero a discapito di una ragazza Ametrin. Qualunque cosa fosse, era successo molto prima che Deva mettesse piede in quella scuola, motivo per cui non se ne preoccupò mai più del dovuto.
    Ma a quanto pareva doveva recuperare.
    «E' arrabbiato con te perché sei andata a letto con quel tipo o non vuoi dirglielo?»
    Qualunque fosse la risposta, se si trovava fra quelle, denotava una cosa fondamentale: uno dei due si era preso una sbandata che andava ben oltre una scopamicizia. E quando almeno uno superava il limite imposto, i guai spuntavano all'orizzonte.
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    Deva Lestrange era una delle poche persone di Hogwarts di cui serbava un piacevole ricordo, il che era tutto dire visto che la differenza di età, quando frequentava lei il quinto anno e l'altra il primo, era notevole. Eppure, da quando l'aveva vista sedere al tavolo degli Opali la Lynch si era dimostrata felice di avere un volto amico, una spalla malefica su cui fare affidamento, una lingua così tagliente che non permetteva sconti. Era quello che voleva da sempre: una persona capace di tenerle testa, di non farsi problemi nell'indorare la pillola ma non per questo offenderne la sua intelligenza, a differenza di altri.
    In un certo qual modo fu sollevata che fosse l'ex Serpeverde ad aver varcato quella soglia e non uno dei tanti fantasmi che stavano tornando a farle visita, seppur la sua presenza simboleggiava non poter fingere che quanto fosse accaduto nella stanza in disuso non fosse mai successo. La presero alla lontana, entrambe, con la primina ad affinare il suo sarcasmo e lei a corromperla con qualcosa sapeva interessarle terribilmente, come l'alchimia. «La solita sanguisuga», commentò lasciando intendere come possedesse l'opera di Spencer e che gliel'avrebbe data non appena tornate in Sala Comune. Ma il tempo dei convenevoli durò come un gatto in tangenziale. La sedicenne fece la sua mossa tirando fuori Evans, lei cercò di buttarla in caciara con la storia delle scommesse sul suo conto. Non funzionò, perché l'altra era riuscita andare oltre, subodorando la colossale stronzata che aveva fatto neanche avesse installato un paio di magitelecamere nell'aula del misfatto. Non aveva alzato la gonna, ci aveva pensato lui. Non aveva perso la dignità perché Joshua non rientrava in quella categoria dell'universo. O almeno così le faceva comodo credere. «Ti prego cosa?» si lamentò, prendendo posto e tirando fuori le unghie da perfetta idiota qual era. «Non è un imbecille», le uscì di getto. Altrettanto velocemente chiuse la bocca e la fissò. «Okay, lo è ma io di più», concesse, tornando a vagare con lo sguardo per non leggervi il disappunto alle sue parole successive: «però lo sai che lui è lui». Joshua Benjamin Evans rappresentava la sua croce e delizia ormai da anni e per quanto ci avesse lavorato su, per quanto il tempo era trascorso opacizzando persino i ricordi, era bastato rivederlo, parlargli, stargli vicino per ricadere nella sua spirale. «Pensavo non avesse più potere su di me ed invece mi sono sbagliata, Dev». I piedi finirono lì dove di solito gli altri studenti posavano i loro regali sederi, le ginocchia si unirono ed i gomiti appuntiti li usarono come sostegno per reggere il peso della sua testa. «La seconda», la voce attutita dalla posizione che aveva assunto. «Dopo che...» si fermò, prendendo a massaggiarsi le tempie come ad alleviare la pressione che stava salendo insieme all'emicrania martellante. «Ho pensato di andare da lui, ma ho avuto paura su come avrebbe reagito», o meglio su quanto la sua reazione si sarebbe scostata dalle sue aspettative. E se quello avrebbe significato che il rapporto che avevano fosse una semplice amicizia o se davvero c'era qualcosa di più che avevano finto di non vedere da quando erano andati a letto insieme la prima volta e alla fine della sua storia con la Freeman. «Cosa hai sentito tu di noi Il riferimento era a lei e Cohen, di cui gli aveva parlato per sommi capi, senza mai approfondire davvero. Realizzarlo fu l'ennesima pugnalata allo stomaco: strano che riuscisse ancora a reggersi in piedi. «Sai cosa mi fa strano? Che da quando ci siamo riviste io ti abbia parlato solo di Evans e di nessun altro», gli occhi emersero tra i polpastrelli, il viso ancora parzialmente occultato da palmi e dita unite. «Morgana, cosa ho che non va in me?»
    Elisabeth
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  6. Deva L. Lestrange
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    Deva L. Lestrange
    Black Opal | 16 anni
    C'erano poche persone che la conoscevano realmente. Nonostante i tentativi della sua indole di venir fuori, Deva Lestrange restava l'algida ereditiera della famiglia un tempo nota come assidua frequentatrice delle grazie del Signore Oscuro, il che la rendeva una peccaminosa tentazione per chi, come lei, virava verso il lato più oscuro tanto della magia quanto della natura umana. Per quel che riguardava il resto della popolazione scolastica, in genere Deva la evitava. Era verso queste ultime persone che il lavoro della strega si faceva più intenso, quasi sfibrante, nel dimostrarsi più calorosa e benevolente di quanto in realtà non fosse. I risultati erano spesso significativi e ciò la ripagava dello sforzo.
    Elisabeth Lynch era una di quelle persone che apparteneva alla prima categoria, ma in particolar modo lei era quella che, fin dal loro primo incontro, sembrava aver colto la scintilla di realtà impressa nel cuore della Lestrange, il che l'aveva resa degna di conoscere realmente il marcio - che la giovane considerava di gran valore - che la contraddistingueva.
    Eppure, per quanto la Lynch fosse una sorta di icona per lei, pur non dandole quella soddisfazione di sentirselo dire, Deva a volte non riusciva a capirla. Non era mai stata brava a entrare nelle persone, comprendere la loro essenza finanche i sentimenti, ma con Elisabeth pensava di aver trovato una quadra.
    Inarcò un sopracciglio quando sentì dire all'altra che quel tipo non fosse un imbecille. A suo parere, da immatura e sentimentalmente arida qual era, non c'era modo migliore di appellare un fantasma del passato che le aveva in sostanza distrutto la vita.
    La lasciò fare: difenderlo, accusarlo e finire per crogiolarsi lei stessa nelle proprie colpe. Ma quest'ultimo aspetto persino lei faceva fatica a tollerarlo.
    «Lo stai facendo di nuovo.» Annientò quella voce tetra, attutita non tanto dalla posizione quanto dalla disgrazia di esserci cascata ancora. Deva non le aveva mai sentito giurare di chiudere con Joshua, non personalmente, eppure sperava che l'esperienza vissuta le avesse insegnato qualcosa. Come si poteva essere così sciocchi? «Tu non sei stata propriamente degna della tua fama, ma lui, se ti vuole davvero così bene, poteva evitare.» Decretò incrociando le braccia sotto il seno, uno sbuffo di impazienza a fuoriuscire dalle narici.
    L'amore era un argomento decisamente sopravvalutato, per i suoi gusti. Lei, che non sapeva neppure lontanamente cosa fosse, denigrava tutte quelle donne che ne cadevano rovinosamente vittime. Ma Elisabeth non poteva rientrare tra queste. Era naturale, dunque, attribuire l'intera colpa al ragazzo in questione.
    E poi un'altra caduta di stile, la seconda nel giro di un minuto. Deva lasciò cadere il capo all'indietro, scuotendolo e puntando lo sguardo vitreo verso il soffitto. Doveva seriamente soffermarsi a pensare su chi, tra Joshua e Cameron, fosse più idiota.
    Quando tornò con lo sguardo sull'amica, tentò con tutte le proprie forza di non cedere alla crudele apatia che avrebbe voluto manifestare di fronte ai suoi drammi che, a ben pensarci, erano causati unicamente da se stessa.
    «Che sei stata la causa della rottura tra lui e una certa Fresan... o una cosa simile.» Rispose con noncuranza, facendo spallucce e scuotendo il capo, come se la ragazza in questione - la vittima lesa - fosse del tutto insignificante all'interno di quel discorso.
    «Ma dubito tu gli abbia puntato una pistola alla testa per venire a letto con te.» Concluse con un sorriso che voleva considerarsi rassicurante. Le donne ferite da un uomo sleale erano le vere responsabili delle proprie condanne per essersi fidate di un amore destinato a fallire, ma l'uomo in questione era l'artefice di tutte le colpe commesse. L'amante, per quanto solitamente detestata dal pubblico, era solo la scintilla che appiccava un incendio ormai pronto a diffondersi con ferocia.
    Nessuna responsabilità, nessun obbligo, solo piena soddisfazione di un proprio bisogno.
    Colse il cognome pronunciato dall'altra senza dargli effettivamente peso. Distratta da pensieri lontani, Deva tornò con lo sguardo e l'attenzione sull'altra, rispondendo a quella domanda con una mezza risata.
    «Presto detto: il gusto per gli uomini.»
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    Non sapeva di star seminando pensieri, con la complicità della Lestrange, i cui frutti avrebbe visto iniziar a sbocciare solo un mese più tardi. Il focus centrale era sempre e solo lei, con il suo piagnisteo ed un atteggiamento da povera vittima che le andava stretto. Era consapevole che ogni singola, piccolissima, scelta che aveva compiuto nel corso del tempo l'aveva portata sino a lì: di nuovo Prefetta, di nuovo tra due fuochi, di nuovo con il seme colante di Josh tra le gambe. Sembrava quasi la danza del gambero quell'inizio di quarto anno, una ripetizione del suo primo secondo che avrebbe voluto cancellare con un colpo di spugna per com'era finito. L'illusione che potesse chiudersi quella parentesi nefasta con la resurrezione di suo madre era stata uccisa ancor prima di poterla accarezzare davvero. A differenza dell'altro grande ritorno che in poco più di settantadue ore aveva già cambiato il percorso accidentato dell'Opal. «Lui poteva evitare di tenere il pisello in due buchi». Sembrò tornare per un attimo la vipera di un tempo, lasciandosi andare ad un commento piuttosto infelice anche per lei, giusto il tempo di continuare poi sulla strada della fottuta verità che si ostinava a voler abbracciare. «Io di giocare con i sentimenti di Lucas ancor prima di rendermi conto di quello che provassi per lui», lo sprezzo su quelle ultime tre lettere, perché se solo si fosse dimostrata padrona reale del suo cuore non avrebbe avuto quel risultato, «io potevo evitare di scopare con il mio migliore amico e renderlo un traditore», così come nel tentativo di resistenza fallita di finire a scopare nei bagni con Cam. Aveva scioccamente etichettato come un momento dettato dallo sconforto il bacio che lui le aveva dato nella sua vecchia camera ad Oslo, gravata dalla visita alla tomba della sorella; eppure aveva distanziato l'amico una volta tornati a scuola, cercando di non rimanere mai da sola con lui, in un posto dove potevano nascondersi. Aveva funzionato per un paio di settimane ed il resto aveva fatto la storia. L'odio e lo sprezzo che le erano stati riversati nel suo ritorno a scuola, dopo un silenzio più che prolungato corrispondente -aveva appreso poi- alla scomparsa di Evans si dimostrarono nulli rispetto alla shitstorm che si era beccata dopo che aveva ammesso, in una cazzo di galleria di esser stata con l'altro essere più odiato nel castello. Nulli sembravano essere i suoi salvataggi di quegli stessi compagni che non perdevano occasione alcuna di sbeffeggiarla, equiparandoli ad un atto dovuto poiché doveva esserci stato un motivo se la Burke le aveva dato la Spilla. E poi tolta. E poi riaffidata nuovamente. «Sono tutti se e ma, Deva, e con quelli non si va da nessuna parte». Non corresse la sedicenne sul cognome della Prefetta dei giallo-viola, la guardò piuttosto come a dire ti pare che io debba puntare la bacchetta a qualcuno per farmi una sana scopata?. «Spero di salvarmi con quello delle donne», la risata non produsse suono, solo un ghigno appena abbozzato. Allungò le braccia all'indietro, reclinando il capo e studiandola. «Sai quali sono i miei disastri, ma io voglio conoscere i tuoi», la provocò, «ad esempio chi dobbiamo odiare, sopportare e se qualcuno ti sta scaldando il letto oltre alle tue chiappe ossute», Non è vero, il suo sedere seppur piccolo era comunque un bel vedere.
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  8. Deva L. Lestrange
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    Deva L. Lestrange
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    Se Deva avesse potuto avere libero accesso alla mente di Elisabeth e leggerne i pensieri, di certo avrebbe palesato un evidente disgusto nell'immaginare il seme colante di un uomo tra le sue gambe. Nonostante la Natura richiedesse esattamente questo all'essere umano e alla sua fastidiosa tendenza alla procreazione, per la Lestrange tale processo sarebbe dovuto avvenire esclusivamente in vitro, lasciando che la sanificazione facesse il resto.
    Elisabeth era, per quanto simile a lei sotto determinati punti di vista, molto più matura, umana e soprattutto passionale, il che la rendeva facile preda di emozioni che Deva non riusciva neanche lontanamente a comprendere, troppo impegnata a vivere nel suo mondo idilliaco e asettico in cui tutto - ma proprio tutto - seguiva i propri dettami. Non c'era spazio per qualcun altro, e ciò rendeva impossibile che un sentimento di qualsivoglia natura si radicasse in lei.
    Ma c'era una speranza: era, in fondo, ancora una ragazzina acerba e inesperta.
    «Onestamente, adesso non mi importa nulla di Cameron. Sono più interessata al discorso dei due buchi.»
    Insomma, si riferiva alla storia passata?
    Lei, il Caposcuola degli Opal e il fantomatico mandrillo? O il presente stava per fornirle un riscontro ancora più interessante? Non si accorse nemmeno di aver preso posto ed essersi messa comoda ad ascoltare. Poco mancava che afferrasse un taccuino e incantasse una penna per prendere appunti, ché Rita Skeeter sarebbe stata a dir poco fiera di lei.
    «Ad ogni modo» iniziò, poggiando la schiena contro la spalliera della seduta e incrociando le braccia al petto «il termine "scopare" non ti si addice. E stai iniziando a dirlo un po' troppo spesso.»
    Si strinse tra le spalle, incapace di soffermarsi a pensare quanto quegli episodi potessero aver infettato la natura della Lynch. Deva non l'aveva mai considerata cattiva o velenosa, secondo lei quella era solo un'apparenza che l'altra si ostinava a mostrare per non essere ferita - tentativo fallimentare, a proposito - ma era il tratto che più le piaceva di lei e, fino a quando ci fosse stato, si sarebbe definita sua amica.
    «Perché? Ti piacciono anche quelle?» Domandò con sguardo incerto e inarcando un sopracciglio, quasi a volersi sincerare che si trattasse di una battuta.
    "Insaziabile, Lynch. Davvero insaziabile."
    Se con gli uomini era in grado di procurarsi simili disagi, figurarsi con un essere tanto infimo quanto la donna.
    Elisabeth provò a cambiare argomento, e Deva l'avrebbe pure accontentata se questo fosse servito a farsi dire dell'altro, qualcosa a cui in quel frangente non smetteva di pensare.
    «D'accordo.» Sorrise di fronte al commento sul proprio sedere, senza tuttavia offendersi. Insomma, uno specchio ce l'aveva anche lei e sapeva come usarlo.
    «Odio... che termine altisonante. Direi piuttosto intolleranza.» Soppesò quelle parole osservandosi le unghie della mano destra, quasi indifferente a ciò che stava svelando alla compagna di disavventure. «Erin Murphy. Quella smorfiosa mi ha seguito fin qui da Hogwarts.» Una smorfia a incrinarle le labbra altrimenti perfettamente simmetriche, prima di continuare. «Fitz O'Connor. Un perfetto idiota.» E anche incredibilmente sexy, ma era pur sempre un esponente del genere maschile, il che lo rendeva stupido. «Zuleyka. Ma non ho ancora deciso se detestarla o servirmene.» Prima o poi sarebbe potuto tornarle utile un piromane, in modo da porre fine all'esistenza di Hidenstone. La portoricana sembrava pazza abbastanza da accontentarla e prendersi la colpa di tutto.
    «E non fingere» concluse rivolgendo finalmente i fari d'argento a Elisabeth, con un'espressione più seria di quanto non avesse preventivato «sai benissimo che nessuno è mai entrato nel mio letto.»
    L'unica. La sola a saperlo.
    Forse era per quel motivo che non faceva che abbeverarsi dei racconti della Lynch, vittima delle pulsioni che a Deva facevano quasi ribrezzo - o paura.
    O forse amava unicamente sentirsi al di sopra di chi riteneva tali sensazioni degne di essere vissute, a discapito delle opinabili conseguenze.
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    C'erano state tante metafore per indicare quel triangolo fatto di due opali ed un ametrino. Palle e birilli, croce e delizia, un festival di lussuria, invidia, superbia ed accidia; ma mai di un pisello in due buchi. «Triangolo con Lighthouse, ricordi?» Sperava che quello bastasse nel rievocare alla memoria dell'opalina, in stile Vietnam, i racconti fatti all'inizio dell'anno, con dovizia di particolari sul ruolo di Jones, Lighthouse ed Evans nella sua vita. E poi un accenno di Cohen ma senza sbilanciarsi più di tanto perché con il battitore dei Dioptase la questione era ancora complicata ed in via di divenire, a differenza delle dinamiche del passato che credeva essere sepolte. Credeva, appunto, perché il ritorno di Josh aveva mandando all'aria il suo castello di carte con un solo sguardo dei suoi. Se solo chiudeva gli occhi poteva risentire il respiro del suo viso infrangersi contro il suo quando l'aveva bloccata nella volotnà di uscire da quell'aula. Uscire non avrebbe dato vita a quel susseguirsi di eventi che avevano portato ancor più coas nella sua esistenza. Non aveva alcuna intenzione, al momento, soffermarsi sulla natura dei sentimenti che provava per l'ametrino, perché aveva paura di scoprire che quello che credeva morto in realtà era solo rimasto quiescente come qualche vulcano dimenticato da qualsiasi divinità nell'Oceano Pacifico. Far confluire tutto nel mero atto sessuale era quello che le causava meno dolore -«È quello che è stato alla fine, no?»- come una calda coperta da avvolgere su quel corpo che aveva subito vari sbalzi di peso ed un principio di disturbi alimentari ed alcolismo. Era stata un rottame, così tanto che tornare in forma era costata fatica, sudore ed un lavoro su stessa che era riuscita a compiere solo grazie a quel mezzogigante silenzioso con tutti, ma non con lei. Delle volte le mancava quello stile di vita sconclusionato del confratello o della sensazione che aveva provato nel risvegliarsi nello stesso letto la prima mattina di Natale trascorsa senza la presenza di Glynnis. «Morgana, odio ridurre tutto in quella parola», ammise, rivelando quanto in realtà nell'unione di corpi aveva sempre lasciato un pezzo di lei. Hinds aveva la fame della voglia di ritornare a vivere; Cohen del sentirsi parte di qualcosa, di sapere di valere la pena per qualcuno; Evans la parte più pura e migliore che avesse mai avuto. Cose che nulla avevano a che vedere con il copulare crudo e semplice.
    Il pensiero che avesse fatto degli errori di valutazione l'aveva sfiorata diverse volte, così come l'interrogarsi sulla sua sessualità visto che trovava piacenti i corpi in ogni loro minima bellissima imperfezione e poco importava a chi facessero capo se ad un uomo o ad una donna. Aveva trovato eccitanti vene sulle mani ma anche dei perfetti sederi a mandolino appannaggio più della corporatura femminile che maschile; la linea sinuosa di gambe dritte che svettavano con il sapiente uso di tacchi o i polpacci massicci di un ragazzo che faceva dello sport la sua religione e della palestra il tempio in cui praticarla.«Mi piacciono le persone brillanti, quelle che hanno da dire qualcosa, che ti danno qualcosa, poco importa se hanno tra le gambe il pisello o meno», se solo si fosse sforzata sarebbe stata capace di trovare quel quid che aveva visto nello sguardo ombroso di un'ametrina al suo secondo anno. E poco centravano quei pantaloncini corti che avevano stuzzicato il suo interesse.
    Ma il tempo di esser lei al centro del palco era finito, toccava ad un'altra persona finire sotto le luci della ribalta: Deva Lyanne Lestrange. «Mpf, allora parlami delle tue intolleranze», si corresse, studiandola nei particolari alla pronuncia di ogni singolo nome, drizzando le antenne sulla prima e mettendo da parte i secondi, altri rosso-grigio-neri che sperava facessero più il loro dovere nel portare alto i colori che indossavano. «Occhio ai perfetti idioti, sono quelli che ti fanno trovare nei casini senza che neanche tu possa renderti conto». Però il tarlo di quel nome, lo stesso che aveva sentito qualche ora prima su labbra che avevano reclamato il possesso delle sue, continuava a persistere nella sua mente come un tarlo. Quante possibilità c'erano che quell'Erin Murphy fosse la stessa Erin di Josh? Un flebile disgusto al pensiero di averla etichettata come qualcosa appartenente al bruno non la fece comunque desistere dal porre la domanda che più di tutte aveva interesse nell'esser risposta: «cosa pensi della Murphy?»
    Poi due fanali a cui non si poteva aver scampo vennero posati su di lei, in quella serietà ancora più rigida di quella che aveva imparato a conoscere e superare quando la Lestrange si trovava sulla sua strada. «Pensavo che con la fauna che popola l'accademia avessi trovato pane per i tuoi denti», perché per quanto fosse a conoscenza dell'inesistente vita sessuale della sedicenne dall'altra sperava davvero che le cose cambiassero per lei, non tanto per l'atto in sé, quanto più per la possibilità di aprirsi a qualcosa che per quanto potesse avere il capace di romperti le ossa in piccolissimi infinitesimali frammenti era l'unico che ti faceva sentire vivo: l'amore. «Non hai trovato davvero nessun altro? Nessuno che ti stimoli la voglia di puntargli una bacchetta alla gola e poi sbatterlo contro il muro?» Il problema è che lei l'aveva trovato, solo che i suoi tratti erano confusi dal sovrapporsi dei visi dei suoi amanti.
    Elisabeth
    Lynch

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    Sometimes you have to stand alone. Just to make sure you still can.
    "

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    Deva L. Lestrange
    Black Opal | 16 anni
    Deva Lestrange aveva molte doti, ma la più idonea a quella che era la sua personalità e affine alle proprie necessità era il saper ascoltare. Parlava poco e se lo faceva era solita limitarsi a quel che la gente avrebbe voluto sentirsi dire. La sincerità e l'onestà d'animo non facevano parte di quel connubio di valori ed emozioni che per diritto di nascita aveva ereditato dalla famiglia di suo padre, a differenza dell'esigenza di dover far sì che chiunque rimanesse affascinato dalle caratteristiche attese da una giovane discendente dal sangue puro.
    Saper ascoltare era divenuta una sua carta vincente, conscia di quanto non vi fosse nulla di più prezioso di segreti ben custoditi. Lei, quei segreti, li voleva carpire con ogni fibra del suo essere, voleva lasciare che le scorressero fra le dita e sulla lingua, in modo da impossessarsene per poter avere una moneta di scambio quando e se fosse stato necessario averne.
    Con Elisabeth Lynch era tutto molto diverso. Vedeva qualcosa di estremamente vicino all'amicizia scorrere fra loro, nonché sapesse di nutrire una profonda stima per una ragazza tanto popolare già da qualche anno, in un mondo che lasciava spazio solo a chi sapeva come affermarsi. Deva, che viaggiava nella consapevolezza di essere qualcuno per il nome che si trascinava dietro - a volte come un peso, altre come un vanto - non poteva che chiedersi cosa significasse essere lei. Non la invidiava, non nel vero senso della parola, ma la osservava, la ascoltava, la studiava.
    Era arrivata alla conclusione che quella ragazza valesse la pena delle sue attenzioni ormai da qualche anno. Da allora quella sensazione non era cambiata, lasciando che l'ex Serpeverde si accertasse di non essersi sbagliata su di lei. Eppure c'erano momenti in cui il divario tra lei e la Lynch si intensificava, lasciando che Deva abbandonasse quella visione idolatrata della ragazza e si avvicinasse all'essenza del suo essere: sola, smarrita, insicura. C'era amore in quel che Elisabeth faceva, nonostante la ragazza non intendesse ammetterlo... ad eccezione di quella singola, insignificante volta.
    Crescere, si era detta, implicava una certa presa di consapevolezza.

    Deva strinse le labbra in una linea sottile nel sentirla parlare. Abituata a un linguaggio certamente più consono di quello di cui l'altra faceva sfoggio in quel momento, non rispose nell'immediato. Valutò il caso di dover dire alla Lynch di non essere affatto incuriosita - men che meno lusingata - da quell'aperta confessione circa il suo orientamento sessuale, ma alla fine decise di tenerlo per sé. A volte il silenzio era la miglior risposta da dare.
    Non era certo nei suoi programmi parlare di sé, motivo per cui si irrigidì nell'attimo esatto in cui Elisabeth le impose di ricambiare quel favore fatto di concessioni. Doveva immaginarlo, si disse Deva, nell'amicizia funzionava così: do ut des.
    Sospirò, la Lestrange, accavallando le gambe dopo aver trovato una comoda seduta, e iniziò a parlare delle persone che meno riusciva a sopportare e che, in maniera inevitabile, rendevano le sue giornate interessanti.
    Sbuffò puntando gli occhi al soffitto quando l'altra si riferì a Fitz, certa che non avrebbe mai potuto avere niente da temere da uno così. I restanti furono poco d'impatto per la mora, che invece concentrò il suo interesse proprio su Erin Murphy, la persona meno gradita agli occhi della vipera di casa Lestrange, che al suono dell'interesse della compagna sorrise.
    «Apparentemente buona di cuore. Credo lo faccia più per piacere agli altri che non per vera e propria natura.» Il che gliela rendeva ancor più intollerabile, nonostante fosse consapevole di fare la stessa, identica cosa, probabilmente persino da prima che lo facesse Erin e certamente con una consapevolezza che all'altra mancava.
    Avrebbe voluto dire molto altro dell'ex Grifondoro, ma a onor del vero qualunque segreto svelato faceva capo a quel che lei nutriva nei suoi confronti, non avendo mai avuto la possibilità di entrare così intimamente a contatto con la rossa. Erin era stata l'unica a non averglielo permesso, perché era stata l'unica a leggerla per quel che era veramente.
    Sospirò di fronte all'ipotesi di Elisabeth circa i suoi ipotetici ed errati coinvolgimenti emotivi all'interno di quella scuola, scuotendo il capo con fare insofferente. «Non ancora. No.» Non aveva fretta di trovare qualcuno che la allietasse, voleva far credere, quando in realtà non ne aveva alcuna intenzione e men che meno desiderio.
    Rise all'incalzante domanda della Lynch e dovette appuntarsi mentalmente di svelare all'amica una realtà forse scomoda, di certo però essenziale: forse le sue dinamiche amorose non andavano poi così bene perché si basavano su presupposti sbagliati.
    Intenzionata ancora una volta a non parlare di sé e recependo quello spazio un po' troppo stretto per garantirsi la serenità di cui aveva bisogno, Deva si rimise in piedi e puntò lo sguardò verso la porta.
    «Nascondiamo prima i tuoi, di cadaveri» rimandò all'invito della Prefetta, rivolgendole uno sguardo carico di ironia. «E poi pensiamo ai miei.»
    Prima o poi, si disse invitando con un cenno l'altra ad anticiparla e arrendendosi alla consapevolezza di dover accettare quell'eventualità, avrebbe avuto di che disquisire al riguardo.
    RevelioGDR
     
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