Liz in Wonderland

Invito al ballo | Sabato 26 novembre

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    Era incredibile come ogni volta che Cameron pensasse di non essere mai stato così nervoso in vita sua, puntualmente si presentasse un'altra occasione pronta a smentirlo.
    Infatti era quella sera a renderlo nervoso come proprio mai lo era stato.
    Si trovava, precisamente, davanti all'hotel The Berkeley, la chiave di una suite in tasca, mentre in quella diametralmente opposta, aveva un'American Express che pesava come il piombo. Sì, probabilmente avrebbe dovuto ringraziare Julian per tutta la vita, anche se era convinto che lo avesse fatto con il cuore. Era rapidamente diventato il suo migliore amico, lo stava facendo per lui.

    Si erano scambiati una lunga serie di messaggi, quella mattina, e Julian gli aveva lasciato la chiave della suite e la carta di credito. Nonché libero accesso a tutti i suoi soldi e per Cameron che non aveva mai visto stanze più lussuose di quelle di uno squallido motel, era come aver raggiunto il Nirvana.
    Come se non bastasse, quando era uscito dal bagno, non aveva più trovato il compagno, ma qualcos altro. Una bellissima scatolina di velluto era posata sul suo letto, con accanto un bigliettino. Cam lo prese.

    Bro, brucia questo messaggio quando lo leggi. Pensavo che fosse troppo poco, un'altra piccola spinta. C'è un bigliettino bianco. Scrivile quello che vuoi e non fare il coglione. NIENTE CHIAVE DELLA NORVEGIA, OK?!
    Mi limoni quando torni!


    Sorrise ed in quel momento si sentì immensamente grato di avere il Miller come amico. Non per il solo gesto materiale, ma proprio perché l'aveva fatto per farlo felice, per aiutarlo a conquistare Liz.
    Aprendo la scatola, trovò un gioiello meraviglioso, un rubino rosso come le fiamme che gli ardevano dentro ogni volta che vedeva Elisabeth o le stava vicino.
    Insieme all'amico, aveva ponderato le caratteristiche di entrambe le ragazze che gli avevano stregato il cuore, per venirne a capo.
    Da un lato c'era Mia Freeman, dolcissima, intelligente, brillante e bellissima, una sicurezza costante, mai imprevedibile. Dall'altro lato c'era Elisabeth Lynch, un completo salto nel vuoto. Con lei non sapeva mai come comportarsi, cosa dire e fare per non sbagliare, era un vero e proprio fuoco che gli ardeva dentro. E forse era ciò che gli serviva per essere realmente felice.
    Aveva preso il biglietto bianco ed aveva scritto un semplicissimo messaggio:

    CITAZIONE
    Stasera mettiti il tuo vestito più bello ed indossa quello che c'è nella scatola. Al The Berkeley Hotel alle 20.
    Cam

    E, per sicurezza, aveva anche trascritto l'indirizzo esatto del luogo. Dopodiché, era riuscita ad intercettare Gyll e le aveva dato il pacco, raccomandandole di recapitarlo immediatamente sul letto di Elisabeth. Avrebbero dovuto affrontare, anche se separatamente, sette ore di Galeone, quindi prima glielo faceva avere, meglio era.

    E quindi ora si trovava lì, immobile e nervosissimo, nella speranza che avrebbe accettato l'invito. Aveva qualcosa di importantissimo da chiederle e tutto doveva essere perfetto nei minimi dettagli, per quanto loro due fossero l'incarnazione dell'imperfezione, degli sbagli e degli occhi alzati al cielo.
    Si sistemò la camicia un numero inquantificabile di volte pur di rendersi il più presentabile possibile. E come ultima chicca, aveva una busta argentata con all'interno un pacchetto piuttosto vintage.
    La sua Wonderland, meritava di potersi perdere tra le pagine di quel folle mondo dal quale aveva preso ispirazione. Ma non era un libro qualsiasi preso in libreria, bensì una delle prime copie di Alice in Wonderland, autografata da Lewis Carroll in persona. Aveva più di cent'anni, era un pezzo piuttosto vintage e raro. Era appartenuto alla sua adorata Arya... quel libro che aveva fatto compagnia al cigno sulla mensola.
    Per anni si era rifiutato di toccarlo, però poi aveva pensato che dovesse andare nelle mani di chi sapesse apprezzarlo realmente.
    Cameron Cohen


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    Dicembre si stava avvicinando e quello significava l'avvicinarsi del Natale, un mese difficile quando non si aveva il calore di una famiglia da condividere. Dicembre era un mese carico di ricordi agrodolci, di mercatini natalizi, case gallesi e l'odore di disinfettante tipico delle strutture ospedaliere.
    Dicembre però era anche il mese dello Jul Ball e se, per due anni di fila, era riuscita a sottrarvisi quell'anno la spilla che indossava la metteva nelle condizioni di partecipare per forza.
    Da quando Evans era tornato sembrava di rivivere un continuo loop temporale con delle new entry. Il rifugiarsi tra le braccia di Jones su quei monti che erano stati la cornice della rottura degli equilibri precari tra lei e Cohen. Giorni si erano accumulati, silenzi e sguardi sfuggenti avevano accompagnato il loro ritorno a lezione dopo quel sabato nefasto.
    Le mancava.
    Nella complicità, nel sopportare le ronde solitarie in solitudine, nel non sentire il suo magifonino vibrare costantemente per via dei suoi messaggi di uno strano umorismo, ben lontano da quello comune.
    Gli mancava ma lo odiava. Lo odiava per avergli lasciato quei segni sui polsi, spariti dopo quasi una settimana costringendola ad allungare le maniche fino a metà palmo. Gli scatti di rabbia li aveva anche lei, persino una vena aggressiva ma quell'uso spropositato della forza accompagnava i suoi sonni, agitandoli.
    Gli mancava, ma non aveva il coraggio di tornarlo a cercare. Quello che aveva da dire gliel'aveva detto anche se non pensava che l'altro avesse capito quanto gli avesse davvero detto, cosa lui avesse iniziato a rappresentare per lei.
    Le sue spalle, la sua schiena su Ashura le avevano dato la conferma che non fosse lo stesso per lui.

    Dopo la classica corsa mattutina, con l'umidità come unica compagnia, tutto ciò che bramava era il getto caldo dell'acqua a sciogliere anche il muscolo più ostinato e poi l'abbraccio del letto e delle coperte pesanti, con ancora addosso l'accappatoio. Non aveva obblighi. Non aveva progetti.
    Fino a quando, uscita dal bagno con un turbante in testa -vi si era fiondata senza guardarsi attorno- non vide una scatolina con un biglietto posato. Aprì per prima quel foglietto ripiegato più volte. Scorse veloce le parole in una grafia fin troppo familiare. Le divorò. Le tornò a leggere. Cosa diamine stava a significare? Perché darle appuntamento a Londra? Su quello che celava la scatola le bastò aprirla. Un ciondolo dalla forma circolare, probabile argento se non oro bianco, recava incastonato al suo centro una pietra rossa o forse un semplice vetro colorato ma che sembrava animato da giochi di luce a ricordare le fiamme a seconda di come vi rifletteva. Sembrava lei in quel semplice oggetto. «Cosa significa, Cam?» Mormorò, stringendolo in un pugno. La decisione di andare non era stata neanche messa in discussione.

    Un gonna di pelle nera le arrivava a metà coscia, all'interno aveva fermato una camicia carta da zucchero priva di bottoni e dallo scollo decisamente profondo. Tutto coperto da un cappotto nero perfettamente abbottonato. Sul petto non brillava il dono del norvegese, la scatolina che lo conteneva era nella mano destra. Era arrivata da alcuni minuti, ma usava i londinesi e i turisti nel loro andirivieni come mantello invisibile, studiando il nervosismo più che il suo outfit alquanto elegante per i suoi standard. Era bellissimo. Uno stronzo bellissimo. Ed insicuro. Aveva perso il conto delle volte che si era sistemato la camicia candida.
    Si concesse ancora qualche istante prima di permettergli di vederla. Il passo sicuro nonostante i tacchi; le gambe nude che avrebbero tanto tremato di freddo se non fosse stato per quella morsa allo stomaco che non la lasciava da settimane; lo sguardo fiero, incendiario. «Il Berkeley, eh?» Solo in quel momento vide che aveva una di quelle buste regalo in un argento così simile ai colori della sua vecchia casa. Allungò la scatolina verso di lui, guardandolo negli occhi. «Scaramanzia vuole che quando si regala un gioiello chi fa il dono aiuta ad indossarlo», l'angolo dello scatolino contro il petto di lui coperto da giacca e camicia. «Non lo accetterò in altro modo», una conferma di essere un dito in culo, come sempre. «Entriamo?»
    Elisabeth
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    La vide.
    Finalmente, a pochi metri da lei. Erano separati solamente dall'incessante movimento dei passanti che, visto il periodo, iniziavano già ad attivarsi per comprare i loro regali di Natale ed evitare di trovarsi all'ultimo, quando tutti i prodotti migliori sarebbero stati sold out.
    Ma lui non vide la folla, non vide chi gli passava accanto. No. Lui aveva occhi solamente per lei, chiusa in quella giacca che le donava, con quella gonna che non le copriva completamente le gambe. La gonna, in realtà, era coperta dalla giacca ma era l'unico indumento che potesse lasciarle scoperte le gambe. Era perfetta in ogni suo gesto ed ogni suo movimento. Ma nel vedere che non indossava la sua collana, gli provocò una fitta alla bocca dello stomaco, perché pensò che forse l'aveva buttata via o forse era andata all'appuntamento solo per gettargliela addosso ed insultarlo. Ma poi, la parte più razionale di lui, gli ricordò che era improbabile che si fosse fatta un viaggio di sette ore su un Galeone per fare qualcosa che avrebbe potuto tranquillamente fare l'indomani o, al massimo, lunedì.
    La osservò avvicinarsi e cercò di smetterla di tormentarsi i polsini della camicia, euforico all'idea che lei fosse lì davanti, così vicina a lui.
    Quando fu vicina a lui, la osservò da capo a piedi, senza sapere esattamente come fare e cosa fare. Baciarla sarebbe stato too much, ma non voleva nemmeno regalarle un sorriso freddo come se non la conoscesse affatto.
    Ho pensato si adattasse ai tuoi gusti raffinati replicò con un mezzo sorriso, ripensando alla conversazione con Julian. Gli aveva dato la chiave di quel posto così come la sua American Express, con l'ordine di fare tutto ciò che voleva. Aveva trovato un perfetto migliore amico laddove credeva che non sarebbe più successo.
    Voi donne siete troppo superstiziose la rimbrottò, ma allo stesso tempo aveva preso la scatolina, aprendola e tirando fuori il gioiello, che aprì. Ora che era girata di spalle, poté osservarla con calma. La pelle candida del collo, i lunghi capelli non troppo chiari ma nemmeno troppo scuri, il suo profumo che avrebbe riconosciuto tra mille. Ma non quello che poteva essersi messa addosso, bensì il profumo della sua pelle.
    Le spostò delicatamente i capelli di lato e le fece passare la collana attorno al collo. La pietra, uno splendido rubino rosso, gli ricordava incredibilmente la ragazza e per questo aveva accettato di buon grado il regalo del Miller. Probabilmente gli aveva parlato così tanto di Elisabeth che anche lui, di riflesso, ora la conosceva bene.
    Fece scattare la chiusura e le risistemò i capelli in modo che le coprissero il retro del collo, proteggendolo dal vento freddo che spirava a Londra quella sera.
    Sei... bellissima si complimentò, quando si fu girata di nuovo verso di lei. E questo lo diceva perché ancora non vedeva l'outfit completo, sennò probabilmente gli sarebbe caduta la mascella.
    Andiamo concesse, offrendole timidamente il braccio come un uomo d'altri tempi. Sperò che accettasse.
    Con il passo più sicuro che riuscì ad avere, iniziò a guidarla all'interno. Lei gli aveva porto quel calumet della pace e lui non aveva intenzione di sprecare la sua occasione.
    L'hotel era meraviglioso, l'ingresso era sormontato da una enorme pompeiana di vetro dal quale scendevano come dei fili, delle lucine bianche, a rendere più regale il tutto. Ma lui quasi non lo notò, troppo occupato a guardare la sua bella con la coda dell'occhio. Quella era la loro serata e non l'avrebbe sprecata. Lo doveva a loro due ma lo doveva anche a Julian, che aveva fatto di tutto perché stessero bene, consapevole che Cameron non si sarebbe potuto permettere nemmeno mezzo minuto all'interno di quel posto. Ed invece, avevano una suite enorme prenotata per quella notte, oltre che un tavolo al ristorante.
    Ed era proprio là che la stava conducendo: un ristorante dalle luci soffuse ed i divanetti in tessuto grigio chiaro. Su ogni tavolo, c'era una candela che rendeva l'ambiente molto più romantico.
    Prima le signorine le sussurrò e se in un'altra occasione avrebbe potuto sembrare canzonatorio, in quella suonò estremamente serio.
    Come si addiceva ad ogni posto di lusso, vennero immediatamente raggiunti da un cameriere in tenuta elegante che, discreto, salutò i due e lasciò sul tavolo dei cocktail di benvenuto: un paio di Vieux Carré. Qualcosa che non aveva mai assaggiato. Julian gli aveva detto che era stato inventato a New Orleans ma non aveva altre nozioni. Era formato da cognac, rye whisky, vermouth, Bénédictine e Peychaud’s Bitters, tutti perfettamente miscelati per garantire un sapore delicato al drink.
    Il cameriere lasciò loro anche un paio di menù. Ordina tutto quello che vuoi, questa sera non badiamo a spese. Non vedeva l'ora di chiederle di andare al ballo, ma aveva paura della sua risposta. E, ad ogni modo, ogni cosa aveva il suo tempo, quindi avrebbe trovato l'occasione giusta.
    Cameron Cohen


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    La tensione nel profilo delle spalle, le dita che afferravano i polsini della camicia e tiravano verso il basso la stoffa già tesa, lo sguardo che non l'abbandonò nemmeno per un istante da quando gli aveva permesso di vederla. Non ci furono convenevoli tra loro due, nessuna stretta di mano o bacio. Solo una scatoletta preziosa ritornata al mittente che se ne stava davanti all'ingresso di uno degli alberghi più rinomati di Londra. «Non è il luogo che mi interessa, ma la compagnia», ricordò lui, perché non gli erano mai interessati il lusso e gli sfarzi nonostante i fior fior di Galeoni che le avevano lasciato i suoi genitori, persino suo padre che nel suo delirio pozionistico aveva lasciato tutto alla madre e quindi a lei. Non erano i soldi che voleva da Cohen, bensì qualcosa di più platonico, intangibile eppure necessario. Non sapeva se quella sarebbe stata la scelta giusta, la strada da percorrere, magari qualcosa avrebbe di nuovo scombussolato tutto, ma al momento era tutto quello che desiderava. E se in passato aveva cercato di affogare i suoi desideri aveva deciso che non lo avrebbe più fatto.
    Lo iniziò a pretendere da quel ciondolo che restituì solo affinché lui lo allacciasse al suo collo. Assaporò ogni secondo dei suoi gesti delicati nell'aprire quella scatolina e poi sfilare la collana. Si girò per dargli le spalle, allentare la vestibilità del cappotto e della blusa e sollevando i capelli per posarli su una spalla e dargli libero accesso. Capelli che aveva spostato solo dopo che lui li aveva scostati delicatamente. Trattenne quel cerchio perfetto di fuoco con il palmo pieno contro il petto, lì dove sarebbe sempre rimasto fino a quando le sarebbe sembrato giusto. Si voltò verso di lui e gli sorrise, leggermente imbarazzata per gli sguardi dei passanti curiosi che si erano fermati ad osservarli. «Andiamo», ripetè, accettando quel braccio che segnava il ritorno ad un loro contatto. La sentiva solo lei l'energia che si attivò tra di loro? Lo seguì dapprima nella hall e poi verso la sala del ristorante dell'albergo che non si aspettava essere così intimo. Scivolò sul divanetto fino a raggiungere la curva più ampia e a sbottonarsi il cappotto che lasciò scivolare lungo le braccia per poi piegarlo sulla piccola borsa accanto a lei. Accavallò le gambe, sistemò la blusa e riposò una mano sul petto ad altezza collana. Un cameriere giunse prima ancora di poter parlare con chi l'aveva invitata, due drink ed i menu eleganti. Ma il suo sguardo fu tutto per Cameron e la sua camicia bianca perfettamente stirata. Aveva un debole per le camice bianche e non le sarebbe mai passato. «D'accordo», mormorò aprendo il menu e nascondendosi dietro a nomi complicati per piatti semplici. Alla fine ordinò un filetto alla Wellington con contorno di verdure miste e patate arrosto, arrogandosi perfino la scelta del vino -un sassicaia del 2003- che ben si sposava con la carne ed i sapori decisi, esaltandoli. «Credo che dovremmo brindare», ruppe il silenzio in cui erano caduti dopo che il cameriere si fu allontanato, afferrando il Vieux Carré più vicino a lei e sollevandolo nella sua direzione. «All'essere il nostro meno male anche nei momenti difficili», iniziò, lasciando che fosse l'altro ad aggiungere qualcosa qualora l'avesse desiderato prima di far tintinnare i bicchieri tra loro e berne un sorso generoso. «È un posto bellissimo, tutto questo è così romantico, ma lo sai che sarebbe andato bene anche il giardino della scuola se avessi voluto parlarmi», il capo era rivolto verso di lui, soprattutto dal momento che svariato tempo era passato dall'ultima volta in cui erano stati così, vicini e senza azzannarsi alla giugulare. «O anche per non parlare, semplicemente per stare insieme», e mandò giù solo un altro piccolo sorso. Questa volta avrebbe atteso prima di avere qualcosa di sostanzioso nello stomaco e poi concedersi qualche bicchiere di troppo.
    Elisabeth
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    La guardò, notando ogni particolare del suo volto. Sembrava un po' più stanco dell'ultima volta che l'aveva vista o forse era solo una sua impressione. Ma per Cameron era esattamente così, perché era stancante contrastare i propri sentimenti e litigare con l'unica ragazza dell'intera scuola che avrebbe voluto stringere a qualsiasi ora. Ma finalmente erano di nuovo vicini e non si stavano scannando. Saggiamente, nessuno dei due aveva ripreso le ostilità, rinfacciando all'altro ciò che era successo quel sabato tra le montagne, sarebbe stato stupido. Lei era andata a letto con Evans e lui le aveva fatto chiaramente capire cosa pensasse, sebbene con metodi sbagliatissimi. Ora potevano voltare pagina ed andare avanti, ritrovando l'equilibrio che li aveva abbracciati fino a poco tempo prima, da quado si erano conosciuti.
    Lo so replicò con un mezzo sorriso, annuendo, avvicinandosi appena per sistemarle quel ciondolo al collo. Nell'agganciare la catenina, le sfiorò la pelle candida e sentì un battito mancare per quanto a lungo aveva bramato quel momento. Solo in quell'attimo si accorse di quanto dannatamente si era sentito perso senza di lei. Adorava Julian, con il quale aveva passato praticamente tutto il suo tempo, ma la Lynch era completamente un'altra cosa. Il tassello di un puzzle che credevi di aver perso. La stella in cima all'albero di Natale che lo rende perfetto. Un sorriso in una giornata piovosa. Non si sarebbe nemmeno mai aspettato di arrivare a fare dei paragoni così romantici, ma Elisabeth lo aveva stravolto come non pensava sarebbe mai successo.
    Ci mise di proposito più tempo del necessario per assaporare ogni secondo di quel contatto così inaspettato e delicato, per due fiamme come loro. Ma era okay. Loro erano okay. Non poté comunque rimandare a lungo l'inevitabile e quando ebbe finito con la collana, le porse il braccio, sorridendo di rimando, notando qualcosa di diverso nella sua espressione, qualcosa di dolce. Andiamo acconsentì, conducendola all'interno di quell'hotel così di lusso, nel quale il Miller gli aveva gentilmente consentito l'accesso. In quel semplice contatto, sentì nuovamente l'alchimia di un tempo, come se non si fossero mai separati con tutto quell'astio.
    Arrivati ai divanetti, aspettò che fosse lei la prima a sedersi.
    Quando si tolse la giacca, per poco non gli cadde la mandibola. Indossava una camicetta con un'ampia scollatura che, tuttavia, indosso a lei sembrava tutt'altro che volgare. Era così bella che si perse ad osservarla e per una volta no, non le stava guardando le tette -anche quelle, doveva ammetterlo- ma proprio come quell'abbigliamento le stava nel complesso. Magnifica.
    Anche lui afferrò il menù, interrompendo solamente per pochi minuti quel contatto di sguardi che lo faceva impazzire. Lui ordinò un arrosto di capretto rigorosamente cotto sul forno a legna -cosa che non avrebbe potuto fare con Mia, visto che è vegetariana- e non ordinò altro, essendo una porzione consigliata per due persone... e lui era uno solo. Lasciò a lei la scelta del vino, quindi quando il cameriere si fu allontanato con le ordinazioni, afferrò il drink, andò incontro a quello di lei. All'essere il nostro meno male anche nei momenti difficili ripeté, prima di aggiungere qualcos altro. Perché solo chi c'è nei momenti difficili, ha il diritto di esserci anche quando tutto va bene. E tu sei esattamente chi vorrei nei miei momenti felici. E detto ciò, fece tintinnare il bicchiere contro il suo, prendendo a sua volta un bel sorso, che sentì ardere lungo la gola ma con insolita delicatezza. Era piuttosto chiaro che quel cocktail fosse preparato con ingredienti di perfetta qualità e non con alcolici presi dal bangladino sotto casa.
    No rispose alle sue osservazioni, sollevando il pacchetto argento che aveva accuratamente incartato, sorprendendo persino se stesso. Lo posò sopra il tavolo. Volevo un posto più intimo, dove ognuno si facesse i cazzi suoi e... lontano da chiunque conoscessimo. C'era un sottile riferimento a tutte le persone che avevano minato il loro equilibrio in quegli ultimi mesi, ma non lo espresse esplicitamente, preferendo non sollevare quell'argomento. E poi una cosa importante, merita un luogo degno. Fece una pausa, spingendo verso di lei quel pacchetto non troppo grande né troppo piccolo. Dalla forma si poteva intuire tranquillamente che fosse un libro, solo che Liz non avrebbe mai immaginato che libro potesse essere.
    Se lo avesse scartato, avrebbe scoperto trattarsi proprio della copia di "Alice in Wonderland" tanto amato da sua sorella, addirittura firmato da Lewis Carroll in persona più di un secolo prima.
    Aprilo le ordinò con un'insolita dolcezza, quando avesse finito di scartare. Se lei effettivamente avesse deciso di aprire la prima pagina, vi avrebbe trovato un biglietto.

    Perché ogni stella ha bisogno del suo universo per brillare. Vuoi venire al ballo con me?


    Cameron Cohen


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    Preda e predatore si stavano studiando: ogni respiro in più, un gesto interrotto od uno sguardo prolungato erano sotto la lente d'ingrandimento di entrambi. Era una danza dove entrambi volevano condurre ma anche essere trasportati, ma, per funzionare, sarebbe giunto il momento che uno dei due avrebbe dovuto cedere. Non sapeva come sarebbe andata a finire quella sera e neanche tra loro due, l'unico controllo che aveva e poteva pretendere era di scriverlo sul momento, senza alcuna cosa prestabilita da esseri che se ne fregavano dei comuni mortali quali erano.
    Evitò i paragoni tra quella serata e una di tanti anni prima più o meno nello stesso periodo, perché non sarebbe stato giusto nei confronti di un passato che avrebbe difeso e custodito gelosamente, ma anche per chi era di fianco a lei, nel presente, e che forse avrebbe fatto parte di un futuro un po' più lontano dell'indomani.
    Non commentò la scelta del suo piatto così come lui aveva fatto con lei, forse perché non aveva avuto da ridire sulla scelta del vino che avrebbe accompagnato quella cena che aveva l'aria di essere un primo appuntamento, per una profana come lei. Non ne aveva mai avuto uno e dubitava che mai ci sarebbe stato, non quando si buttava in una cosa a capofitto, seguendo un istinto che l'aveva tradita un paio di volte. Eppure non una sola volta si era pentita delle sue scelte, nonostante avesse accarezzato l'idea del contrario.
    Un brindisi riunì quello che l'alcol aveva diviso, con parole ampliate dal norvegese e che le diedero quella spinta finale per crederci in una risoluzione del conflitto ma anche della natura del loro rapporto. «Nella buona e nella cattiva sorte», riassunse, usando un'espressione che veniva pronunciata sotto forma di giuramento in contesti ben più sacri ed importanti. Si stavano spingendo oltre i confini che avevano disegnato, poi cancellato e poi impilato mattone dopo mattone fino a formare un muro. Lei aveva preso una piccozza per abbatterlo ma non sapeva se l'altro stesse facendo lo stesso o se preferiva osservarla dalle microscopiche crepe che lei stessa stava creando.
    La busta che aveva tenuto con lui per tutto quel tempo tornò alla sua attenzione, ciò che non credeva possibile era la presenza di un ulteriore presente oltre quello che indossava. Stava per rimarcare di non aver bisogno di oggetti, luoghi e ogni qualsivoglia cosa costosa, ma l'espressione di lui e le parole che usò non sembrarono casuali. Si morse la lingua per non commentare come quel pacchetto fosse ben incartato a differenza di altri passati. Probabile che fosse un segno della preziosità che gli stava regalando, molto più del gioiello che impreziosiva la sua scollatura. La carta regalo venne tratta con cura, seguendone i profili dello scotch magico e della piegatura della carta stessa, rivelando qualcosa che sapeva essere davvero importante per Cohen. Una copia di Alice nelle Meraviglie un po' sgualcita e provata dal passare del tempo era ora a metà tra tavolo e grembo, le dita a carezzarne la copertina e la costa, quest'ultima rivelatrice di quante volte e come fosse stato letto. «È di Arya», mormorò, sollevando lo sguardo ceruleo nel suo rivelando quanto fosse turbata. «Non posso accettarlo, era il libro preferito di tua sorella e devi tenerlo tu, Cam, perché io», ma si bloccò, nel sentire quell'insolito ordine pronunciato con delicatezza. Per una volta non si dimostrò essere un palo lì dove non batte il sole. Sigillò le labbra e sollevò la copertina rivelando la prima pagina ed un biglietto. Le pupille lessero quelle parole più volte, il cervello non sembrava voler collaborare nel processare quella richiesta. Se qualche mese prima lo avesse chiesto non si sarebbe fatta remore, se non per i sentimenti di Mia e la possibilità di vederli insieme, nell'accettare perché sarebbero andati in qualità di due amici e non di coppia, ma lì, in quel caso, il tentennamento non sembrò la cosa più giusta da fare, così come continuare a tergiversare ed accettare senza essersi tolta ogni dubbio. «Mi stai chiedendo di venire al ballo con te come amica?» Quell'oppure non pronunciato, risuonava potente nella sua testa e forse non solo nella sua.
    Elisabeth
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    Il ristorante era abbastanza pieno, sebbene la disposizione dei tavoli permettesse ad ognuno la giusta privacy, tuttavia lui aveva occhi solo per lei. Mai una volta le iridi nocciola vagarono da Elisabeth a qualche altro elemento -o persona- della sala. Si distrassero a stendo solo quando il cameriere venne discretamente a prendere le proprie ordinazioni.
    Non sapeva come spiegarle che non avrebbe potuto organizzare tutto quello in un luogo più spartano, a scuola. Non era tanto lo sfarzo ed il lusso che trasudava da ogni angolo, in quel posto, quanto più il fatto che fosse il loro primo, vero appuntamento. E tutto doveva filare liscio, a partire proprio dalla location, scelta per lui egregiamente dal suo migliore amico.
    Amen concluse lui alla fine, con una mezza risata, scontrando i due cristalli. Quelle parole non erano state solamente un modo per siglare il loro brindisi, un modo per riempire i silenzi. No, entrambi ci credevano davvero. Erano l'uno l'ancora dell'altro. Letto come sia come ancòra che come àncora. Erano l'àncora, quell'appiglio al quale aggrapparsi, quel contro peso che avrebbe contribuito a tenerli saldi, fermi. Erano l'ancòra, ancòra liberi di amare, ancòra liberi di sognare. Ancòra liberi di essere adolescenti normali, non due reietti odiati da tutti. Lei era il suo meno male. Meno male che non smetteva mai di farlo felice, anche quando non se ne rendeva conto. Era bastato presentarsi quella sera per renderlo l'uomo più contento del mondo.
    Meno male che avevano abbattuto quel muro.

    Fu il momento di darle quel regalo che, sebbene non avesse un elevato valore economico (anche se probabilmente molti collezionisti avrebbero sborsato fior fior di quattrini per averlo) bensì aveva un valore simbolico, affettivo. Cameron sapeva bene che la ragazza non fosse una materialista e che non avrebbe preteso dei diamanti, l'ultimo modello dell'Iphone o cose del genere, soprattutto perché sapeva bene che non avrebbe potuto permetterseli se non dopo mesi e mesi di sacrifici.
    Nell'esatto momento in cui lo aveva spinto verso di lei, sapeva benissimo che avrebbe provato a protestare, ma non le lasciò il tempo di finire la frase. Non gli interessava se credeva di non meritarselo, di non poterlo accettare o quant'altro. Doveva averlo lei. E glielo avrebbe fatto presente, dopo dopo.
    Sì, ti sto invitando come mia migliore amica. Una frase che sarebbe potuta essere un macigno sul cuore di Elisabeth se detta seriamente, ma sul volto di Cameron era presente un sorrisetto ironico. Scosse la testa, stupito che lei non lo avesse ancora capito, sebbene potesse capire il suo non volersi creare false speranze per non vedersi tutto infrangere davanti agli occhi com'era già successo. Non ho regalato una delle cose più importanti che ho, solo per invitare un'amica. Tolto il fatto che prima di lei non aveva mai avuto veramente amiche e quindi non avrebbe proprio saputo cosa regalarle, sicuramente non avrebbe usato il libro di Arya.
    Tu devi accettarlo, Elisabeth. Capisci? Io non te lo sto regalando solo per farti vedere quanto ci tenga a te. Te lo sto regalando perché tu mi fai respirare. Tu non sei solo il mio meno male. Tu sei il mio tutto, il mio va tutto bene anche quando va tutto di merda. Sono stato chiaro? Sollevò una mano sopra il tavolo a cercare la sua per posarcisi sopra ed accarezzarle il dorso con il pollice, prendendo un profondo respiro per concludere quel discorso. Le sue successive parole avrebbero decretato la fine di molte cose ma l'inizio di altrettante.
    Elisabeth, tu... tu mi fai sentire vivo. Abbiamo avuto molti contrasti, è vero. Mi sento una merda per come ti ho trattata quando mi hai detto di te e Josh. La verità è che non mi sono mai sentito così tanto geloso in vita mia. Odio che tu voglia altri. Sono io l'unico che devi volere. Nonostante quelle parole potessero sembrare un ordine di una persona tossica, furono pronunciate con una dolcezza infinita ed anche con adorazione nei confronti della sua interlocutrice. Io voglio che tu venga al ballo con me come mia ragazza, Lynch. Come la mia donna. E voglio che tu sia orgogliosa di quello che abbiamo, una piccola bolla in grado di tenere fuori tutto lo schifo del mondo. Sollevò un dito della mano libera, sfiorandole il naso così piccolo e perfetto, tornando a sorridere con un po' più di leggerezza. Te lo richiederò solamente un'altra volta. Vuoi venire al ballo con me, Elisabeth Lynch?
    Cameron Cohen


    Dioptase
    III Anno
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    Pensava sempre più che la scelta di un luogo pubblico come quello, in un primo incontro dopo il disastro avvenuto sui monti, non fosse stata una scelta del tutto casuale. Credeva che fosse per trovare un modo per scusarsi, per dirle che non avrebbe voluto perderla, che la sua reazione fosse stata esagerata e che, circondati da Babbani, non avrebbero potuto di certo assaltarsi alla gola con le loro bacchette. Un luogo dove dare inizio ad un periodo di pace e tranquillità che sperava fosse duraturo. La delicatezza dei suoi gesti, la calma placida con cui aveva accettato quel teatrino con la collana e poi il suo tentativo di rifiutare il suo regalo, quel libro da un valore affettivo inestimabile che le aveva messo tra le mani. Un libro che rappresentava il vero cuore, nucleo, di Cameron Cohen, la sua essenza offerta a lei affinché se ne prendesse cura, proteggendola da qualsiasi cosa. Un valore simbolico che valeva ancor di più dell'invito al ballo che ne seguì. Ballo cui avrebbe dovuto comunque presenziare in veste di Prefetto. Già si immaginava gli sguardi, le parole pronunciate a labbra strette, la rabbia di qualcuno ed il dolore di qualcun'altra. «Mia...» Anche lei Prefetta avrebbe visto il suo primo ballo rovinato da loro due che avrebbero volteggiato nella Sala Grande. Un'immagine ancor più dolorosa dei pettegolezzi che giravano. Eppure non era riuscita a non chiedergli in che veste gli stesse chiedendo di partecipare allo Jul Ball di quell'anno e per un po' cedette all'assentire di lui, circa la loro presenza come coppia di amici e nient'altro. Eppure sul suo viso c'era quel sorrisetto ironico che avrebbe voluto cancellargli con un bacio. Preferì bere un sorso del drink che ancora occupava i tre quarti del bicchiere, con i cubetti di ghiaccio a galleggiare in superficie. Sobbalzò nell'irruenza di lui nel riprendere l'oggetto del presente che gli aveva dato, non allontanò la mano quando lui vi posò la propria, accarezzandola con una lentezza esasperante. «Sì, sei stato chiaro», inclinò il capo, mentre il corpo scivolava più vicino al suo, mentre il pollice di lei cercava di arrivare sul suo mignolo. Contatto, aveva bisogno di contatto per quel tutto che era chiamata a divenire. Proprio quel tutto che aveva realizzato di volere quando era giunto Lucas da lei. «Cosa?» Era incredula ora. Il cuore le martellava frenetico del petto, le parole che da un po' di tempo a quella parte aveva desiderato di sentire finalmente erano arrivate ma si sentì terrorizzata. Accettare quel ballo significava accettare anche di essere la sua ragazza, la sua donna e lei, nonostante il Lucas degli inizi, non aveva mai avuto di fatto una relazione. Con l'unica che aveva mandato all'aria nel giro di poche settimane, cosa avrebbe potuto pretendere da quella con il Dioptase? Certo, se guardava indietro all'evoluzione del suo rapporto con il norvegese, poteva dire che in qualche modo avessero già una storia, atipica, ma pur sempre una storia. E così allontanò, almeno per quella sera, i fantasmi dei tre Ametrin che avevano segnato le loro vite: Lucas, il suo primo bacio; Mia, il primo amore di Cameron; Josh, il suo potenziale tutto.
    Si volse a guardarlo, con la mano a toccare quel profilo deciso, le dita sugli zigomi marcati. «Sì, verrò al ballo con te», un sorriso luminoso a sorgere spontaneo sulle sue labbra. «Come mio <i>tutto<(/i>».
    Elisabeth
    Lynch

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