Posts written by Oliver Jackson

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    Scusate ma sono da cellulare, quindi uso direttamente il profilo di Oliver per la segnalazione: SCHEDA CONCLUSA! :3 🔥
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    liver era sempre stato davvero poco responsabile. A cominciare da quando, all’inizio del terzo anno, aveva cominciato a fumare – e a farsi servire da un tipo losco in quel di Hogsmeade – unicamente per imitare alcuni suoi compagni di scuola. Non si era prima chiesto se quelle sostanze fossero o meno salutari per il suo organismo, non aveva avuto bisogno di saperlo: quando aveva cominciato a farne abuso si era sentito così bene che se gli avessero detto quanto fossero tossiche lui non ci avrebbe mai creduto.
    Adesso, a distanza di tutti quegli anni, c’erano volte in cui pensava che avrebbe fatto volentieri un passo indietro: forse il suo sé attuale, se avesse avuto l’occasione di interloquire con il suo sé del passato, sarebbe andato a bussargli sulla spalla per dirgli di non farlo e che con l’aiuto dei suoi amici sarebbe andato tutto bene.
    Dopo dieci anni, invece, niente era andato bene: non aveva più amici, né la certezza che un giorno tutto sarebbe andato per il meglio. E se alle volte il Jackson sembrava ancora così tanto legato all’adolescenza ed aveva comportamenti infantili, spesso avrebbe voluto dare un’occhiata all’età adulta – quasi fosse il trailer di un nuovo film – per capire come sarebbero andate le cose. Per cercare di cambiarle in anticipo, o stroncarle prima ancora che potessero accadere.
    Credeva ancora, tra l’altro, che di quel passo non sarebbe stato in grado di superare i trentacinque anni di età: ne mancavano ancora dieci ed il conto alla rovescia era già iniziato quando aveva spento le candeline, quel sette luglio.
    Strinse i pugni e continuò a massaggiarsi le spalle per scaldarsi; malgrado si ostinasse a non fissare lo sguardo sulla sconosciuta che non faceva altro che ammorbarlo con bellissime parole e sciocche promesse, le orecchie del Jackson erano ancora ben attente ad ogni sillaba – immaginando già un futuro migliore del proprio, ma considerandolo ancora una mera utopia.
    Si chiese che cosa avesse da perdere, a quel punto. La vita? Come se oramai fosse per lui un problema.
    Scosse il capo facendo cadere alcune gocce di pioggia, poi voltò il capo verso la donna e strabuzzò gli occhi nel vederle tirar fuori la propria bacchetta; non si stranì più di tanto nel vedergliela in mano, doveva immaginare che il suo Capo e lei non avessero nulla a che vedere con il mondo babbano. Ad obbligarlo a strabuzzare gli occhi fu il suo successivo gesto: quando gliela puntò addosso, d’istinto Oliver non infilò la mano nel fodero per procurarsi la sua, ma bensì chiuse gli occhi – pronto a ricevere il colpo.
    Ma quando invece di una fattura cominciò a sentire un calduccio confortevole, aprì gli occhi e smise di tremare.
    «Grazie»
    Fidarsi, in generale, gli era sempre stato troppo difficile.
    Aveva smesso di tremare, ma non di pensare che quelle fossero unicamente frottole che altro: quel gesto probabilmente era servito unicamente a scioglierlo, convincerlo della sua natura bonaria.
    La guardò di nuovo da capo a piedi e strinse nuovamente le braccia al petto.
    «Ho visto un film, una volta: sai com’è andata al protagonista, dopo che si è convinto ad entrare in un furgone dai vetri oscurati?»
    Sorrise in modo sincero, per la prima volta da quando era iniziata quella strana conversazione.
    E Mina, così come il serpente tentatore con la sua mela, stava tentando all’incolumità di un Oliver sempre più convinto a fare un passo avanti.
    Guardò prima lei, poi il furgone. E poi la strada. Poteva correre, smaterializzarsi e togliersi tutto dalla testa. E invece, senza che prima potesse pensarci sul serio, si accorse che le sue gambe avevano già cominciato a camminare in avanti. Dritte verso il furgone sul quale si accomodò.
    Patatine e bibite. Si sentiva al cinema. Peccato che lì, l’unico film thriller, stavano per girarlo loro.
    «Cosa è?»
    Osò chiedere quando gli vennero date le prime indicazioni.
    Non era sicuro, tuttavia, di volerlo veramente sapere.
    E poi i chiarimenti arrivarono: un virus. Perché loro volevano farlo? Gli bastò vedere la sacca colma di galeoni per convincersi ad agire e, finalmente, tenere la bocca chiusa.



    Arrivò davanti agli studi televisivi ancor prima di quanto potesse immaginarsi. Aveva passato il tempo del viaggio con la gamba destra tremante dal nervosismo. Non sapeva come cazzo fare, sostanzialmente. Non voleva deludere nessuno, lo aveva già fatto troppe volte durante la sua vita. Non voleva neanche rendere indietro quei tanti, troppi, galeoni d’anticipo: gli erano luccicati contro al viso, quando li aveva scorti sul fondo di quella sacca. Ne voleva ancora. E li avrebbe avuti.
    Con le mani nelle tasche – il virus nella destra e la polisucco nella sinistra – si alzò il cappuccio della felpa fin sopra al capo e, appostatosi fuori nell’ombra, continuò ad osservare i tecnici dello studio fare avanti e indietro. Ne individuò uno, in particolare, dietro al quale si accodò quando si accorse di essere rimasto solo. Non doveva mancare molto all’inizio della diretta, doveva sbrigarsi.
    Ancora alle spalle dello sconosciuto, alzò lo sguardo soltanto quando sentì un’altra voce: un collega gli intimava di andare a recuperare qualcosa in magazzino. Laddove anche Oliver, nell’ombra, avrebbe continuato a seguirlo.
    Sarebbe stato allora, tra i millanta scaffali disordinati, che il venticinquenne avrebbe agito: agitata lesta la sua bacchetta verso le spalle dell’uomo, avrebbe castato un non verbale Stupeficium.
    Qualora fosse riuscito a lasciarlo steso per terra, Oliver a quel punto avrebbe provveduto a strascinarlo per i piedi fino a nasconderlo dietro un paio di grossi scatoloni – provvedendo prima a prendergli i vestiti e una ciocca di capelli scuri. Legato ed imbavagliato per sicurezza con un non verbale Incarceramus (qualora l’incantesimo fosse riuscito come da intenti), a quel punto avrebbe provveduto a inserire i capelli dentro la pozione polisucco già pronta: prese un respiro profondo prima di mandarla giù tappandosi il naso e quasi non rischiò di vomitare per l’orrido sapore. Si sentì immediatamente molto strano, al punto che dovette in un primo momento reggersi contro uno scaffale mentre qualcosa in lui cominciava a mutare: le mani, il naso, la bocca, gli occhi. E quando li riaprì Oliver era già scomparso.
    Al suo posto adesso c’era un certo Michael Berrich. Così come aveva letto sul suo cartellino identificativo - lo stesso che si sistemò sulla giacca, in bella vista.
    Uscito dal magazzino a testa bassa, avrebbe fatto di tutto per evitare gli sguardi dei passanti e seguì le indicazioni sino ai camerini – laddove, qualora non avesse incontrato problemi, avrebbe trovato quello di Peter Solaris.
    Rubò un bicchiere di carta dal carrello degli snack, ci verso dentro un po’ di Coca Cola e poi vi versò dentro il contenuto della fialetta che conteneva il virus - stando ben attento a rimanere lontano da occhi indiscreti. Fece oscillare il bicchiere per mischiare il tutto e bussò alla porta: sarebbe entrato soltanto una volta aver ricevuto il permesso di farlo.
    «Dalla direzione, per distendere i nervi» la voce fintamente più profonda, mascherata.
    Avrebbe passato il bicchiere all’uomo che guardava riflessa la propria immagine allo specchio e sperò che, come da programma, lui lo mandasse giù.
    Nel caso in cui l’avesse fatto, Oliver avrebbe provveduto ad allontanarsi dallo Studio il più in fretta possibile.
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    ’affare che doveva sbrigare era un po’ diverso rispetto ai soliti, motivo per cui Oliver si sentiva un po’ strano - sicuro di star mettendo i piedi in un campo di cui conosceva davvero molto poco. Abituato com’era ad avere a che fare unicamente con i tossici – poiché era lui stesso a far parte di quella medesima cerchia –, quando gli era stato chiesto di recarsi in quel di Notturn Alley aveva storto il capo e si era chiesto che cosa mai potesse farci uno come lui in quelle strade oscure.
    Dal momento che si reputava da solo un ragazzo cattivo poteva soltanto immaginare il modo in cui lo avrebbero fissato soltanto vedendolo aggirarsi confuso per quei lidi, ma era allo stesso tempo sicuro di non avere una faccia tanto “minacciosa” quanto quella di chi spesso varcava l’ingresso di Magie Sinister – perché era quella, effettivamente, la sua destinazione finale.
    L’uomo per il quale lavorava gli aveva chiesto di raggiungerlo nella sua residenza in quel di Londra – un quartiere per famiglie, il che era quanto dire (quindi ottimo per non attirare troppo l’attenzione) – in modo tale che potesse consegnargli lo strano pacchetto che il Jackson avrebbe dovuto recapitare direttamente nel rinomato negozietto in quel di Notturn Alley: nascosto il tutto nello zaino e sistemato lo stesso in spalla, partì alla volta di Diagon Alley fino ad immettersi nel quartiere meno trafficato nel primo.
    E se Diagon Alley rappresentava la luce della Londra magica, Notturn Alley era invece l’oscurità.
    Era deciso a concludere il tutto in più in fretta possibile, per cui si affrettò a percorrere i viottoli di cui non conosceva le uscite – perdendosi anche di tanto in tanto.
    Fu proprio quando capì che di quel passo avrebbe tardato al suo appuntamento che in lontananza vide un uomo parlare con qualcuno: era stato avvisato sulla gente che percorreva quelle strade, ma le storie avevano risvolti negativi soltanto per chi non era in grado di raccontarle con una degna verità. Senza alcun timore, quindi, Oliver si avvicinò un po’ di più allo sconosciuto con l’intenzione di chiedergli indicazioni – salvo poi vederlo premere i suoi denti contro il collo di una donna.
    Il passo dell’ex Serpeverde si arrestò di colpo, gli arti si fecero rigidi, il sangue nelle vene gli si raggelò e gli occhi si strabuzzarono per la paura.
    Aveva scelto la persona sbagliata sulla quale riporre le sue speranze.
    Si disse di affrettarsi, fare dietrofront e scappare via. Ma ormai era troppo tardi.
    «Volevo solo..»
    Aveva visto, forse sarebbe bastato questo allo sconosciuto per decidere di sbarazzarsi di lui. Chiuse appena gli occhi e scosse il capo per calmarsi; quando li riaprì si ritrovò il tipo più vicino e le proprie braccia sollevate a mezz’aria in segno di resa – ma apparentemente più tranquillo.
    «Stavo solo cercando Magie Sinister»
    Ho un appuntamento, avrebbe voluto aggiungere.
    «Mi stanno aspettando»
    Così come si aspettavano di vederlo arrivare, da un momento all'altro. Voleva solo accertarsi che ci sarebbe arrivato per davvero, lì.
    Come si chiamava? Era saggio rivelargli il suo vero nome? Ma davanti ad una possibile morte perché mentire, a questo punto?
    «Oliver»
    Solo un Oliver. Indifeso.
    E, stranamente dopo tantissimo tempo che si era soffermato a pensare alla morte, fottutamente desideroso di vivere.
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    apitava, anche se molto di rado, che il suo lavoro lo spedisse nei luoghi più strani e che lo spingesse a vivere situazioni quasi surreali: era passato dal procurare un po’ di roba ad una confraternita babbana, poi a uno studente di Hidenstone che voleva organizzare una festa clandestina in Accademia, fino al fornire una buona scorta a una squadra di Quiddtich professionista inglese. Insomma, il fatto che Oliver non avesse mai pensato di procurarsi un travestimento o di affatturarsi da solo il viso per nascondere la propria identità ai suoi clienti la diceva lunga su quanto realmente gli importasse di venir beccato.
    Lui, quando si chiedeva il perché lo stava facendo, si ripeteva sempre che voleva dare a chiunque gli chiedesse un aiuto l’occasione di smettere di pensare per un po’, di trovare un po’ di felicità laddove l’esistenza continuava a far schifo. C’era molto più, per l’ex Serpeverde, in un tiro di canna.
    Scontato da sentire da uno spacciatore, vero? Ma neanche poi tanto.
    Comunque a differenza di ogni altra situazione, non era affatto raro invece che il suo lavoro lo portasse in una discoteca – che fosse nella Londra babbana o magica, oppure ancora a Denrise.
    E se gli avessero detto che oltre a qualche galeone ci avrebbe anche guadagnato una birra gratis, si sarebbe convinto prima a tornare nello stesso posto dove aveva avuto una pessima esperienza. In un modo o nell’altro, praticamente, era come se stesse recuperando la serata di merda dell’ultima volta.
    E lui non era manco tanto male.
    Quel lui probabilmente un po’ matto ma che, gettandosi la birra addosso da solo unicamente per “somigliare” a Oliver gli fece intendere che la loro conversazione non sarebbe finita molto presto – se non addirittura con un lieto finale per entrambi.
    «Ti avrei ricambiato il favore, se solo non ti fossi impegnato così tanto»
    Fece spallucce, per poi ritrovarsi ad attendere lo sconosciuto sulla pista da ballo giusto il tempo di andare a prendere due birre al bancone; Oliver era sicuro che se ci si fosse avvicinato lui, il barista ne avrebbe approfittato per prenderlo a male parole.
    Acciuffò la birra destinata a lui senza smettere di muoversi a ritmo di musica, ma facendosi un po’ più vicino a quello che oramai non era più tanto sconosciuto.
    Thomas. Si repeté più volte il suo nome in mente per non rischiare di dimenticarlo.
    «Oliver»
    E al tempo stesso annuì poiché, sì, era lì da solo. Anche se tecnicamente non proprio per divertirsi. La svolta che quella serata pareva aver intenzione di intraprendere lo incuriosiva non poco.
    «Rimani, potrei anche accontentarti se me ne darai l’occasione»
    Alzò un sopracciglio, ammiccando, e prese un generoso sorso senza smettere di guardarlo.
    Tuttavia non aveva dimenticato il motivo primario per il quale si trovava lì: rimase allerta, guardandosi di tanto in tanto attorno con la coda dell’occhio.
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    l fatto che l’altra gli stesse dando a parlare come se Oliver avesse la minima idea di chi fosse lo faceva quasi sorridere – poi notava il modo insistente con cui lo stava fissando e passava tutto. Subentrava l’incazzatura, maggiormente perché si era immaginato una simile reazione della gente al solo vederlo conciato in quello stato. La gelataia, quando prima si era azzardato a mettere piede nel suo negozio (nelle cui pareti pareva averci vomitato un unicorno), gli aveva persino riso in faccia. Che cazzo di problemi aveva la gente? Come se l’ex Serpeverde fosse stato il primo ragazzo al mondo che avesse deciso di “provare” a tingersi i capelli.
    Fanculo.
    E quello stesso “fanculo” lo aveva riservato di cuore anche alla sconosciuta – che poi tanto sconosciuta manco era (come forse avrebbe scoperto a breve).
    Ma la vera domanda a quel punto era un’altra: perché gli stava persino parlando? Il Jackson alzò gli occhi al cielo mandandola mentalmente a quel paese per l’ennesima volta, ma questa volta – piuttosto che esprimersi a parole – fece un altro generoso tiro dalla bomba che aveva tra le dita per annebbiarsi ancor di più la mente. Ci vide persino doppio, per un momento, credendo (come un idiota) che ci fossero due cagacazzi anziché una a rompergli le scatole.
    Due nuvolette di fumo biancastre gli fuoriuscirono dalle narici mentre sbuffava.
    Aggrottò la fronte e prese a fissarla a sua volta. Non era certo la prima volta che la vedeva. Ma dove poteva collocarla? Ci pensò un po’ su senza emettere alcun fiato, ma piuttosto continuando a fare qualche tiro della sua canna.
    Non poteva certo essere una vecchia amica. Lui non aveva amici. Né nuovi, né vecchi. Se li era giocati tutti quando aveva deciso che la droga sarebbe stata l’unica amica della sua esistenza: quella che gliel’avrebbe migliorata e quella che, a lungo andare, gliel’avrebbe tolta.
    Era già sulla buona strada.
    Madyson, Quinn, Fabien, Reese, Theo, Marte, Will, Roy, Elia, Octavia.
    Tutti andati.
    Avevano visto la parte peggiore di lui e ne erano rimasti schifati.
    «Ragazzo o ragazza, io faccio quello che mi pare»
    E alzò gli occhi al cielo guardando dalla parte opposta a quella della ragazza, la canna di nuovo fra le labbra.
    E la testa già altrove.
    «E comunque ci sono un sacco di alberi eh, giusto per dire»
    Che fosse un modo per esortarla a cambiare posto? Poco ma sicuro.
    D’altro canto era lei quella non propensa a sopportare le male parole di un Oliver Jackson alquanto irascibile – vista la situazione. Perché allungare così tanto la sua agonia?
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    orse sarebbe dovuto rimanere a casa, visto il modo – di merda – in cui era andata a finire la serata l’ultima volta che aveva messo piede in quello stesso locale. Buffo, visto che non lo aveva scelto lui: si era messo in contatto con un cliente per un grosso affare e non voleva che lo scambio avvenisse in un luogo troppo compromettente. Per strada c’erano le telecamere, neanche se si fossero immessi in un vicoletto buio sarebbero stati risparmiati da quegli occhietti elettronici. Farlo in un luogo pubblico – nascosti in bella vista – era, invero, meno pericoloso di qualsiasi altra opzione potesse venir loro in mente.
    Avendolo visto soltanto una volta in faccia, aveva pensato che la cosa migliore per farsi notare da più persone fosse gettarsi nella pista da ballo. Questa volta, rispetto all’ultima, non si era presentato lì letteralmente andato – era già tanto, anzi, che il barista non lo avesse fatto buttare fuori dal locale visto che l’ultima volta aveva quasi rischiato di dar fuoco al bancone degli alcolici.
    Si lasciò trascinare dalla musica assordante mentre gli arti si muovevano a ritmo, la testa più leggera e gli occhi allo stesso tempo ben attenti alla folla circostante. Non erano in pochi a fissarlo, mentre lui ricambiava i sorrisi di qualcuno, ma dubitava che tra questi vi fosse il contatto che stava cercando.
    Qualcuno lo affiancò, sentì una mano stringergli i jeans all’altezza della tasca destra e ciò bastò per mandarlo in allarme: si voltò dalla parte opposta, salvo poi notare una ragazza mandargli un bacio.
    Poveretta.
    Le mimò un “sono gay” e si godette il suo sguardo dispiaciuto, prima di finire nelle “grinfie” di uno sbadato. Di colpo si ritrovò la maglietta completamente fradicia, neanche se qualcuno stesse cercando di rendere il favore alla pazza alla quale sere fa era stato proprio Oliver a sporcare il vestito di birra.
    Allargò le braccia e si fissò i vestiti zuppi, per poi spostare le iridi sul colpevole.
    Scosse la testa, ma sorrise dinanzi la frase che dopo lo sconosciuto proferì.
    «Se questo è il tuo modo di abbordare, ti assicuro che ti riesce veramente male. Amico.»
    Alzò gli occhi al cielo, ma non accennò a voler smettere di muoversi a ritmo di musica.
    Si guardò un'altra volta attorno prima di avvicinarsi un po' di più allo sconosciuto.
    «Per punizione adesso me ne devi una»
    C'entrava poco con quanto era successo, ma in un modo o nell'altro Oliver doveva pur guadagnarci qualcosa.
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    nche con la musica attutita per via della porta del bagno chiusa, Oliver continuava a sentire il frastruno provenire dalla stanza principale. Forse tra qualche giorno – giusto il tempo di comprendere ciò che avrebbe comportato quello spiacevole incontro con la completa sconosciuta alla quale aveva semplicemente bagnato il vestito rosa di birra – si sarebbe pentito di non essersene rimasto nella sua bettola di casa quella fatidica sera, anziché andarsene a zonzo per i localini della Londra babbana.
    Non era neanche sicuro che quella donna facesse parte del mondo magico, per cui non poteva rischiare di attirare a sé problemi che avrebbe potuto benissimo evitare – così come avrebbe volentieri anche evitato qualsiasi contatto con lei.
    Forse avrebbe dovuto accettare di appartarsi con il tipo che gli aveva fatto quell’occhiolino sulla pista dal ballo, si sarebbe già risparmiato un sacco di magagne e si sarebbe già svuotato.
    Si sentì impotente sotto gli sguardi della donna che lo teneva letteralmente con le spalle al muro; non sarebbe stato in grado di scrollarsela di dosso neanche se fosse stato sobrio – troppo signore per trattar male qualcuno dell’altro sesso. Aveva picchiato William una volta, ma con il solo intento di toglierselo dalla testa, e non si era sentito in colpa dopo averlo fatto. Con lei si sarebbe sentito una merda soltanto al pensiero.
    Era per questo motivo che, nonostante avesse già cercato di divincolarsi, cercò con tutta la forza che gli era rimasta in corpo di sollevare entrambe le mani fin sopra la testa in segno di resa.
    Proprio quando l’altra aveva preso a sussurrargli all’orecchio in modo calmo, soffiandogli sulla pelle parole gentili ma allo stesso tempo fredde come il ghiaccio. Avrebbe sentito i pantaloni stringersi un po’ se al posto suo ci fosse stato quel tipo che aveva visto in pista.
    «Era solo un po’ di birra, cazzo!»
    Non ebbe neanche il tempo di dirlo che si ritrovò a portare la testa indietro, accompagnando il tiro della sua mano con il solo intento di provocarsi meno male; strinse le iridi e la mascella per non emettere un fiato, lo stesso che trattenne quando l’altra gli strappò qualche ciocca dei ricci.
    «Ahi!! Ma sei matta?! Fottiti, porca puttana!»
    Portò una mano a massaggiarsi il capo, laddove lei aveva tirato più forte, proprio quando la vide scostarsi da lui e uscire di fretta e furia dal bagno delle ragazze. Non avrebbe avuto la forza di seguirla neanche se avesse voluto realmente farlo.
    Che si fotta.
    «E’ stato un piacere, stronza del cazzo.»
    Le urlò dietro, piantando i piedi sul pavimento.
    Chiuse gli occhi appena per un attimo, per poi udire la porta del bagno aprirsi di nuovo.
    Che la pazza fosse tornata? Aprì di colpo le iridi.
    «Che vuoi ancora?!» le urlò contro.
    «Che voglio io? Sei nel bagno delle ragazze, stupido idiota. Fuori di qui!»
    Non ci aveva azzeccato, per fortuna.
    Fissò appena la nuova sconosciuta, poi sbuffò e uscì biascicando.
    Che serata di merda.
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    ’erano giorni in cui riusciva a rimanere un po’ più sobrio nonostante non riuscisse a rinunciare a qualcosa per sentirsi meglio, mentre c’erano altre volte in cui si riduceva talmente tanto male da preferire di chiudere gli occhi e non riaprirli più. Era quasi successo, una volta: se non fosse stato per l’intervento tempestivo di Marte sarebbe annegato nelle acque del Lago Nero, troppo fatto per sollevare la testa da dentro l’acqua dentro la quale era inciampato. Buffo pensare che era stato proprio da quel momento che i due avevano cominciato a volersi bene, nonostante Oliver si chiedesse ancora perché certa gente tenesse così tanto a lui.
    Non si era mai meritato l’affetto di nessuno.
    Si portò le mani alle tempie e si prese la testa tra le mani mentre il sorriso gli si spegneva sulle labbra; la vicinanza di un ragazzo e la sua voce troppo squillante per il tremendo mal di testa che gli stava spaccando il cranio a metà era troppo, anche più del solito.
    «Piano, per favore»
    Disse a denti stretti e ad occhi socchiusi.
    In effetti non ricordava neanche che cosa ci avesse visto, di tanto divertente in quella fetta di carne. Non che avesse tutta questa fame, tra l’altro: bastava guardarlo per capire quanto spesso la roba gli togliesse l’appetito. Mingherlino com’era, era certo che avrebbe potuto anche attraversare le sbarre di una cella se gli sbirri lo avessero sbattuto dentro per spaccio.
    «Dammene una»
    Disse semplicemente, una volta aver riaperto gli occhi ed aver fissato distrattamente le iridi verso la figura dello sconosciuto che lo aveva affiancato. Che lo conoscesse già? Che volesse venduto qualcosa nonostante l’evidente pausa pranzo dal lavoro? Come se avesse realmente intenzione di mangiare qualcosa.
    Allungò il braccio destro verso il piatto completamente sano e lo fece scivolare in silenzio in direzione dello sconosciuto, come ad offrirgli quella carne in cambio di una stupidissima sigaretta.
    Almeno se avesse iniziato a mangiare avrebbe tenuto la bocca chiusa e il suo mal di testa ne avrebbe giovato.
    Agli affari, in tal caso, ci avrebbero pensato in un secondo momento.
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    ’uomo per il quale ancora lavorava – a malincuore, visto che ogni volta che vendeva qualcosa gli doveva rendere più dell’ottanta percento dei proventi, tenendosi per sé soltanto mere bricioline di pane – aveva agganci un po’ ovunque e la cosa poteva giocare dalla sua parte perché anziché tenerlo sempre fermo in un unico punto – che fosse un vicolo malfamato di Londra o un viottolo poco trafficato a Denrise – gli dava la possibilità di andare un po’ ovunque e di vendere la roba alla gente più strana.
    Recatosi a Londra con abbastanza dosi da stendere una mandria di cavalli, Oliver lesse nuovamente il biglietto sul quale erano state riportate precise coordinazioni sulla meta da raggiungere per quella vendita: inutile dire che il fatto che i clienti fossero proprio alcuni giocatori dei Falmounth Falcons lo fece sorridere non poco. Immaginava, in effetti, che anche quei ricchi spocchiosi avessero ogni tanto bisogno di annullarsi proprio come Oliver – con la differenza che lui ne aveva bisogno giorno dopo giorno per stare bene con sé stesso.
    Con la penombra della sera a favorirgli il giusto anonimato, il Jackson si sarebbe appostato appena fuori lo stadio che veniva usato dalla squadra per gli allenamenti di Quidditch, aspettando che si prendessero la briga di uscirne fuori. Sbuffò a denti stretti e a braccia congiunte, senza neanche più capire quanto tempo avesse già passato lì – al buio e al freddo.
    Era stato quando aveva sentito aprire il cancello principale e il vociare in lontananza, che Oliver aveva scostato la schiena dal muretto per avvicinarsi appena verso il gruppetto – senza dare troppo nell’occhio. Se fosse stato più giovane – e soprattutto meno fatto – probabilmente il suo cuore avrebbe mancato un battito alla vista di famosi giocatori di Quidditch, peccato che per l’ex Serpeverde i tempi fossero cambiati e che adesso non gliene potesse fregare meno.
    Soltanto quando il primo di quei giocatori lo adocchiò, Oliver lo invitò con lo sguardo ad avvicinarsi; estrasse la roba dalla tasca e non la rese fin quando non gli vennero messi in mano una manciata di monete dorate. Dopo fu il turno del prossimo giocare e ancora del successivo, fin quando l’affare non venne definitivamente chiuso.
    Li vide smaterializzarsi altrove e, se non fosse stato per una voce che lo obbligò a fermarsi, anche Oliver avrebbe fatto lo stesso per raggiungere nuovamente Denrise.
    Si bloccò di colpo e strabuzzò gli occhi virando il capo dalla parte opposta.
    Chi cazzo era?
    «Emh.. dovrei?»
    Corrugò la fronte, confuso, e cercò di mettere meglio a fuoco la figura del semi sconosciuto. Quello che Peter non sapeva – o forse probabilmente sì, visto che anche le pietre ai tempi di Hogwarts erano al corrente dei problemi di dipendenza di Oliver – era che l’ex Serpeverde nell’ultimo periodo che aveva passato alla Scuola di Magia era stato talmente tanto fatto da ricordare a malapena gli ultimi giorni con i compagni.
    Aveva bisogno del suo tempo.
    «Ti serve qualcosa?»
    Un cenno ai suoi pantaloni. Alle sue tasche, sicuro che stesse solo cercando di farsi vendere qualcosa – ma che probabilmente era troppo timido per chiedergliela direttamente senza troppi giri di parole.
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    ontinuò a fissare la sconosciuta come se fosse un alieno appena sceso dalla sua navicella spaziale davanti agli occhi di Oliver – ancora incredulo della sua effettiva esistenza. Si era soffermato un sacco di volte a pensare se ci fosse o meno la vita oltre il Pianeta terra, e pensare il contrario era da sciocchi. Non potevano certo credere che il loro fosse l’unico dell’Universo in grado di ospitare la vita – anzi, forse era addirittura il peggiore.
    Comunque, alieni o meno il fatto che il Jackson non avesse idea di chi fosse quella ragazza era una verità incontrovertibile. La scrutò con ancora più insistenza, senza prendersi la briga di apparire meno impertinente con lo sguardo, e rimase a sentire quanto avesse da dirgli. Lei conosceva lui e, visto quanto ne sapeva, non poteva che esserne più sicuro.
    Piuttosto ad incuriosirlo era il suo fantomatico Capo, quello che a quanto pareva aveva mostrato interesse per gli affari di Oliver: forse era stato un male non cambiare posto, farsi trovare sempre nello stesso punto. E se fosse uno sbirro? Non voleva finire in gabbia. Corrugò la fronte.
    Cosa voleva, Oliver?
    «Voglio arrivare a casa e non trovare il frigo vuoto. Voglio smettere di vivere in una bettola di merda. Voglio trovare l’acqua calda quando apro il rubinetto della doccia e non congelarmi il culo d’inverno.»
    Non aveva mai voluto diventare ricco; anche quando aveva iniziato a lavorare per Romeo si era accontentato di venir “pagato” con della roba, anziché con la manciata di galeoni che gli spettavano. A lui bastava poter smettere di sentire tutte le volte che voleva, per questo non aveva mai cercato di disintossicarsi.
    «Ma la mia è soltanto utopia, no?»
    Aveva freddo. Un brivido gli percorse la schiena al punto da portarlo a congiungere le braccia al petto e a strofinarsi le mani sugli avambracci per scaldarsi. Uscire la bacchetta davanti un’estranea per asciugarsi non era prudente. Per quanto poteva saperne, quella non aveva nulla a che farci con il mondo magico e lui non voleva problemi – almeno non più di quanti ne aveva già di suo.
    Continuò ad ascoltarla, curioso, volendole dare una possibilità. Non era facile guadagnarsi la sua attenzione.
    «Come faccio a sapere che non mi stai soltanto prendendo per il culo? Cerchi di ammorbarmi con un sacco di promesse e bellissime parole, e magari alla fine mi lasci nella merda più di quanto io non lo sia già.»
    Scosse il capo e gli puntò addosso uno sguardo truce. Aveva smesso di fidarsi ciecamente della gente soltanto perché faceva promesse che alla fine non era in grado di mantenere.
    Adocchiò soltanto per un attimo la fialetta che aveva in mano prima che sparisse, dandogli forse prova che lei di magia se ne intendeva più di quanto Oliver avesse potuto immaginare all’inizio di quella strana conversazione.
    «E se anche accettassi anche in questo momento, chi mi da la certezza che tu non mi farai sbattere dentro?»
    Gli si avvicinò un po' di più con fare minaccioso, la mascella serrata e la frase soffiata sulla sua pelle.
  11. .

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    D
    i figure di merda ne aveva fatte talmente tante da bastargli per tutta una vita e se inizialmente al solo ripensarci provava almeno un briciolo di vergogna, ad un certo punto aveva sentenziato che non ci sarebbe potuto mai essere un giorno senza cui ne avrebbe fatte, per cui tanto valeva non farci neanche più caso.
    Era giunto al punto in cui non se ne preoccupava neanche, per cui il fatto che non si fosse minimamente preoccupato di scusarsi con quella ragazza la diceva già abbastanza lunga; non che Oliver fosse mai stato particolarmente educato, comunque.
    La guardò storto per tutto il tempo che lei gli rivolse un fintissimo sorriso – di cui non si rese neanche conto, tra l’altro, partito com’era – senza emettere un fiato; piuttosto rimase con la mano sollevata a mezz’aria ed il pezzo di vetro ancora stretto tra le dita. Non si accorse neanche del barista che nel frattempo gli stava praticamente urlando male parole, così come degli sguardi preoccupati e spaventati della gente a fianco nel vederlo con quel pezzo di vetro in mano – neanche si stesse preparando per infilzare la gente. Persino la ragazza davanti a lui era stata tanto intelligente da comprendere che il Jackson in realtà non avesse la minima intenzione di farle del male, al punto che fu proprio lei stessa a togliergli quella cosa di mano – e Oliver non obiettò.
    A lui non fregava proprio un cazzo. Voleva solo un’altra stramaledetta birra.
    «Tu!»
    Le disse contro, arrabbiato, come a farle capire di dovergliela ripagare – come se a farla cadere sui suoi vestiti fosse stata la sconosciuta.
    Cercò il pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni proprio quando si rese conto che l’altra l’aveva già preso per un braccio; la guardò dal basso con la fronte corrugata, confuso, ma non oppose resistenza. Le sue gambe si mossero insieme a quelle della giovane senza una meta precisa, lasciandosi condurre chissà dove.
    Si rese conto di aver avuto le orecchie ovattate per tutto il tempo soltanto quando il rumore della musica della sala principale non venne attutito dalla chiusura della porta del bagno. Oliver si era accorto che quello era un bagno soltanto dopo aver messo a fuoco una tazza.
    Che cazzo ci faceva lì? Non aveva chiesto di essere accompagnato a pisciare, né le aveva fatto intendere che volesse appartarsi insieme a lei in bagno. A Oliver manco piacevano, le ragazze.
    «Ma che vuoi?!»
    Parlava una lingua strana, gli puntava contro il dito. Sembrava arrabbiata.
    Eppure quello ad essere rimasto senza birra era lui. Perché doveva essere lei quella adirata?
    «Eh?!»
    Con la schiena rivolta verso il divisorio, cercò di divincolarsi ma senza riuscire a mettere troppa forza; si sentiva gli arti indeboliti, la testa leggera.
    L’effetto della dose stava svanendo e stava cominciando a scivolare di nuovo nell’oscurità.
    «Levati»
    Gli urlò contro, ricambiando quello sguardo d’odio che per prima lei gli aveva piantato addosso.
    Che fosse una borseggiatrice, forse? Non aveva soldi, ma era intenzionato a tenersi stretta la poca roba che gli era rimasta per il fine settimana.
    Quella valeva per Oliver più di un portafogli pieno di galeoni.
  12. .

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    A
    veva passato una nottata orribile.
    Quella merda che aveva preso aveva fatto effetto troppo tardi, costringendolo a vedere nel tetto su di sé colori che non c’erano e a reggersi più volte al bordo del letto per paura che potesse cadere. Si muoveva tutto, anche quando stava fermo.
    Girava la stanza. La testa. Il mondo.
    Tossì e vomitò tutto voltandosi dall’altra parte.
    Aveva cercato di svegliare qualcuno – i compagni di scuola che, qualche volta, vedeva ancora profondamente addormentati nei rispettivi letti –, solo che lì non c’era nessun’altro, a parte lui e i suoi ricordi.
    Scoppiò a ridere rendendosi conto di essere finito in un’altra situazione del cazzo. Era quasi affogato nel suo vomito, prima che potesse trovare la forza di opporsi.
    L’ultima volta era stata Marte a salvarlo, parecchi anni addietro. Adesso lo aveva fatto da solo.
    Stava migliorando.
    Lasciò dormire tutti - convinto che loro fossero realmente lì con lui - e si fece piccolo piccolo, rannicchiandosi tra le coperte a tremare di freddo.
    Cominciò a piangere senza neanche rendersene conto, senza alcun motivo apparente, fino ad addormentarsi con la guancia attaccata al cuscino bagnato.
    Quando si era svegliato aveva dovuto star bene attento a dove metteva i piedi poiché, a differenza dei tempi in cui aveva frequentato Hogwarts, adesso non aveva più alcun Elfo Domestico a pulire la merda che lasciava per terra, ma doveva fare affidamento unicamente a sé stesso – un po’ com’era solito fare da più o meno quando era nato.
    Ci avrebbe pensato più tardi, al suo ritorno. Ammesso che fosse stato abbastanza sobrio o in forza da riuscirci.
    Aveva passato la mattinata con gli occhi fissi a guardare il vuoto, da vegetale: non aveva saltato il lavoro in quel vicolo puzzolente di Denrise, ma muoversi per il villaggio per raggiungere il suo angoletto non fu affatto facile. Rischiò di inciampare così tante volte che, arrivato all’ora di pranzo, si sorprese di avere ancora il naso integro. E qualche galeone ancora in tasca.
    Sentiva le voci della gente attorno a sé in quel locale nel quale si era infilato senza neanche leggerne il nome sull’insegna, ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo piatto: una fetta di carne piuttosto invitate, per qualsiasi altro essere umano che non fosse un Oliver Jackson strafatto.
    Eppure avrebbe potuto giurare di averla vista muoversi.
    Sorridergli.
    E lui ricambiò quel sorriso.
  13. .

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    Q
    uella di staccare la spina era una scusa bell’e buona, per uno scarto come Oliver che per tutta la sua breve vita non aveva fatto altro che cercare un modo per non esistere, annullarsi al punto da non sentire nient’altro che silenzio.
    Quel silenzio poco a poco era diventato sempre più assordante, al punto da costringerlo a rincarare ancor di più la dose per stare sempre meglio. E più aumentava e sempre peggio era.
    Avrebbe voluto essere diverso. Crescere meglio. Prendere decisioni migliori.
    Rimboccarsi le maniche e sforzarsi per allontanare tutte le cose negative che non avevano fatto altro che avvicinarlo sempre di più a quel baratro che tanto amava; aveva imparato ad essere suo amico, al punto da non temere neanche più l’oscurità che vi vedeva sul fondo.
    Sorrise in direzione del barista quando lo rimproverò per aver spento la sigaretta sulla superficie lignea del bancone; vederlo prendere fuoco gli avrebbe probabilmente ravvivato la serata, almeno avrebbe potuto aggiungere una nota di colore a quelle scale di grigio che caratterizzavano le sue giornate amare.
    Intontito com’era – dai narcotici, dal mal di testa, dalla musica troppo forte – non riuscì neanche a far caso alla ragazza che gli si sedette vicino. Non che in altri contesti – pur essendo sobrio – l’avrebbe notata (a meno che non avesse avuto qualcosa di più interessante da nascondere sotto la gonna rosata).
    Si mosse poi talmente tanto veloce, con il chiaro intento di acciuffare con la mano dominante il bicchiere di birra che aveva ordinato poco prima, da non riuscire neanche a metterlo ben a fuoco: anziché afferrarlo, lo fece scivolare verso di sé – per poi vederlo indirizzarsi sempre più vicino alla sconosciuta.
    Non si era neanche reso conto del fatto che l’intero contenuto di quel bicchiere era effettivamente finito addosso alla povera disgraziata e, senza neanche prendersi la briga di scusarsi per l’accaduto (per il quale si sarebbe professato assolutamente innocente), si voltò di scatto per quantificare i danni.
    E uno dei danni era che, adesso sprovvisto della sua birra, avrebbe dovuto fastidiosamente ordinarne un’altra.
    «Che cazzo»
    Farfugliò a denti stretti, rischiando poi di cadere dallo sgabello - e finire proprio sulla gonna bagnata di lei - a causa dello sbilanciamento in avanti.
    Non una parola in direzione della ragazza, piuttosto avrebbe allungato la mano verso il pavimento per recuperare qualche scheggia più grande di vetro appartenente al bicchiere spaccato. Sollevata, l'avrebbe avvicinata alla sconosciuta.
    «Andato.»
    Distrutto.
    Quel bicchiere e Oliver, invero, avevano un sacco di cose in comune.
  14. .

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    L
    a notte era così tanto simile a lui da non farci neanche più caso. Non aveva mai avuto paura del buio, erano altre le cose che gli mettevano i brividi - tipo moltissime sfaccettature di sé stesso, giusto per fare un esempio.
    Era cresciuto nella notte di una città silenziosa eppure troppo chiassosa; aveva lui stesso riempito di rumore quelle strade, aiutando a produrne sempre di più con la magia che offriva a poveri malcapitati in cambio di quattrini per vivere. Non riusciva a guadagnarci abbastanza per viverci dignitosamente; in realtà non aveva mai creduto che potesse esistere una realtà differente da quella, dove non aveva bisogno di fare "il cattivo" per sopravvivere alla giornata.
    In venticinque anni di esistenza, Oliver non aveva avuto modo di vivere differentemente da come aveva sempre fatto e, sicuro di non aver avuto alcuna possibilità di scelta, alla fine si era adattato.
    Camminava a passo lento, la testa china e le mani in tasca, in una città notturna che oramai conosceva meglio di sé stesso; riconosceva i suoni, le ombre, le persone. Ogni minimo rumore era da lui perfettamente riconducibile a qualcosa di familiare. E se per molti la solitudine di una città mezza addormentata poteva rappresentare un ipotetico pericolo - visto come spesso veniva disegnato nei film -, quella era per il Jackson una realtà abitudinaria e quasi calorosa. Nonostante facesse freddo, tanto freddo.
    Si strinse le spalle nella sua felpona, grande almeno di due taglie in più, e continuò a camminare. Non si fece distrarre neanche da un gruppetto di ragazzini in giro nonostante l'orario, né dalla gente che gli camminava di tanto in tanto di fianco. Finì davanti alla vetrina di un negozio, una volta raggiunto l'altro lato della strada, ma vi passò oltre non intenzionato ad entrare.
    Ben presto si tolse dalla strada, trovando un cunicolo decisamente più somigliante ai panorami che era solito frequentare - quelli dov'era solito lavorare, neanche fossero un accogliente ufficio aziendale.
    Si accese una sigaretta, lasciando che la fiamma dell'accendino gli illuminasse appena buona parte del volto per qualche istante; inspirò e poi buttò tutto fuori rilassando le spalle.
    Una voce, pochi istanti più tardi, ne disturbò un'agognata quiete. Il volto contrito dal fastidio di Oliver fece subito intendere di non avere idea di chi fosse quella donna né, almeno non inizialmente, di quali fossero le sue reali intenzioni. Fece un passo indietro e cercò di metterla meglio a fuoco - le goccioline di pioggia che gli colavano dai ricci appiattiti sulla fronte bagnata.
    «Ci conosciamo?»
    Chiese, anche se non realmente interessato alla questione.
    Fece un altro tiro e prese a giocherellare con la sigaretta che teneva ancora tra indice e medio della mancina.
    Evidentemente la sconosciuta sapeva chi fosse anche solo per reputazione, quella che si era appiccicato addosso e che spesso gli dava anche fastidio. Era diventato il Pusher di fiducia di qualcuno, proprio come qualcuno lo era stato per lui per moltissimo tempo. Alle volte rimpiangeva Romeo, ma non il suo protettore - di cui i segni della sua compagnia li portava ancora ben impressi nella pelle chiara nascosta sotto le vesti larghe.
    «I centri commerciali sovrastano i piccoli negozietti, al punto da obbligarli a chiudere baracca. Che tu ci creda o no succede anche a noi: c'è sempre un nuovo coglione che abbassa i prezzi, che porta robe nuove sul mercato. E tu ci rimani fottuto.»
    Tutto questo per dire che, in effetti, quella giornata sarebbe potuta andare meglio per i suoi affari.
    Corrugò la fronte e finì la sua sigaretta in un lungo inspiro, gettando a terra il mozzicone e pestandolo poi sotto la suola della scarpa da tennis vecchia.
    «Ciò non vuol dire che abbasserò i prezzi, sia chiaro. Per cui, dimmi: cosa vuoi?!»
    Risultando più rude alla fine della frase e osservandola a braccia conserte.
  15. .


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    S
    i sentiva un idiota – anche più di quanto ci si sentisse solitamente, il che era quanto dire. Da scemo, si era messo in testa (buffo, visto che quel “cambiamento” riguardava proprio la sua testa) di dover cambiare qualcosa di sé, come se iniziando da qualcosa di piccolo avrebbe dato il via a qualcosa di via via sempre più grande.
    Aveva letto da qualche parte – tipo una miriade di volte – che chi voleva cambiare cominciava dai capelli e lui l’aveva preso alla lettera. Aveva avuto la medesima chioma castana da tutta la vita, ma non si era mai immaginato di averne di un colore differente – né tantomeno quello che ne era uscito fuori dopo un disperato e stupido tentativo.
    Aveva preso una mistura a poco prezzo in un negozietto fatiscente di Denrise – e già da lì probabilmente avrebbe dovuto immaginarsi il più nefasto degli esiti. Imperterrito, era tornato a lavoro (si era appostato in un vicolo poco trafficato, in modo da non dare troppo nell'occhio) continuando a ripensare al tubetto di colorante che stava su in camera ad attenderlo, meditando sui pro e sui contro.
    Aveva incontrato i vecchi compagni di scuola già parecchie volte negli ultimi tempi, per cui il fatto che potesse disgraziatamente capitare di nuovo nell’immediato futuro era decisamente improbabile: come pro, quindi, poteva considerare che nessuno di loro avrebbe avuto modo di deriderlo, eventualmente. I contro erano un po’ di più: l’idea di doversi abituare ad un “nuovo Oliver” lo spaventava quanto quella di doversi guardare per forza allo specchio e vedere una persona completamente diversa.
    Biondo cenere, aveva preso.
    Peccato che alla fine si rivelò essere un rosa vomito smorto del millequattrocentoventisei andato a male.
    Non poteva neanche dire di avere un casco di banane in testa, sembrava più una palla da bowling color Big Babol spampinata. Imprecò talmente tanto forte, guardandosi allo specchio, che lo udì anche il tossico al piano di sotto – pensando che gli fosse venuto un infarto.
    Non gli aprì neanche, dopo quando andò a bussargli alla porta, dicendo che andava straordinariamente. Cosa aveva sbagliato? L’aveva lasciato troppo in posa? O ci aveva vomitato dentro un Unicorno senza che se ne accorgesse? Tentato di rasarsi a zero per togliersi il pensiero, decise di aspettare almeno due giorni – il tempo che quella bettola riaprisse giusto per andarne a dire quattro alla proprietaria – e vedere come rimediare.
    «Che cazzo ti guardi»
    Effettivamente non era neanche una domanda, quella che Oliver - quasi biascicando con le parole - aveva rivolto alla tipa che, dall'alto, sembrava essersi particolarmente affezionata alla sua visione. Corrugò la fronte, indispettito, riportando la canna alle labbra e facendo un lungo tiro senza smettere di guardare la ragazza.
    «Ah, fanculo»
    E accompagnò la frase con un gesto della mano, come a voler lasciar perdere, e una scrollata di spalle guardando nella direzione opposta.
    Aveva raggiunto il tronco di quell'albero, al limitare della Foresta di Denrise, sicuro che nessun ragazzino di Hidenstone avrebbe avvicinato un fattone scorbutico tinto di rosa che voleva solo essere lasciato in pace, ma evidentemente ci aveva visto storto.
    Un po' com'era sicuro che presto l'avrebbe guardato quella sconosciuta - che poi, facendoci caso, tanto sconosciuta non era. Ci sarebbe arrivato prima o poi.
    Tempo al tempo.
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