Compromessi pericolosi

Louise&Cameron

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  1. Louise De Maris
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    LIBERTÀ
    Stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza.
    Si girò e rigirò tra le tiepide lenzuola, cercando di trovarci un certo conforto e, forse, riposo, dopo aver passato circa la metà della notte totalmente insonne. Forse avrebbe potuto scrivere a Blake… “No! No. No. Toglitelo dalla testa”. Ultimamente si erano sentiti non molto. Lei gli aveva mandato qualche “buongiorno” o qualche “buonanotte”… per fargli capire che lo stava pensando e, sì, lui aveva risposto con i suoi soliti modi. Ma quando aveva provato ad avviare una conversazione per chat aveva solo visualizzato. E poi quell’”Ehi….” … che voleva dire? Aveva assodato nella sua mente che lui non la trovasse brutta, quindi, non poteva essere perché non gli piaceva più. Forse un ritorno di fiamma?
    Sbuffò sonoramente, senza preoccuparsi che potesse svegliare le sue compagne di stanza, e gettò le coperte da un lato: la pelle d’oca le colpì le braccia nude per il freddo improvviso. Era autunno, sì, ma faceva davvero molto fresco. E l’ametrina era una tipa freddolosa. Non voleva più pensare a Blake. Non voleva più tartassare la mente con quei pensieri che non facevano altro che infuocarle il petto di pura gelosia. Finalmente l’aveva capito: lei voleva lui. Desiderava ardentemente le sue attenzioni, anche solo tre puntini in una chat, ma non aveva nemmeno quello. Scosse il capo sonoramente e i capelli le accarezzarono le spalle.
    Non poteva rimanere più in quel letto: lo sapeva, non avrebbe preso sonno e avrebbe passato una mattinata di lezioni infernale. Quindi? Cosa poteva fare? Raggiungere la sala comune e leggere? O studiare? No, era fuori questione. Per quanto adorasse ficcare il naso tra i libri, non avrebbe voluto concentrarsi su frasi e periodi complessi.
    I suoi dubbi furono presto smantellati dal sonoro brontolio del suo stomaco. Si portò una mano sulla pancia, su cui virò anche il suo sguardo. Forse, sarebbe potuta andare in cucina… “Le basi, Louise, le BASI!” le rimproverò la coscienza, ricordandole che c’era un coprifuoco da rispettare.
    Si, vabbè, ma una volta… una sola volta, cosa potrebbe succedere?
    Si convinse ad ascoltare lo stomaco e non il suo cervello. Tipico di una ametrin, alla fine dei conti! Raccolse il proprio telefono e la propria bacchetta, che ficcò entrambi in una tasca dei pantaloni del pigiama, si accoccolò nella sua copertina lilla e, in punta di piedi e trattenendo il respiro, si incamminò nel corridoio che separava le camere fino a giungere alla porta d’ingresso/uscita. Non appena avesse messo una punta di piede fuori dal dormitorio, il cuore cominciò a batterle all’impazzata. Aveva paura? Sì, terribilmente. Ma sarebbe andata fino in fondo in quell’impresa. Aveva raggirato i suoi zii, l’avrebbe fatto anche con un’intera accademia, no? Era un gioco da ragazzi… forse. Ogni passo significava congelamento, perché, come una cretina, aveva dimenticato le proprie pantofole nel dormitorio; perciò, avrebbe alzato il passo, anche perché i corridoi bui le facevano un po' paura. I primi cinque minuti andarono lisci come l’olio, ma si era comunque ritrovata a sobbalzare al minimo rumore. Il legno delle travi, infatti, gonfiandosi, scricchiolava e l’ametrina, che si stava già facendo mille paranoie, girò il capo per guardarsi indietro. La fortuna, tuttavia, non era dalla sua parte. PUM! Cadde a terra con un tonfo e un gridolino, che cercò di mettere a tacere battendosi due mani sulla bocca. Puntò gli occhi sgranati verso la sagoma che le si profilava davanti, in tutta la sua altezza. Cos’era? Un mostro? Un dissennatore? Un vampiro?! Oddio… e se fosse stato Spike?! “Louise, ma che pensi?! Ma ti sei rincoglionita mezza?!”. Se la creatura tanto mitologica avesse dato luce a quell’angolo di corridoio, l’ametrina avrebbe prima di tutto controllato che non fosse un prefetto; poi, si sarebbe accorta di una sciarpa sul pavimento, che, presumendo fosse del ragazzo, rubò velocemente, ficcandosela dietro la schiena. Si alzò velocemente da terra e fece due passi indietro.
    - Se non dici niente ai prefetti, ti ridò indietro la sciarpa – disse velocemente. Meschino da parte sua, ma come poteva fidarsi di quello sconosciuto?





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    Stava succedendo di nuovo.
    Aveva le mani appoggiate sulle spalle di Arya mentre la teneva sott'acqua. Vedeva le bollicine del suo disperato tentativo di respirare, di ricercare aria fresca da introdurre nei polmoni, ma lui sentiva solamente la propria risata sadica ed il feroce desiderio che quella puttana smettesse di respirare e...


    Si alzò di scatto, talmente veloce che un furioso capogiro lo prese alla sprovvista, riempiendogli la vista di puntini neri per pochi ma insopportabili minuti, ma alla fine tutto tornò alla normalità -si fa per dire- ed il mondo smise di girare. Cameron era in un bagno di sudore, la maglietta della tuta incollata al torace come una seconda pelle. Se la sfilò come se scottasse, asciugandocisi il viso. I suoi occhi erano spiritati dal terrore di quello che aveva sognato. Era ovviamente una scena distorta dai suoi sensi di colpa: non aveva realmente ucciso la sorella, non con le proprie mani. In realtà, era stato a guardare, paralizzato, mentre quel docente la spingeva a buttarsi nel lago con qualcosa attaccato alla caviglia perché non tornasse a galla né da viva né da morta, anche se alla fine giustizia era stata fatta. Ma non riusciva a trovare pace per il fatto di non essere stato in grado di fare di più. Meccanicamente, si sollevò in piedi, buttando a lato le coperte fradice.
    Da quando era morta sua sorella, non riusciva a liberarsi degli incubi ed era uno dei motivi per i quali dormiva solamente quand'era davvero stanco, sennò cercava di passare le sue notti sveglio, magari girovagando per il castello, proprio come avrebbe fatto in quel momento. Anche lui a piedi nudi, si diresse fuori dalla sala comune come un fantasma, alla ricerca forse delle cucine. Un bicchiere d'acqua gli avrebbe fatto senz'altro bene.
    Abbandonò la maglia lì, tanto era certo di non trovare nessuno a quell'ora, quindi non si preoccupò di coprire quello sfregio d'ustione sulla schiena, motivo per il quale non si era impegnato mai a nuotare. Né a superare quella sua fobia.
    Si avviò perciò per i corridoi al buio. Ormai ne era talmente tanto abituato, che i suoi occhi riconoscevano ogni corridoio, ogni ostacolo ed ogni crepa del muro o del pavimento anche senza una luce ad indicargli la via.
    Tutto andò bene, ma là fuori iniziava a fare più freddo, quindi si strinse la sciarpa di Arya al collo, beandosi del suo odore, che lui ancora sentiva sulla sottile stoffa. La prendeva sempre, quand'era in crisi.
    Il rumore lo sentì, tuttavia non fece tempo a capire da dove provenisse, che si sentì sbalzato all'indietro mentre qualcosa -o qualcuno- rimbalzava contro il suo petto, cadendo sonoramente. Capì che si trattasse di qualcuno solamente grazie al gridolino molto femminile che lanciò. Era riuscito a non perdere l'equilibrio e restare saldo sulle gambe, tuttavia nell'impatto la sciarpa scivolò a terra, adagiandosi a pochi passi da lei.
    Lumos mormorò alla propria bacchetta, illuminando quel piccolo tratto di corridoio e, insieme, anche il viso di una ragazza che riconobbe a stento, ma almeno sapeva come si chiamasse. Irrigidì tutti i muscoli, uno strisciante panico che iniziava ad avvolgerlo. Vestis sussurrò, facendo apparire attorno al suo corpo, una maglietta perché l'altra non vedesse lo sfregio.
    Comunque, non fu tanto l'urto a farlo imbestialire, per quello se l'era cavata con un sussurrato: ma dove cazzo hai la testa?. No, fu il fatto che la sua sciarpa non era dove l'aveva lasciata. Avrebbe potuto tendere la mano e pretendere che Louise gliela ridesse, se non fosse per la di lei frase, che lo fece irrigidire ancor più di prima. Il sangue gli schizzò al cervello e nonostante il suo proposito di non essere per nulla simile al padre e non alzare mai un dito su una donna, scattò prima che potesse ragionare. Nell'effettivo non la picchiò di sicuro, non sragionava a tal punto... ma il fatto che lui lo stesse minacciando e ricattando usando come oggetto qualcosa che era appartenuto alla persona più importante della sua vita, lo fece arrabbiare e terrorizzare al tempo stesso. Le lunghe dita si avvolsero al colletto del pigiama della ragazzina, mentre si sedeva sui talloni e la tirava verso di se con la forza, poco importava se si sarebbe strozzata con il collo del pigiama, in quel momento non gli importava niente. Il suo sguardo era così terrificante che avrebbe potuto incenerire chiunque lì, sul posto.
    No, tu non hai idea di ciò che hai fatto. Ridammela o finisce male. E non per me. L'ira nella sua voce era trattenuta a stento ma era chiarissima e spaventosa. Nessuno. NESSUNO poteva osare fare una cosa del genere impunito.
    Cameron Cohen


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  3. Louise De Maris
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    Era stato il panico totale a parlare per lei: non voleva finire nei guai. Se quel ragazzo avesse raccontato della propria scappatella ai prefetti, qualcosa sarebbe pure successo… sicuramente, ci sarebbe stata una punizione per lei, ma non era quella a spaventarla. Suo zio aveva orecchie dappertutto e non ci sarebbe voluto molto tempo affinché venisse a sapere di quanto accaduto. E quello che la aspettava dalle sue mani era a dir poco terribilmente spaventoso. Evrard Boyer l’aveva minacciata di ucciderla e lei sapeva che ogni parola che usciva dalla sua bocca avrebbe potuto diventare realtà in un batter d’occhio. Non voleva dargli modo di uscir fuori di testa e provarci. La sera in cui l’aveva torturata, ci era quasi riuscito. Come? Letteralmente soffocandola. Le aveva messo una mano attorno al collo e non si fece problemi a stringere la presa su questo e ad alzarla da terra con un solo braccio: Louise era rimasta con i piedi penzoloni e senz’aria. Era sicura che la pena della forca fosse mille volte meglio.
    Ecco perché gli aveva preso la sciarpa e l’aveva minacciato… se avesse conosciuto, però, il valore di quell’accessorio non si sarebbe mai permessa di compiere un simile atto, anche perché Louise non aveva mai minacciato nessuno in vita sua, se non Amon Spike Giles, e in quel caso, alla fine, le proprie parole erano risultate prive di ogni forza. Non avrebbe mai potuto competere con quel vampiro: avrebbe potuto farle fare quello che voleva. A nulla sarebbero valsi i pianti, le suppliche… lui, come suo zio e gli altri suoi alleati, erano tutti incapaci di provare anche un minuscolo senso di compassione, seppure l’ametrina non l’avrebbe mai voluta vedere in mano a dei mostri come loro.
    Si sarebbe aspettata di tutto da quel ragazzo dai capelli scuri, ma non che allungasse una mano e la prendesse per la collottola della maglia del suo pigiama, strozzandola, nel frattempo, con il bordo del collo del pigiama. Fatto fu i propri occhi, già strabuzzati, si allargarono ancora di più non appena cercò di prendere una boccata d’aria, ma nulla riuscì ad entrare, se non qualcosina che non era abbastanza per i suoi polmoni. La presa sulla pelle della sua gola era forte, proprio come quella del suo rapitore. Non poté nulla contro la perdita di lucidità che seguì: le sue mani abbandonarono l’impugnatura della sciarpa per essere portate su quelle del ragazzo, nel tentativo di staccarle da sé, e l’indumento cadde sul pavimento in pietra, dietro la sua schiena.
    - Lasciami… lasciami…. – sussurrò, velocemente, annaspando. Non c’era più uno studente davanti a lei. C’era suo zio, con il volto contorto dall’odio e dalla rabbia e le labbra serrate in una linea sottile, bianca, per lo sforzo. Non voleva morire, non ora che c’erano così tante speranze, così tanti desideri da avverare, così tante persone da amare e da cui essere amata. Blake, Aaron, James, che per lei era quasi come un padre, Regina… l’ultima arrivata nella sua vita ma che poteva costituire un’amicizia non di poco conto.
    Se l’avesse lasciata andare, Louise avrebbe continuato a cercare aria per i suoi polmoni, ma le sarebbe sembrato che l’ossigeno non stesse ancora arrivando. Il cuore cominciò a batterle all’impazzata contro la cassa toracica, rimbombando nelle proprie orecchie come un martello. Improvvisamente, le scoppiò un forte dolore al petto, seguito da profonde vertigini che le fecero perdere l’equilibrio e cadere a terra, dopo aver provato, invano, di cercare un qualche appoggio. Tutto il suo corpo, invece, cominciò ad essere scosso da tremori impossibili da calmare e sudorazione fredda… Era in preda ad un attacco di panico, proprio ciò che avrebbe voluto evitare.





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    Se solo Louise avesse ragionato un po' più a fondo, avrebbe capito che avvisare i prefetti di averla vista nel corridoio di notte, sarebbe stato come confessare di aver violato lui stesso il coprifuoco e Cam non poteva permettersi di prendersi un richiamo per quel motivo. Eppure no, non ci aveva pensato ed aveva ben deciso di minacciarlo. Ma non una minaccia normale, aveva usato una delle poche cose che realmente contava per lui e ciò lo aveva mandato in bestia abbastanza da farlo reagire così, senza che gli importasse di essersi trovato davanti una ragazza e non qualcuno della sua stazza. Non la picchiò comunque, per quanto le avesse tolto gran parte dell'aria respirabile e la vide boccheggiare visibilmente. Non sapeva se fosse effettivamente per la mancanza d'aria o per la paura, ma si accigliò.
    La sciarpa cadde dalla sua presa per consentirle di afferrargli le mani nel tentativo di chiedere un po' di pietà. Per quanto fosse adirato, Cameron non era un mostro né aveva intenzione di avere una stupida ragazzina che non sapeva farsi i cazzi suoi sulla coscienza, quindi sbuffò, assecondandola e spingendola all'indietro, mollando la presa dal suo pigiama. Il suo scopo era stato raggiunto e poté aggirarla a raccogliere la sua adorata sciarpa senza più preoccuparsi di Louise. Aveva tutta l'intenzione di proseguire verso le cucine, ignorandola per il resto della sua vita.
    Certo, era un bel piano e quella stronza avrebbe fatto meglio a stare zitta se non avesse voluto altri guai, ma non sempre tutto va come noi vogliamo.
    Stava andando per la sua strada, quando un nuovo tonfo lo fece voltare. Ma era mai possibile che quella ragazza non riuscisse a stare in piedi per più di cinque minuti senza sbattere il culo a terra?
    Ma persino in quella penombra malamente rischiarata dal suo Lumos ancora attivo, Cameron riconobbe i segni di un attacco di panico. Non era uno psicologo, uno psichiatra né aveva un qualche attestato che dimostrasse le sue conoscenze in merito, semplicemente ne soffriva anche lui da anni.
    Merda pensò, sentendosi già i palmi sudati. Forse era il fatto che ne soffrisse anche lui e sapesse esattamente cosa potesse significare e quanto fosse frustrante ed invalidante, ma non se la sentì più di ignorarla e restò bloccato al suo posto per non più di una manciata di secondi, prima di avviarsi verso la ragazza ed inginocchiarsi davanti a lei come aveva fatto in precedenza, anche se stavolta non si sognò di aggredirla.
    Okay, okay... calmati e respira. Calmati e respira le sussurrò, un'intonazione molto più bassa e dolce di quella che era solito mettere in piedi. In un gesto d'impulso, la prese per le spalle e la attirò a sé, facendole posare la testa contro il suo petto, facendole sentire così il proprio cuore che batteva calmo. O almeno, ci provava. Gli sembrava una situazione completamente surreale: lui che abbracciava una ragazzina con la quale non aveva praticamente mai parlato e per di più in un corridoio quasi totalmente buio. Ma aveva perfettamente presente la sensazione di terrore quando succedeva a lui. I mostri che lo circondava, la costante paura di una catastrofe, compresa la propria morte. Era molto difficile che rimanesse impassibile di fronte ad un attacco di panico. In un atto di nervosismo, prese ad accarezzarle i capelli sperando che servisse a qualcosa. Quando Liz lo faceva con lui, funzionava sempre.
    Cameron Cohen


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    Non vide affatto la sciarpa essere raccolta dalle mani di quel ragazzo, ma avverti comunque la leggera brezza sui pantaloni del pigiama, provocata dal cadere dell’indumento sul pavimento e, poi, dal movimento proprio del corpo di Cameron. Da quell’istante non si rese affatto conto di nulla. Le sembrava di essere stata murata viva o, meglio, sotterrata in un punto specifico, dal quale avrebbe potuto soltanto udire in lontananza la voce di chi le era vicina, senza effettivamente far qualcosa per rispondere a questa. In quel momento, però, vedeva solo il volto di quel bastardo di suo zio e nient’altro: il suo sorriso ferino che metteva in mostra i denti dritti e bianchissimi; gli occhi malvagi, dalle iridi scure che parevano pozze profonde dalle quali, una volta inabissatici, non era permesso più risalire per uscire allo scoperto e sentir sulla pelle il calore della luce del sole, della libertà; le mani affusolate, morbide, che non mostravano tracce di calli, che stringevano tra le dita ora una cintura di cuoio, ora un bacchetta. Puntualmente, il cervello di Louise entrava in un loop di ricordi misti, quasi allucinatori, e le veniva meno ogni facoltà di distinguere l’invenzione dalla realtà. Era intrappolata nella sua stessa mente, ma, soprattutto, nelle sue stesse paure. E per quanto Aaron stesse lavorando sodo con lei, l’ametrina non riusciva ancora a mettere a tacere i traumi che, ormai, l’accompagnavano da qualche anno. Era quasi come se la ragazzina fosse una foresta, sulla quale era stato appiccato un grosso e vasto incendio, difficile da domare.
    Aveva, infine, chiuso gli occhi, nella speranza di vedere il meno possibile: se proprio fosse arrivata la sua ora, avrebbe voluto spirare con l’immagine dei suoi genitori che emergeva nella fitta oscurità delle palpebre calate. Udì una voce… le intimava di calmarsi… ma era lontana davvero e lei non riusciva a riconoscerla… non era quella di Alton, né quella di Blake, tantomeno quella di Aaron… chi- la litania di nomi fu presto interrotta dalla presa che si strinse sui propri avambracci, dai quali prima cercò di indietreggiare, quasi che ne fosse rimasta scottata, e, poi, di divincolarsi con impeto, quando le fu chiaro che non sarebbe riuscita a sfuggirgli.
    - NO! NON MI TOCCARE!
    Le sue urla riecheggiarono nel corridoio: sarebbe stato un miracolo se nessuno l’avesse udita e fosse accorso, scoprendo i due sfidanti del coprifuoco.
    Fu trascinata contro qualcosa, contro la sua volontà: si aspettava che sarebbe stata picchiata a sangue di lì a poco, invece, sentì distintamente il tonfo di colpi, più precisamente di battiti del cuore. Non poteva certo essere suo zio… no, non era lui… Evrard Boyer non l’avrebbe mai sfiorata per un atto di gentilezza, figuriamoci per accarezzarle i capelli. Il movimento di quelle dita era così assurdamente delicato. Il cuore cominciò a rallentare, la sua testa riprese lentamente lucidità e le sue ciglia si bagnarono di lacrime, che tentò con tutte le sue forze di non far cadere. Non voleva singhiozzare, non dopo essersi resa conto di aver avuto un attacco di panico di fronte a uno sconosciuto. Non voleva mostrarsi ancor più vulnerabile di quanto lo fosse già. Eppure, fino a quando la nebbia che le impregnava il cervello non fu scomparsa, continuò a rimanere accoccolata tra quelle braccia. Era affamata d’affetto.
    Sentì la guancia esser solleticata da qualcosa: aprì leggermente le palpebre per sbirciare e, non appena vide il tessuto nero e caldo della sciarpa, tutto le tornò improvvisamente alla mente. Si ritrasse d’improvviso, con occhi sgranati, e fece qualche passo indietro, cercando di mettere più distanza possibile tra lei e lo sconosciuto.




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    Cameron non era un mostro ed aveva capito quanto l'altra stesse soffrendo per quell'attacco. Poteva solo immaginare i suoi mostri, le immagini che le passavano davanti agli occhi. Ognuno viveva quel momento a modo suo e lui poteva solamente provare a calmarla, anche se sembrava una tigre in gabbia che lottava con le unghie e con i denti per liberarsi dalla sua presa, urlando addirittura. Il ragazzo fu sul punto di assecondarla e mollare la presa, lasciandola cadere di culo a terra, ma per qualche ragione non lo fece. Anzi, la attirò a sé, facendole posare la testa sul suo petto a contatto del cuore che batteva. In una diversa occasione le avrebbe sibilato che fosse una deficiente ad urlare così, soprattutto perché ogni piccolo sussurro era amplificato dal silenzio della notte. Ma non era un sé, non sarebbe servito a niente se non ad attirare ulteriormente l'attenzione di qualcuno. Iniziò quindi ad accarezzarle i capelli, non badando al suo dimenarsi, sperando si calmasse in fretta. Lo faceva anche per un suo tornaconto, non voleva certo essere beccato in quel corridoio. Di notte. Con una ragazza.
    Man mano che i secondi passavano, sembrava che la ragazzina si fosse calmata, quindi Cam rilassò i muscoli ed abbassò la guardia, tenendo comunque tra le braccia Louise, aspettando che anche il suo cuore ed il suo respiro tornassero regolari. Quindi quando si spinse all'indietro, non era preparato e le sue braccia si slegarono dalla sua schiena, ricadendo lungo i fianchi, lasciandola finalmente andare. Gli occhi di lei erano velati da una leggera patina che, nonostante nel buio potesse anche sembrare solamente un'illusione, il dioptase l'avrebbe riconosciuta tra mille. Era la stessa patina che velava i suoi.
    Hai finito? Tornò ad essere burbero ma era più un tentativo di ripristinare la sua maschera da duro. Se Louise pensava di essersi mostrata fin troppo vulnerabile, lo stesso si poteva tranquillamente dire del ragazzo. Aveva abbassato le difese per stringere lei e calmarla. Ma non poteva permettersi un altro passo.
    Per l'ennesima volta, si sedette sui talloni e la guardò con i grandi occhi castani colmi di curiosità. Cos'è che ti spaventa così tanto, eh? Chiese, anche se aveva il sospetto che sarebbe stata una domanda inutile da fare, dubitava che lei avrebbe voluto rispondere con facilità ad uno sconosciuto. Ma in fin dei conti, che cosa avrebbe avuto da perdere? O forse avrebbe dovuto fare lui la prima mossa per indurla a fidarsi? Mia avrebbe certamente saputo come comportarsi in casi come quello e si maledisse per non averla al suo fianco in quel momento.
    A me terrorizza l'acqua iniziò allora, quasi dandosi dello stupido per aver svelato una parte tanto sensibile di lui. Ma che cosa avrebbe potuto farne, di quella notizia? Annegarlo? Ridicolizzarlo con tutti? Molto probabile, ma in quel caso avrebbe ricambiato la cortesia senza troppi rimorsi.
    Te lo giuro, solo ad avvicinarmi do di matto. Mi sono immerso in una piscina solo una volta nella mia vita. Mai più! Provò a buttarla nell'ironia, ricordando la festa di fine anno di qualche anno prima, rabbrividendo. Quella piscina l'aveva odiata con ogni fibra del suo essere e sperava che alla Preside non venissero più in mente trovate così stupide. Ti voglio dare anche un consiglio, oggi mi sento generoso. Fece una pausa. Quando ti succede, pensa ardentemente alla persona alla quale più tieni al mondo. Non importa chi sia. O anche un animale. L'importante è che ci pensi così tanto forte da sconfiggere tutti i tuoi mostri. Beh, aveva implicitamente rivelato che ne sapeva fin troppo, che anche lui era soggetto a quella nevrosi orribile.
    Cameron Cohen


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  7. Louise De Maris
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    Gli occhi dell’ametrina erano velati di ricordi, che si fecero presenza per molto, forse troppo, tempo. Il dioptase avrebbe potuto notare come le rughe attorno a quegli organi visivi si increspassero e la luce in essi si fosse affievolita sempre più, fino a morire. Seguì un guizzo di leggera consapevolezza, ancora travolta per parte, però, dalla confusione derivata dalla paura che ancora le artigliava lo stomaco. Le sembrava come se le sue budella fossero intrecciate così forte da darle solo un forte sentore di nausea. Avrebbe potuto vomitare presto sul pavimento, ma cercò di trattenere giù qualunque cosa avesse in corpo. Odiava vomitare: non era una vera e propria fobia, eppure non riusciva ad affrontare quell’eventualità con naturalezza, perché le balenava feroce il ricordo di quel giorno in cui si era ritrovata con la testa perennemente a ridosso della tazza del wc e, all’ingresso di sua zia, sollevata per i capelli per aver espulso il cibo che era stato nel suo stomaco ai piedi della megera. La sofferenza che ne era seguita suscitava ancora incubi notturni di non poco conto: si svegliava d’improvviso, boccheggiando voracemente alla ricerca d’aria che entrasse nei suoi polmoni contratti, con la fronte imperlata di sudore e il corpo attorcigliato alle lenzuola che, in quei casi, avrebbe preferito stracciare con furore e rabbia. Le notti che seguivano, poi, cercava di non addormentarsi, timorosa di sognare.
    Deglutì. Aveva la bocca secca. Era urgente il bisogno di un sorso d’acqua. Virò lo sguardo spaventato verso colui che non sapeva si chiamasse Cameron. Louise rimase immobile, seppur non si sentisse davvero al sicuro, anche se era a qualche metro di distanza dallo studente. Il tono brusco di quella domanda che fendette il silenzio bastò per farla sussultare. Rendendosi conto del movimento appena compiuto, della vulnerabilità che aveva esposto su un vassoio d’argento, Louise si morse il labbro inferiore, rivolgendo di sottecchi l’attenzione verso il dioptase. Avrebbe voluto sprofondare fino al centro della terra, rinchiudersi in una bolla e non uscire mai più di lì.
    Non provò neanche a distogliere lo sguardo dai movimenti di quel corpo, mentre lo studente si accovacciava, terminando, con sollievo della diciottenne, di sovrastarla con la sua altezza. Con un pizzico di coraggio in più, rifletté la sua vista negli occhi castagnini del ragazzo. Si aspettava che la attaccasse verbalmente, che le lanciasse le più volgari e offensive parole, invece, con grande sorpresa di Louise, si limitò a porle quella domanda curiosa. La ragazzina non gli avrebbe mai risposto, perché parlare avrebbe significato dire più di quanto gli altri potessero sapere. E lei non voleva coinvolgere nessun altro in tutto il casino che era la sua vita: era già tanto che c’erano di mezzo i Barnes. Più volte aveva pensato che, se avesse avuto una giratempo, avrebbe fatto in modo che i due non la conoscessero affatto… il bene che lei voleva a Blake era così immenso che avrebbe preferito evitargli preoccupazioni sul proprio conto… si sentiva un grande peso per lui, per entrambi, per tutti. Ma una piccola speranza baluginava nel suo cuore, scacciando via ogni desiderio di morte. Ne aveva covato parecchio in passato, ma ora avvertiva chiara una luce che si librava nell’oscurità, divorandola.
    Ascoltò la confessione del dioptase… perché lo stava facendo? Poi proprio con lei che l’aveva minacciato qualche istante prima? Perché tutti erano così maledettamente gentili con lei?! Non avrebbe dovuto infuriarsi, lo sapeva… ma si vergognava così tanto delle sue debolezze, del fatto che tutti, ormai, l’avessero vista nella condizione di deperimento fisico e mentale, che non poteva fare a meno di sentire il sangue ribollirle nelle vene. Ma trattenne qualsiasi brutta risposta la sua bocca avrebbe potuto lanciare, anche se quello lì se lo meritava per il semplice fatto di averle messo le mani addosso.
    Le labbra dell’ametrina si strinsero in una linea sottile, mentre il suo sguardo si induriva per poi addolcirsi nuovamente al consiglio non richiesto, ma necessario, che rivolse a Louise.
    Lo guardo, immobile. Cosa avrebbe dovuto fare? Non poteva e non voleva aprirsi riguardo alla propria storia di vita che la segnava profondamente fino a provocarle quegli attacchi di panico.
    Annuì leggermente, ma non proferì parola. Nello sguardo di Louise non vagava alcun sentimento di giudizio nei confronti di Cameron: lei ne aveva davvero tante di paure, anche bizzarre, e non avrebbe mai potuto, senza sentirsi in colpa, etichettare un'altra persona per il semplice fatto di averne.




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    Non è che Cameron non la capisse, Louise. Anche suo padre, improvvisamente, era diventato violento con lui ed il resto della sua famiglia. Era stato sempre lui a ridurre sua madre -la sua matrigna, anzi- in una sedia a rotelle. Era stato lui a provocare tutte le cose brutte che gli erano successe negli anni, esclusa solamente la morte della sorella.
    Eppure... no, riusciva a capire anche il perché non afferrava la mano figurata che lui le stava porgendo. Nemmeno lui aveva voluto nessun aiuto, almeno finché non era arrivato Olwen e con la sua gentilezza, aveva abbattuto quella barriera che si era costruito da solo per escludere chiunque dalla propria vita.
    Non aveva un grado troppo alto di empatia, eppure un po' gli dispiaceva vedere qualcuno nella sua stessa situazione che non si faceva aiutare. Gli dispiaceva proprio perché sapeva cosa significasse. Chiuse gli occhi, rimanendo accucciato a poca distanza da lei. Un po' lei gli ricordava Arya, quando cercava di scappare dalla furia del padre, nascondendosi tra le braccia di Cameron nella cameretta che condividevano.
    Quando spalancò nuovamente le iridi, si scoprì ad osservarla meglio. La vita sembrava aver abbandonato il suo sguardo, proprio com'era successo a lui quando aveva visto sua sorella annegare senza poter far nulla per lei.
    Ti senti bene? Le domandò, scostandosi appena, forse per lasciarle più aria. Non sembrava avere una bella cera ed era evidente anche nella penombra e dal suo silenzio. Non glielo aveva detto esplicitamente, ma non ci voleva chissà che qualifica per capirlo.
    Non ti volevo spaventare affermò poi, sollevando le mani tra loro come in segno di pace. Non aveva mai usato la violenza su una donna e non avrebbe voluto iniziare in quel momento, né avrebbe voluto afferrarla così in precedenza... ma la sciarpa di sua sorella, era la tra le cose più importanti che possedesse e poco importava che fosse estate. Lui non se ne separava quasi mai.
    Rimase a lungo in attesa di una sua risposta, alla fine del proprio discorso. Non avrebbe saputo cos'altro aggiungere, era troppo difficile anche solo pensare di avere dei sentimenti, figurarsi parlarne.
    Quando lei annuì, si alzò con un sonoro sbuffo che risuonò nel silenzio del corridoio, rimbalzando da un muro all'altro. La guardò dall'alto.
    Forse dovresti mangiare qualcosa, hai una cera pessima. A dirla tutta, fai proprio schifo. Il fatto era che non pronunciò quella frase come un insulto ma come un semplice dato di fatto. Non era brutta, Louise, semplicemente i pensieri negativi non la valorizzavano. La superò, avvolgendosi ancor più la sciarpa al collo.
    Non si fermò nemmeno per assicurarsi che lo stesse seguendo, non gli interessava... se voleva starsene sola al buio con i suoi mostri, beh, tanto peggio per lei. Cam aveva fatto abbastanza il suo dovere da cittadino per bene, non aveva più alcuna responsabilità.
    E... se osi raccontare a qualcuno quello che ti ho detto, nemmeno il tuo amichetto riuscirà ad aiutarti. Una minaccia non troppo velata, prima di sparire nel buio. Anche se, inconsapevolmente, aveva rallentato il passo quasi per permetterle di raggiungerlo. Si diresse, dunque, verso le cucine.
    Cameron Cohen


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  9. Louise De Maris
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    LIBERTÀ
    Stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza.
    Non voleva spaventarmi…” ripeté ironica Louise nella sua testolina bionda. Come poteva non volerla spaventare se già l’aveva fatto in precedenza, afferrandola per la collottola in quel modo e provocandole un attacco di panico?! Era paradossale sentire quelle parole lasciare le labbra di Cameron Cohen, almeno per quando lo conosceva (o, meglio, non conosceva).
    E, poi, già viveva nelle sue costanti paranoie sul proprio aspetto fisico… sentirsi dire che faceva proprio schifo era una ulteriore conferma dei pensieri di disgusto su sé stessa e di quelli per cui non sarebbe mai potuta piacere a nessuno, tantomeno a uno gnomo.
    Il volto contorto dalla frustrazione, derivata da un sentimento di impotenza per tutta quella situazione che si era venuta a creare, si passò bruscamente una mano tra i capelli, sfiorando, per un momento, la pelle della sua fronte sudaticcia. Si bloccò per un secondo: doveva fare proprio schifo… forse era peggio di quel che pensava. Sbuffò sonoramente; lo scuotimento d’animo era ancora presente, seppur in misura minore. Strinse al petto le gambe con maggior forza, piantandosi sul pavimento con tutta la sua volontà. Non si sarebbe mossa di lì, neanche se l’avessero pagata con lingotti d’oro. Non gli avrebbe riferito che non sarebbe mai riuscita a mettere qualcosa nello stomaco, non in quello stato, poiché l’avrebbe rimesso all’istante. Non avrebbe seguito lo studente, poiché, dopotutto, non sapeva se fosse in grado di compiere azioni a dir poco peggiori di quella che aveva compiuto poco prima. Era la decisione migliore, la più saggia. E fu contenta di star seguendo quella linea di pensiero non appena Cameron si permise di minacciarla senza troppi giri di parole.
    - Mi stai minacciando? – domandò retoricamente, socchiudendo gli occhi.
    - E, dimmi, cosa avresti intenzione di fare…? -
    Un terreno pericoloso quello, ma non ne valeva la pena? “Sei una cretina! Secondo te, dovrebbe venirti a dire i suoi piani da assassino seriale?!”.





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    Cameron stava davvero cercando di essere al suo meglio come gli aveva insegnato il piccolo scricciolo biondo di nome Mia Freeman, ma Louise stava realmente mettendo a dura prova la sua pazienza. A differenza di ciò che lei pensava, non l'avrebbe picchiata o peggio stuprata, stava solamente provando ad essere gentile. Socchiuse gli occhi, osservando costernato i suoi movimenti. Non l'avrebbe obbligata a mangiare per non svenire lì in quel punto, né le avrebbe caldamente consigliato di tornare al riparo della sua sala comune. Non la conosceva, non erano amici e non gli interessava la sorte di quella ragazzina... l'unica cosa che lo aveva fermato dall'agire già abbandonandola al suo destino, era il fatto che condividesse gli stessi colori della sua ex ragazza.
    Sì, ti sto minacciando ammise senza remore, stringendosi nelle spalle ed allontanandosi di qualche passo. Non aveva nessun problema ad ammettere l'ovvio, soprattutto perché sarebbe impazzito se quella storia fosse venuta fuori... sua sorella era il ricordo più prezioso che possedeva e non lo avrebbe fatto gettare tra le fauci di studenti troppo immaturi e superficiali per comprendere appieno il suo dolore.
    Niente. Una risposta che entrava in discordanza con la sua precedente, ma era così... Cameron era un vulcano di imprevedibilità sia nelle azioni che nelle parole. Non ti voglio fare niente... perché so che quanto successo stasera, non uscirà da qui annunciò, abbracciando tutto il corridoio, metaforicamente. Perché so anche che tu non vuoi che tutta la scuola venga a sapere del tuo piccolo incidente sottolineò quelle parole, riferendosi al suo attacco di panico. Anche lui ne soffriva, perciò la capiva perfettamente e non avrebbe voluto che quel segreto fosse di dominio pubblico -lei non glielo aveva detto esplicitamente, ma dubitava che molti ne fossero a conoscenza-, tuttavia non avrebbe esitato, se Louise avesse violato quel tacito patto.
    Va bene, se vuoi restare là a terra tutta la notte, sono esclusivamente fatti tuoi. Io ho di meglio da fare. Quindi si allontanò lungo il corridoio, sollevando una mano a mo' di saluto senza guardarla e non si sarebbe più voltato a meno che non fosse stata lei ad attirare la sua attenzione.
    Cameron Cohen


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