Posts written by Cassian Dorian Black

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    funebre- il tentativo di avvisare un amico di un panda vagante e poi il tonfo. Quello era stato il primo peccato, il secondo arrivò subito dopo nel tentativo di fingere che non si fosse fatta niente, ignorando le fitte acute che provenivano dall’articolazione. Il terzo fu di perdersi per un attimo soltanto in quello sguardo oscuro, in quel ritorno alle terme della riserva delle creature. Tornare alla realtà solo perché O’Connor le aveva sventolato davanti una mano neanche fosse stata un toro a seguire il movimento del drappo rosso sventolato davanti agli occhi fu una caduta di stile. «Ci sono, ci sono», mugugnò, servendosi del suo braccio per sollevarsi e tentare di rimettersi in piedi. «Lo sai che so ancora essere quella bambina petulante, vero?» Lo minacciò, con l’opale che sembrava quasi marcare il territorio con il suo confratello che li superò per raggiungere la Murphy che aveva preso letteralmente il volo. Era tutto così strano, come se si stesse perdendo pezzi di vitale importanza di un puzzle in cui forse compariva anche lei in un frammento. Si chinò per slacciare le stringhe dei pattini ma un’ennesima fitta di dolore la portò a smollare e a girarsi, a favor di ginocchio, con la gamba protesa su quelle di O’Connor. «Per favore», il labbro inferiore all’infuori, gli occhioni da cucciolo bastonato a cui mai aveva saputo dire di no. Okay, un’eccezione c’era stata ma così lontana nel passato e così seppellita in profondità che non aveva alcuna intenzione di scomodarne la memoria. Una mano poi lo fermò nel tentativo di infilarle le calzature, terminando il movimento con un principio di massaggio sul ginocchio. «Dammi qualche minuto», lo implorò, mugugnando qualcosa di incomprensibile persino a se stessa. Solo quando si sentì meglio, più sicura su quelle scarpe che aveva scelto inizialmente perché in perfetta combine con il suo abito, lasciò che Brooks indossasse le sue per seguirlo poi verso un posto tranquillo. «Alla faccia del posto tranquillo», mormorò, pensando a luoghi dove potersi infrattare e dare vita ai sogni romantici di una lei adolescente, ma lì in quell’incidente in corso non riusciva proprio a scostare lo sguardo. Kwon aveva seguito Erin, che aveva seguito Evans, che aveva seguito la Lynch che era stata aggredita da Cohen. Poi Evans aveva tentato di defilarsi salvo essere sbilanciato da una spallata tutt’altro che involontaria di Miller -«Vuol farci perdere punti anche a Natale?» fu il commento delle priorità della Davidson, con tanto di sollevamento occhi- che era andato da Lynch, che è stata baciata da Cohen che al mercato mio padre comprò. Era un vero banchetto su cui fiondarsi in merito ai gossip da contribuir a far circolare nel castello, così come Fitzgerald O’Connor che rifilava un due di picche al fratello -shame per la player- per seguire la Lestrange. L’assenza di Mc Callister iniziava a farsi sentire. Zoppicò fino ad una zona che le permettesse di vedere meglio -ma soprattutto di udire- ciò che sarebbe forse successo da lì a poco, soffocando una risatina al gesto di stizza di Deva per il tocco di suo cognato (bleah). «Ehi B, quando finisci vieni un po’ qui», non sapeva se avrebbe voluto parlare con Zuleyka e gli altri, ma ad ogni modo non voleva farsi sfuggire la possibilità di prendere in giro il suo gemello idiota.
    Amalea Davidson

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    Fondamentalmente rompe il bip a Brooks.
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    Se le parole avessero potuto uccidere, Amalea sarebbe stata colei che aveva sparato dritto al cuore del sudcoreano, e lui quello che aveva risposto con altrettanta prontezza. Otto parole avevano cambiato la storia che aveva ricamato su di lui, in poche battute: un figlio amato, desiderato, prezioso. Il ghiaccio che aveva permeato quelle poche battute era impossibile da non avvertire, molto più intenso della pioggia di novembre che li avrebbe colpiti in pieno se non ci fossero state le cupole magiche a proteggerli. La bocca improvvisamente asciutta, le iridi ad ancorarsi a quegli occhi dalla forma così poco diffusa su quell’isola: due pozze nere in cui si sarebbe persa più volte. Lì, quel buco nero in cui si erano trasformate, riusciva a scorgere solo qualcosa di insoluto e doloroso. Non insistette oltre, non chiese spiegazioni o pretese di bruciare tappe così velocemente. Sperava ci sarebbe stato del tempo, in futuro, per lasciarsi andare in confessioni altre che non ricadessero nella sfera meramente adolescenziale. Quello era materiale incandescente e distruttivo pari alla colata di lava di un vulcano semidormiente. Non poteva risvegliarlo proprio ora. Batté in ritirata, tirandosi dietro persino l’uscita a domanda sul piacere di conoscerlo. Non poteva certo dirgli che per lei lo fosse, non se non voleva risultare stramba più del solito.
    Lo dimostrò comunque dopo, seguendolo sotto la pioggia, rallentandolo malamente nella fuga e recuperando punti nel tentativo di affogarlo. Totalmente all’oscuro degli altri pensieri che animavano il ragazzo, Amalea si limitava a galleggiare, dandogli fastidio nello stesso modo che avrebbe fatto a cinque anni, non così lontana dalla riva, con altri bambini della sua età. Non sapeva che lui vedeva nello scontro involontario dei loro corpi qualcosa di sensuale, una scintilla che avrebbe potuto accendere la lussuria e la brama oscura di lui. Le sfuggì, nel più vile dei modi, allontanandosi sott’acqua e riemergendo come uno Smeagol qualunque. Con un po’ di carne e capelli in più. «A base vegetariana?» Si risparmiò eventuali riferimenti a piatti d’argento luccicanti, puliti un po’ con olio di gomito ed un paio di incantesimi di pulizia. Sollevò gli occhi alla sua provocazione, scuotendo la testa ma senza avere l’effetto swish che desiderava: la chioma era completamente attaccata al cranio, complice il periodo trascorso sott’acqua. Ne copiò la tecnica, immergendosi solo per comparire davanti a lui, le labbra a sfiorare il velo leggermente torbido e caldo delle terme. «Che tu non sia affogato non lo trovi un motivo abbastanza valido?» La mano uscì dall’acqua, il medio ed il pollice uniti fino all’altezza della fronte di lui. Lasciò andare la falange più lunga e, qualora non si fosse scostato, l’avrebbe colpito nel bel mezzo del solco tra le sopracciglia scure. Il suono martellante della suoneria del suo magifonino raggiunse i due, nonostante avesse lasciato il manufatto di alta magingegneria al sicuro nel suo zaino sotto il tavolo da pic-nic. Non si sarebbe curata di chi fosse a cercarla se non fosse stata per quella canzone strumentale di un brano di una rock band babbana che aveva associato al contatto di Brooklyn O’Connor, il suo ragazzo. «Devo andare, ma il nostro gioco di vendette non finisce mica qui, Giù-yo». Un sorriso prima di voltargli le spalle, un paio di bracciate a guadagnare l’uscita e poi morire di freddo nel breve tragitto che la divideva dalle panche magiche, con il pensiero rassicurante di essere riuscita ad ottenere un pigro sorriso di Kwon in meno di un’ora. Non osava immaginare cosa avrebbe potuto ottenere trascorrendo maggior tempo insieme.
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    Ensor le metteva ansia. Lo sguardo gelido come la temperatura che si respirava nell'aula, la perenne sensazione di essere condannata a morte per un sospiro di troppo o per uno starnuto che non si è riusciti a neutralizzare. Un'ora nell'aula di difesa equivaleva a cinque trascorse sul ciglio di una superstrada, bendata, a giocare a mosca cieca. Per fortuna che non sarebbe stata da sola, il suo ponte aveva già dato appuntamento alla fine delle scale. Non era poi così lontana, giusto un paio di rampe c'erano a dividere l'aula di Difesa e la biblioteca, una scelta infelice visto che lasciare il tepore che si trovava in sala lettura sarebbe stato un suicidio in condizioni normali per una giornata invernale come quella, figurarsi quando di mezzo c'era quell'aula malvagiamente modificata con la magia.
    Il sorriso di Brooks fu impossibile da non replicare sul suo viso, ancor di più quando vide un tortino cioccolatoso essere sventolato sotto il naso. Era già pronta ad imbrattarsi di crema, briciole e glassa ma lui fu più lesto nel rubarle un bacio. «Te ne avrei dati altri cento e non solo per questo», chiarì, affondando gli incisivi nel dolcetto morbido, lasciandosi andare in un piccolo gemito di gusto. Con il dorso della mano si ripulì delle briciole mentre le tasche di Brooks rivelavano essere simili a quelle di un prestigiatore babbano. Un modellino questa volta di una scopa volante in miniatura sospesa su un piccolo piedistallo di marmo. Gli ripassò il dolce, lasciandogli intendere anche di poterlo finire lui, mentre studiava il pensiero del padre di lui. «Se tuo padre non avesse sposato tuo padre lo avrei fatto io», dichiarò, sollevando l'oggetto fino ad intravedere una scritta sotto la piattaforma. D-A-N-N-A-Z-I-O-N-E non le diceva di essere innamorato di lei a chiare lettere ma lo lasciava intendere con quelle frasi che aveva iniziato a custodire gelosamente. Mise al sicuro il dono e poi gli si buttò addosso, scontrandosi con il muro ma poco importava mentre lo baciava. Un bacio lungo, pieno e che aveva sollevato qualche fischio tra i passanti. Diverse tonalità di rosso colorarono le guance, non era una di quelle che amava le pubbliche dimostrazioni d'affetto ma in quel caso due erano le soluzioni o assaltarlo o rivelargli i suoi sentimenti e per la seconda non era ancora pronta a vuotare il sacco. «Oh, ehm, sì, freddo» non si era resa conto di aver perso un po' di colore recentemente acquisito mentre il pensiero sfiorava il fatto che in qualche modo erano ancora restii. E se lui non la voleva davvero? E se stava con lei solo perché al momento non aveva di meglio? E se... si riscosse davanti la salamandra con il suo nome pronunciato veloce -«Amalea Davidson»- per non perdere il suo turno d'ingresso. Per fortuna che aveva anche il mantello di Brooks oltre al suo, perché le nuvolette che esalavano dalla sua bocca erano dense. «Non sapevo che la crisi energetica fosse arrivata anche qui». In realtà disse un «salve, professor Ensor», seguendo O'Connor al posto ma sventolando una mano -con non troppa enfasi come avrebbe fatto altrove- verso Joo-Huyk.
    Sentiva gli interventi degli altri, con le spalle irrigidite -aveva ridato il mantello al fidanzato perché non voleva avere sulla coscienza una morte per assideramento- e lo sguardo confuso, finendo con il sollevare anche lei la mano. «Amalea Davidson», qualche suo compagno aveva solo accennato poco o molto di folkloristico il rapporto che i goblin avessero con le donne umane e con quelle della loro specie, così pensò di dire anche la sua. «I goblin sono conosciuti per la loro barbarie e la loro vena da torturatori, seviziatori e stupratori del genere femminile. Amano i ratti -non i topi, ma il rapimento- al solo scopo di riprodursi il più possibile e nel minore tempo, rendendo le donne, le goblin e le altre razze nel loro sesso femminile come schiave, fino alla loro morte».
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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor, saluta Joo-hyuk Kwon e risponde alla domanda.
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    Brooklyn avrebbe fatto meglio a dire addio a tutti i suoi capi, soprattutto quelli preferiti, con la restituzione della refurtiva solo dietro compenso salatissimo. Adorava infilarsi una delle sue felpe, allungare le maniche e affondare il naso nella stoffa con il cappuccio a coprirle gli occhi. Fosse stato per lei sarebbe andata a quel ballo con un paio di jeans ed una di quelle calde morbide e comode felpe, senza doversi mettere un paio di tacchi ammazza caviglie. Peccato che non saranno quelli a causarle una caduta, ma su quello torneremo più tardi.
    Lo spirito natalizio di O'Connor era contagioso, così come la sua voglia di condividere e sorprendere, cosa che riuscì a fare per l'ennesima volta, addirittura immortalandolo in una sequenza di foto di cui avrebbe preteso una copia, invitandola a Parigi. E non in un periodo qualunque. «ODDIO, SEI SERIO?» Probabilmente il suo grido l'avrà reso sordo da un orecchio per un po', ma poco importava quando da lì a poche ore invece di tornare ad Ayr con ancora i drammi della sorella fantasmi alla loro tavola sarebbe andata nella città dell'amore. «Eh? No, Brooks, non è mai banale la meta», ancora abbracciati sotto al vischio i gridolini erano cessati per lasciare spazio ai sussurri, alle rassicurazioni e alla complicità che li legava da ben prima che divenissero una coppia. «Non sono mai stata a Parigi e sono convinta che ci divertiremo un sacco», già si pregustava una baguette smezzata al quartiere latino, un ritratto a Montmartre ed un salto a Disneyland, con il settore dedicato ai super eroi dove sarebbero stati capace di montare una tenda. «Il tuo regalo però dovrà aspettare», gli fece un occhiolino prima che venissero allontanati dalla campana vischiosa finendo con l'optare per un giro sul ghiaccio.
    E qui torniamo al problema della caduta. I due si erano presi in giro, richiamando i ricordi di una mattina in cui avevano deciso di provare lo spessore del ghiaccio che si era creato sul lago dietro casa dell'irlandese, con lei che era finita sedere all'aria e aggrappata a Ryan come facevano.i gatti quando venivano minacciati con dell'acqua. «All'epoca» -iniziò come se non fossero passati tre anni scarsi- «avevi ancora il moccio al naso», non è vero, aveva riempito un paio di diari con una sfilza di cuoricini in cui scriveva il suo nome per poi riempirli fino a non rivelare alcuna traccia di ammissione della sua cotta. «Sì, non cado più come un sacco di patate però sì, magari potremmo chiedere alla Preside di installare una pista di pattinaggio da qualche parte sull'isola». Ecco, le sue buone intenzioni avrebbero avuto un prosieguo se non avesse lasciato la sicurezza della barriera per richiamare l'attenzione dello straniero con cui si era trovata bene settimane prima. La botta fu dura ma non così tanto da provocarle qualche osso rotto o strappo di vestito, il che era da considerarsi una conquista. La risata che le sfuggì dalle labbra si unì a quella di Brooks mentre sollevava lo sguardo verso Kwon che si era affannato verso di lei, insieme ad un'altra ragazza, dimostrandosi gentile anche con due semplici parole. «Un panda volante!» fu invero la sua risposta, indicando Pixie che era ormai già atterrato in faccia alla sua padrona. Per un attimo aveva pensato di avere una commozione cerebrale, poi si era ricordata di essere caduta sulle ginocchia e non aver sbattuto la testa.
    Accadde qualcosa di strano, comunque: le due pozze (o)scure di Joo-Hyuk la inghiottirono come faceva un buco nero con pianeti, stelle ed intere galassie. Era successo anche in un altro momento e... la mano di Brooklyn entrò nella sua visuale, afferrandola e seguendo le sue istruzioni come un automa, sbilanciandosi un paio di volte ed aggrappandosi al suo braccio teso per non cadere di nuovo. Il tutto senza smettere di sentirsi osservata fino alla parte più profonda e piccola di lei. «Ehi, voi due, smettetela di prenderci in giro. Se solo volessimo vi faremmo mangiare il ghiaccio, vero Erin La rossa aveva un viso che ricordava le calde giornate primaverili, quelle con il venticello fresco ed il profumo dei fiori di camomilla appena sbocciati. «Sì, mi da solo un po' fastidio il ginocchio destro ma passerà presto» tranquillizzò il suo ragazzo, ma di fatto anche l'altro che era rimasto con loro, essendo abbandonato dall'altra ragazza che aveva raggiunto l'uscita su gambe molto più solide delle sue. «Bandiera bianca per me, ma voi se volete farvi qualche giro continuate pure, vi aspetterò qui» ed indicò la panca dove neanche cinque minuti prima si era seduta per indossare i pattini con la lama stretta. «Ouch», si lamentò, girando un po' troppo in fretta il piede salvo poi assumere l'andatura del bradipo -un piccolo avanzamento di punte alla volta- per ritornare verso l'apertura da cui pochi minuti prima era uscita anche la Murphy.
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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor, Joo-hyuk Kwon, Erin Murphy.
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    Kwon era un puzzle che le si era presentato in una confezione di cento pezzi ma che in realtà ve n'erano almeno cinquemila. Un difetto di fabbrica che non faceva altro che stuzzicare quella fame nel voler mettere ogni singolo pezzetto al posto giusto, ruotare fino a trovare il giusto incastro, per poi avere un quadro completo. Era uno di quei puzzle che non potevi pensare minimamente di risolvere in un pomeriggio di pioggia, con la copertina sulle gambe ed una tazza di tè fumante a distanza di sicurezza. Stava partendo dalla cornice: dal mucchio cercava tutti quei cartonati modellati e da almeno un lato liscio, il resto finiva nuovamente nella scatola, un calderone che avrebbe affrontato poco alla volta. E così mentre Amalea scopriva parti di lui rivelava parti di sé, non soffermandosi -neanche per un attimo- sul fatto di star scoprendo e permettendo all'opale nero di scoprire eventuali punti deboli, ma anche di forza. Kwon era arrivato al momento giusto per risollevarle l'animo dalla lettura di un libro pieno zeppo di trigger warning che superavano persino la lunghezza dell'opera se messi a paragone.
    E tra fruttariani, onnivori, vegetariani e respiriani i due studenti stavano intrecciando una parte dei loro fili tra loro in qualcosa di cui non avrebbero avuto certezza del risultato: se una banalissima treccia da cucito o un maglione caldo invernale e coccoloso che tanto amava. Non poteva fare previsioni, magari qualche aspettativa basata sull'istinto, ma nel concreto poteva solo continuare a tessere e a vedere dove il suo essere una giovane Arianna l'avrebbe condotta.
    Ad esempio, un cambio di verso -probabilmente una manica o forse solo un bordo un po' rafforzato- avvenne con la sua osservazione in merito al significato della prima parte del suo nome. Quel Joo che si leggeva come Giù le stava creando non poche difficoltà, più per l'imbarazzo su come rispondere a qualcosa che le era uscito spontaneo ed anche un po' banale, che per chissà quale macchinazione o congettura. «Beh, sì, ecco...», guadagnò tempo, scrutando quel viso dalla pelle delicata simile alla porcellana, dai tratti molto meno marcati a cui era abituata. «Per i tuoi genitori, no?» Alla fine la sua nascita non aveva rappresentato il loro bene più prezioso?! Morgana, quel pensiero così basico e qualunquista le scatenò un leggero ribrezzo verso se stessa. «Anche per i tuoi amici e per...» avrebbe fatto meglio a mettere un freno a quella situazione che poteva divenire imbarazzante in pochissimo tempo, «chiunque trovi il piacere di averti conosciuto?» Ecco, forse sarebbe stato meglio se avesse sposato la linea del silenzio.

    Dal silenzio ad una corsa sotto la pioggia fredda direttamente sulla pelle nuda il passo fu breve. Il riso rendeva il suo respiro più affannoso, così come una scarsa mira in movimento ed il tentativo di rallentarlo colpendolo alle spalle. «TU HAI BARATO PRIMA!» Gli urlò di rimando seguendolo in quella fonte termale a cielo aperto, un contrasto tra le due temperature d'acqua diverse, la sua vena sadica e vendicativa a prevalere nel tentativo blando di affogarlo. Le mani di lui a rintracciare i suoi polsi, la forza leggera con cui si servì per prendere lo slancio per tornare a galla, portando lei ad affondare un po', con la bocca aperta e zero ossigeno immagazzinato nei polmoni. Avevano entrambi il fiato corto, il mento -almeno il suo- sotto il pelo dell'acqua calda, ancora uniti da quelle mani che non lasciarono andare le sue articolazioni. «Oh, dovevi essere un pelino più sorpreso però», usò il suo stesso tono ed espressione del viso, seppur il sorriso della mezza scozzese fosse molto più ampio. «Io? Farmi perdonare?» approfittò del suo allentare la presa per essere lei a cingere i polsi, almeno quello sinistro di lui con la mano destra di lei, visto che poi l'indice finì con l'indicare prima il suo petto e poi quello del moro. «Sono io a dover perdonare te», chiarì, annuendo alle sue stesse parole, abbattendo la mano sull'acqua e sollevando una serie di schizzi. Per poco non si perse quel sorriso paragonabile quasi alla magia del sole nascente dopo una notte infinita. «Ma tu guarda!», chiosò, non sapendo più se stesse commentando il loro perdono reciproco o quell'evento che aveva il sapore della rarità. Ad ogni modo prese sul serio il gioco, iniziando a sollevare schizzi verso il suo viso, continuando a stringere -sempre se lo avesse permesso- il polso, mantenendosi a galla con un movimento lento e costante delle sue gambe che spesso si scontravano con quelle dell'asiatico.
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    Devo portare un cerino?

    Davvero, lei ci provava ad essere gentile e ben disposta nei confronti di Garrett ma per quanto si sforzasse l'altro continuava ad incolparla di tutti i mali del mondo. Finisce la carta igienica nel bagno? È colpa di Amalea, mica di sua sorella che crea pannolini con i quadratini di carta per le sue bambole. È scoppiata una crisi diplomatica tra Denrise e Londra? È colpa di Amalea. La fame nel mondo? Le carestie? Il surriscaldamento globale? Sempre lei, Amalea Davidson. Quindi il suo ragazzo non si sarebbe potuto mostrare sorpreso nel ricevere quel messaggino lapidario, soprattutto quando nell'equazione vi rientrava anche Nicholas McCallister sparito nuovamente dai radar. Non osava chiedere però nulla a Brooks, per non metterlo in difficoltà con il suo migliore amico e con suo fratello. Si diceva però che la prossima volta che l'altro Black Opal le avesse rotto gli zebedei la domanda piccata non se la sarebbe risparmiata affatto. E no, non era più buona solo perché mancavano due giorni a Natale. E sì, si sentiva incredibilmente bellissima nel vestito che Brooklyn le aveva regalato quando l'aveva invitata al ballo. Un abito carta da zucchero, dallo scollo a cuore e dall'incrocio poco sotto al seno mettendo in evidenza quest'ultimo e nascondendo i suoi fianchi larghi. I capelli erano stati lasciati ricadere in morbide onde, mentre il trucco era tra i più semplici e basici che avesse mai fatto: eyeliner ad allungarle l'occhio, sulle cui palpebre vi era dell'ombretto che sfumava dal nero verso l'azzurro dell'abito mentre il rossetto nude le sembrò quello più adatto tra quelli che aveva. Non rispose all'ex Grifondoro, semplicemente afferrò la sua bacchetta che bloccò nella giarrettiera sulla coscia destra e volò fino all'ingresso della Sala Comune sul cui uscio trovò in un vestito stranamente non spiegazzato il suo ragazzo. «Dovresti pagare un extra al sarto, è perfetto!» Accompagnò quell'espressione con una piroetta su se stessa, sbilanciandosi fino a ritrovare l'equilibrio grazie alla presa sul suo braccio. «Prometto di rubarti le giacche e non restituirtele più» e con la mano nella sua lo seguì fino alla Sala Grande. Avrebbe voluto salutare anche gli altri ma Ryan la rapì, portandola verso una cupola con il vischio cui si fermò al di sotto. «Siamo alquanto dispotici stasera», ma non aggiunse che un sorriso di scuse al povero malcapitato che venne designato come loro fotografo. Erano vicini, era pronta a farsi immortalare da un perfetto sconosciuto nell'atto di baciarsi quando un rettangolo piuttosto lungo e patinato non le venne posto sotto il naso. Abbassò lo sguardo e fu sconcertata nel vedere la foto di uno dei simboli più famosi della Francia. Risollevò lo sguardo sul moro, poi lo riabbassò, infine spalancò la bocca, realizzando. «Mi hai appena regalato un viaggio a Parigi?» E poi fu caos, lei che abbracciava lui proprio quando la baciava e il terzo ed ultimo click risuonò tra loro. «Sei completamente pazzo, Brooks», mormorò sulle sue labbra, sciogliendo il loro abbraccio un po' a malincuore. Una coppia dell'ultimo anno stava letteralmente mandando occhiate di fuoco per farli allontanare. «Vieni», disse, tirandoselo dietro fino a raggiungere la pista di pattinaggio chiedendo un paio di pattini per loro. «Era al Natale del secondo o terzo anno che mi hai fatto cadere nel lago ghiacciato dietro casa tua?» Lo prese in giro, mentre si sedeva ad una delle panche per sfilare le scarpe dal tacco imponente per infilare gli scarponi dalle lame affilatissime. «Tu che mi urlavi di strisciare sul ghiaccio, brrr», e con non pochi scivoloni visto che lei e l'equilibrio non è che andavano poi così tanto d'accordo, eppure pattinare le piaceva anche se aveva bisogno comunque di una guida. «Vogliamo vedere come ce la caviamo ora?» Si voltò verso la pista, osservando un panda rosso mettere a repentaglio l'equilibrio precario degli altri seppur mantenendo egli stesso -non sapeva fosse una femmina- un equilibrio da far invidia. «Uh, guarda, c'è il tuo compagno di casa», abbandonò la sicurezza della barriera, nonché la mano di Brooks, per portarsi le mani alla bocca per amplificarne il suono. «Ehi, Giù-yo, fai attenzione al». L'Opal non seppe mai da cosa avesse ella stessa cercato di avvisarlo poiché finì con l'inciampare lei stessa e cadere in ginocchio sul ghiaccio duro. «Ouch!»
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    Interagisce con Brooks Ryan O'Connor e poi tenta di avvertire Joo-hyuk Kwon ma cade sul ghiaccio. (':
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    Era sempre stata una persona curiosa, non per nulla i suoi le avevano dato un nome che recava quel significato, e lei sembrava volersi mantenere fedele ad ogni costo. E continuava a farlo, giorno dopo giorno, ficcando il suo nasino delicato nella più piccola delle faccende, per dire la sua e anche perché non sopportava l'idea di non sapere.
    Brooks ormai la conosceva così bene, tanto che finiva con l'ingegnarsi sempre di più per trovare il modo di nasconderle i regali di compleanno o di Natale. Dopotutto, pur di trovare un preservativo, l'ultimo giorno di vacanze, era entrata in camera di Fitzgerald a rovistare in ogni singolo cassetto. E Ryan la conosceva così bene che sapeva di ferirla se avesse divorato da solo la pizza. «Oh, non avresti osato», lo punzecchiò con le parole ma anche con le dita lungo il fianco, «non si può infrangere la regola della pizza, lo sai». Una regola che avevano stabilito al loro primo anno di Hogwarts dove, per quanto arrabbiati l'uno con l'altra, avrebbero sempre lasciato un pezzo di pizza da condividere, anche quando super affamati. La vitalità di Amalea, la gioia per quella sorpresa che sembrava più essere un domino, un puzzle che si incastrava in un disegno che solo O'Connor conosceva, erano coinvolgenti e poco contenuti. Guardò truce il suo ragazzo al pensiero di dare il regalo al gemello -mai nella vita, piuttosto si faceva suora- e scoppiò in una risata delle sue al suo tentativo di essere minaccioso circa punizioni. Al massimo avrebbe potuto legarla, ma a letto. Arrossì a quel pensiero, concentrandosi sulla stoffa di quell'abito a dir poco bellissimo, dalla stoffa leggera e dall'ipotesi di sentirsi bellissima nell'indossarlo. «Il colore è perfetto, mi piace tantissimo, non vedo l'ora che arrivi il ballo», ammise, inondandolo poi di abbracci, carezze e baci a rimarcare la sua felicità di quel gesto e di quell'accortezza. Ne era follemente innamorata e lo fece intendere, lo disse a modo suo, e non se la prese, almeno per il momento, nel non avere una risposta. Poteva aspettare.
    «Anche io, mi hai salvato da una famiglia isterica», sussurrò, lasciandosi sfuggire un piccolo gemito quando lui iniziò a concentrarsi sul suo collo, e poi a coinvolgerla in un bacio che la fece stendere sulla coperta, non prima di sfilare il plaid e avvolgere lui che la sovrastava. «Coff coff», finse un attacco di tosse, infilando le mani sotto i suoi vestiti in un contatto più deciso con la sua pelle. «Ehm sì, stava raggiungendo tuo padre al pub», si tuffò verso il suo collo, graffiandolo con gli incisivi. «Loro non sanno ancora che io e tu, beh...» si arrestò, posandovi un bacio. «Sì, insomma, stiamo insieme, vero?»
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    Certo, la corsa, non era mica quasi morta per l'imbarazzo delle insinuazioni di uno dei papà di Brooklyn. Lasciò che pensasse del suo stato scarmigliato fosse per la voglia che aveva di vederlo dopo una giornata che sembrava essere scritta dal peggiore degli sceneggiatori di soap opera sudamericane, piuttosto che dover ripetere quelle poche parole ad alta voce. Anche perché, una volta che finì con l'essere tra le sue braccia, non le sembrava più essere così importante. Non quando intravide cose che avrebbe dovuto vedere poi, rovinando di fatto la sorpresa dell'irlandese in pochi secondi. L'altro avrebbe comunque saputo apprezzare come l'entusiasmo fu genuino nel vedere quel tetto trasformato in qualcosa di romantico solo per loro due, anche se non come l'aveva previsto. Anche perché darle una pizza dopo che il pranzo di famiglia era andato a farsi benedire in quel momento era meglio di una dichiarazione d'amore. Oddio, avrebbe voluto anche quella, ma si era detta che "ogni cosa a tempo debito" sarebbe stato il suo mantra. Ma quella pizza non finì mai nel suo stomaco, non dopo che era stato scritto un invito al ballo che non aveva mai pensato di poter ricevere. Si buttò su di lui, tempestandolo di tanti piccoli sì increduli ed eccitati, così come i baci che lasciava su ogni parte del suo corpo che le capitavano a tiro. «Certo, che vengo con te», gli occhi brillanti, le guance non più arrossate dall'imbarazzo, le labbra che cercavano le sue per un bacio più inteso di quelli che si erano scambiati fino a quel momento. Avere le sue mani addosso, quelle parole sussurrate tra le labbra e poi quel bozzolo protettivo che creò intorno a lei la fecero sentire amata. Tirando i lembi del plaid fino ad avvolgere anche la sua di schiena, mentre le dita si aggrappavano al colletto della camicia, Amalea sentiva quel prurito in fondo alla gola che le diceva di rivelare i suoi sentimenti, ad alta voce, ma li soffocò di nuovo quando l'altro sciolse l'abbraccio per afferrare la scatola che non aveva visto. «Anche un regalo?» La stava viziando e chi era lei per chiedergli di smetterla? Con il plaid sulle spalle la ragazzina mise la scatola sulle sue gambe, conficcando un'angolo della stessa nello stomaco di Ryan. «Oddio, scusa!» Rise, ma era sinceramente dispiaciuta per la sua goffaggine, la mano già tesa verso il suo addome in una carezza delicata. Indietreggiò, fino a creare uno spazio che le permettesse di aprire senza ferire nessuno la scatola. Vi trovò un vestito, azzurro, dalla scollatura a cuore e diversi pannelli di tulle. «È bellissimo», decisamente fuori dalla sua comfort zone per modello ma non per colore, a differenza di quello ricevuto l'anno prima. Ad oggi non sapeva quale dei due abiti avrebbe scelto, forse proprio quello che lui le aveva appena dato, vista la sua richiesta. «Sei pazzo, lo sai?» Non un'offesa, solo una constatazione per quella sua volontà di riempirla di vestiti che al massimo avrebbe indossato in un paio di occasioni. Ma Brooks era fatto così e a lei andava bene, davvero bene. «Tutorial su magictube?» Dubitava che il gemello infido potesse perdere del tempo in simili quisquilie, soprattutto quando la corbata faceva parte della divisa sin dai tempi di Hogwarts. Riposò la scatola, chiudendola con cura e allontanandola dalla fiamma delle candele; il plaid sarebbe tornato a coprire entrambi e questa volta il bacio avrebbe richiesto tempo, lingua e mani ad esplorare il corpo di lui ancora troppo coperto. «Credo di essermi innamorata di te, profondamente, molto più di quello che pensavo», ammise, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo. «Non ti spaventare, penso di esserlo io abbastanza per entrambi».
    Amalea Davidson

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    Cogliere l'occasione di allontanarsi da Hiddenstone durante i weekend era divenuto sempre più frequente. Tra gite fuori porta organizzati dai docenti a blitz made in Brooks metteva il naso fuori dall'accademia in metà anno più volte rispetto ai cinque di Hogwarts. In quell'occasione però si trovava ad Ayr, nella casa dei suoi genitori, perché sua sorella Molly aveva chiesto la presenza di tutti per fare un annuncio. Tra una fetta di maialino arrosto e dei fagiolini saltati nel burro, con la mano stretta a quella di Edward, la terza dei fratelli condivise nell'esatto ordine che aspettava il suo primo figlio, si separava dal marito e che si trasferiva negli States insieme alla sua nuova compagna. E ad Edward e al compagno di lui, nonché ex marito della ragazza di sua sorella. Un silenzio assordante era calato sui commensali, persino sui bambini più piccoli impegnati nel loro lancio di cibo, tranne che per lei. Le sfuggì una risata, che si amplificò sempre di più e che alimentò con un sorso di vino che fino a quel momento era rimasto nel suo calice. «Credo di averti appena ceduto lo scettro di pecora nera della famiglia», inclinò il bicchiere in suo onore e lo vuotò tutto. Il tintinnio del bicchiere che si scontrava con le posate per il dolce ancora intonse venne ovattato dai commenti che si scatenarono tra i più grandi. Tutto ciò che fece lei fu di radunare i suoi nipoti in fila indiana e portarli a distruggere il giardino. Quello sarebbe stato l'unico giorno in cui avrebbero goduto della clemenza di nonni e genitori. E che fai, te ne privi? Così mentre bimbi dai tre ai nove anni si lanciavano nei giochi più sfrenati, lei li osservava con un occhio solo, l'altro impegnato a scorrere sui social prima e sul rispondere al messaggio di Brooks poi.

    Mia sorella è una scambista. Sta con una donna ora e si trasferisce con lei, Edward ed il suo ragazzo in America

    Digitò velocemente, richiamando ad alta voce Celia che stava tirando i capelli a Monique ed alzandosi per allontanarle fisicamente.
    Ed è anche incinta. Comunque sì, ci vediamo più tardi.

    Mathias prese meglio del previsto il compito di crearle una passaporta per casa O'Connor. Perse un sacco di tempo per trovare un oggetto -un vecchio pupazzo di pezza di Molly, il suo preferito- e per castarvi gli incantesimi necessari. La trattenne anche con domande sul suo stato d'animo in merito all'intera questione ottenendo in risposta solo un ma che me ne fotte parafrasato. Con lo zaino in spalla era atterrata nel giardino, andandosi a scontrare con uno dei papà di Brooks che stava raggiungendo il marito al pub e divenendo di ogni tonalità di rosso al suo "fate i bravi e non preparate trabocchetti come al solito". Era ancora accaldata quando entrò in camera, trovandola in perfetto ordine e con il Black Opal seduto sul davanzale, gambe penzoloni. «Te l'avevo detto che saresti dovuto venire con me», lo salutò smollando lo zaino sul letto ed avvicinandosi a lui per un bacio a stampo. «Avresti trovato pane per i tuoi denti e poi avremmo potuto pomiciare nel capanno degli attrezzi mentre gli altri si lanciavano i piatti». Aveva trovato spazio tra le sue gambe, le braccia allacciate al suo collo e le loro labbra non così distanti. «Come mai sei qui?» Si mise sulle punte, cercando di sbirciare oltre la sua figura notandovi del chiarore tipico delle candele. «Vediamo un po' cosa stai nascondendo», lo tirò a sé, fino a sgusciare per prendere il suo posto e notare una coperta distesa perfettamente e circondata da piccole tea-light, una scatola grande ed un cartone di pizza. «Hai fatto tutto questo per me?» Gli occhi le si erano illuminati, la mano aveva cercato la sua, dopo aver scavalcato il davanzale e posato il piede sul tetto, invitandolo a seguirlo con lei. Lei che si sedette sulla coperta e che si allungò verso la scatola della pizza, pronta a sollevarne il coperchio con l'acquolina in bocca. L'aprì e fece per prendere uno spicchio di quella circonferenza irregolare quando abbassò lo sguardo e si accorse che non era la forma tradizionale. Un cuore, una pizza a forma di cuore, con rotelle di salame piccante a formare una scritta inequivocabile. Lasciò da parte il cibo per fiondarsi su di lui, sedendovisi a cavalcioni, balbettando «sì, sì, sì» ravvicinati e sempre più bassi che confluirono in un bacio. «Certo che sì».
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    Il cibo accomuna i popoli. Non ci aveva mai dato peso più di tanto a quella massima, almeno fino a quel momento. Lo aveva sempre visto solo e soltanto nell'ottica della convivialità e del mero gesto di portarsi cioccolata, carne o verdura alla bocca e non come qualcosa di cui dibattere per conoscersi meglio. In qualche modo disquisire su stili di vita, scelte etiche od egoiste, la stava aiutando a conoscere, almeno sotto quell'aspetto, una nuova persona. Ad esempio l'essere vegetariano poteva suggerire una data morale che il ragazzo seguiva, ma non se fosse una tradizione di famiglia o una scelta personale. Il modo in cui pesava ogni parola gli dava la sensazione di essere un tipo riflessivo e non impulsivo; il modo con cui la osservava suggeriva che fosse una persona curiosa ma non giudicante; il suo ascoltare ogni singola parola che pronunciava le dava la sensazione di essere vista come persona, oltre a Brooks. Era una bella sensazione e lei si sentiva libera di esprimersi senza freni, di condividere le più strambe teorie -le sovversive e complottistiche le avrebbe riservate per un successivo momento- su cui aveva posato occhi ed orecchi, condendole di sue, a suo parere, geniali illuminazioni. Soffocò una risata che riverberò nel suo corpo, facendole tremare le spalle, all'ipotesi di nutrirsi dell'unico frutto dell'amor. «Non erano quelle che se la mangi in grandi quantità muori? Sai, potassio o cose così». E col potassio in eccesso la morte era ben oltre l'angolo. «Oltre a soffrire di stitichezza», soppesò memore della diceria popolare che il frutto giallo fosse un nemico dell'intestino pigro. E lei, in qualche modo, se ne intendeva.
    La piacevolezza della conversazione la portò anche a scherzare sui suoi punti deboli, di natura fisica, ed in una possibile vita di privazione avanzata da lui. «Oddio, i muffin al cacao con la granella di nocciole e il cuore morbido», probabilmente le sue pupille si erano trasformate da due cerchi perfetti a due cuoricini al solo pensiero di affondare gli incisivi in quella spugna morbida equilibrata dalla giusta dose di cacao. «Perché non abbiamo pensato di trafugare del cibo in cucina prima di venire qui?» E come avrebbero mai potuto mettersi d'accordo se a stento si erano parlati nelle poche lezioni in comune? Senza contare che appartenessero a due case diverse. E a due culture diverse.
    Chiedergli se avesse mai pensato di cambiare il suo nome per aiutare lo straniero l'aveva in un certo senso infastidita, soprattutto perché trovava svilente ed annichilante il pensiero della società occidentale del ritenersi superiori agli altri, di doversi uniformare fino a perdere la propria identità. Delle volte non riusciva a comprendere l'egoismo dell'uomo.
    Ma Kwon, o meglio Giù-yo come aveva corretto lui la sua pronuncia, sembrava voler sposare la sua stessa linea, con un bellissimo e coreografico dito medio a chi avesva osato suggerire di rendere facilmente pronunciabile il suo nome. «No, non hai decisamente la faccia da Charles», concordò, scrollando il capo energicamente, anche perché lei avrebbe scelto un nome molto più interessante di un banalissimo Carletto. «Sì, lo credo anch'io», chiosò sull'integrazione, con tanto di occhiolino volto a creare la complicità. Così come una stretta di mano che aveva eliminato la possibilità di salutarlo con dei baci sulla guancia alla latina. E da lì riprendere la via della sua storia, dalle origini appena accennate al nome che i suoi le avevano dato. «Secondo te?» Una domanda un po' ironica, visto che alla fine gli fornì la risposta. «Comunque no, sono davvero una curiosona» ed una impicciona, come avrebbe poi sottolineato pochi momenti dopo con i commenti non richiesti sul significato del nome dello studente sudcoreano.
    «Sul prezioso direi che ci possa stare, quanto al tranquillo...» lo squadrò dal basso verso l'alto e viceversa «non ti conosco abbastanza per dissentire o meno».
    Sarebbe stato solo dopo l'interrogarsi sulle cupole del compagno della Burke e la rivelazione che il suo obiettivo per la giornata fosse a poche centinaia di metri da lì che avrebbe scoperto quanto di tranquillo lo studente di Mahoutokoro non avesse proprio nulla. Oltre al fatto che sì, non stavano per fare nulla di proibito, ma era dannatamente strano vederlo spogliarsi velocemente. Rimase a fissarlo con un perfetto ovale delineato dalle sue labbra, le sopracciglia sollevate e gli occhi sgranati. Era stato così dannatamente veloce! «Ehi, così non vale!» Gli urlò dietro, mentre cercava la sua bacchetta per tentare di rallentarlo. «Collosho!» Ma non prese bene la mira, forse perché impegnata anche nello sbottonarsi i jeans con il mantello che era finito ancor prima sul tavolo insieme a quello che restava dei vestiti dell'opale. «Oh, andiamo, impedimenta» Ma ormai a stento sarebbe riuscita a rallentarlo come aveva desiderato, dato che era diretta verso di lui con il maglione che venne lanciato verso il tavolo senza neanche guardarlo, correndo in un semplice intimo scuro verso il ragazzo che alla fine era riuscito a tuffarsi prima di lei.
    Lo raggiunse e nuotò per un po' in subacquea fino a comparirgli alle spalle e tentare di posargli le mani sulla testa per spingerlo giù, ma senza fare uso di una forza eccessiva. «Così impari!»
    Amalea Davidson

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  11. .
    Il discorso degli olezzi non era minimante collegato esclusivamente alla combo guferia-pioggia, ma la dioptase era impegnata a frenare l'impulso di chiedergli un batticinque al suo non inviare un gufo da anni. «Continua così», si premurò, «che poi io mi chiedo, no, con tutti sti magifonini stiamo ancora ai gufi, civette e strillettere?» Erano nel terzo millennio, ventunesimo secolo, duemilaventidue e ancora doveva affaticare gufi con pacchi grandi il quadruplo di loro. Un servizio wizazon dovrebbe essere considerato oggigiorno un diritto primario. Ma se lei si occupava di corrieri che si alimentavano di vermi e ripagavano in escrementi e beccate, l'opalino sollecitato sul suo voler sapere come e quanto tempo avesse impiegato per adattarsi al nuovo orario non avesse spostato la lancetta dell'argomento sul cibo. La cucina denrisiana non era tra le più sofisticate ma gli elfi, nelle cucine, si davano un gran da fare nel prepare piatti comunque eccellenti ed il più variegati possibile. Ma forse non così tanto. «Uh, oh», perché arrivava sempre qualcuno che ti stravolgeva il modo di vedere le cose ed in quel caso il corvino le fece aprire gli occhi su quanto burro venisse usato per ripassare i fagiolini o gratinare le patate, su come le patate arrosto delle volte sembravano esser state cucinate nella stessa teglia delle grosse salsicce arrostite rendendo di fatto immangiabile gran parte degli alimenti che poi presentavano sulle loro tavolate.
    «Vegetariano? Vegano? Verduraro No, l'ultimo non le suonava granché bene. «Mpf, scusa, non conosco tutte le sigle. Pensa io potrei essere una cavolfiorara per quanto ne vado matta. Potrei crearne anche una religione: il cavolfioranesimo», le mani erano ora aperte in una creazione immaginaria di un arcobaleno. «Pensa... Una volta lessi che c'erano i respiriani», le era capitato nel feed di qualche social privo di filtro magico. «Loro si nutrono di ossigeno e basta», trasmetteva tutta l'incredulità per quella dieta a ritmo di dieci respiri al giorno. Se ne facevi undici ingrassavi di un centigrammo se andava bene. «Mmm, io con le mie riserve di grasso avrei una buona prospettiva di vita, no?» Era da un po' che non faceva dell'autoironia sul suo corpo e se prima era legato al prevenire commenti grassofobici ora era solo perché le era uscito naturale scherzare su di sé, come se avesse una percezione dei suoi difetti completamente diversa. Forse perché qualcuno le aveva fatto vedere che era bella. Non nei canoni, ma bella.
    Il ricordo delle buone maniere tornò all'improvviso, finendo con il presentarsi con una mano tesa che per un po' rimase sospesa. Non se ne accorse subito, troppo presa dalla pronuncia del suo nome. «Three!» cercò di anticipare nella sua mente al suono del suo nome completo, mentre un dubbio cresceva: «Aspe, ma i coreani sono quelli che si presentano prima col nome o col cognome?»
    Sgranò gli occhi.
    «K-» tentò un primo approcciò, cercando di ricordarne il suono troppo veloce con cui era stato pronunciato nel classico modo in cui si dice qualcosa che si ripete da una vita. «K-Kwon è... tipo il cognome, vero?» Decise di arrischiare.
    «Preferisci essere chiamato Two-ja? O stai pensando tipo di occidentalizzarlo?» Erano scelte che non potevano essere giudicate, soprattutto quando il tuo nome finiva con l'essere profondamente violentato da pronunce discutibili, ma lei al suo posto non avrebbe mai sacrificato la sua identità per favorire gli altri.
    Preferì non condividere il suo pensiero, non sapeva quanto e come fosse il suo animo. Già aveva difficoltà con una stretta di mano. Alla fine l'aveva accettata, stringendola in una presa decisa ma senza prevaricarla con la forza.
    Decise che gli piaceva.
    E la risata alle sue scuse non era affatto per farlo sentire incomodo o deriderlo. «Per fortuna che non ti ho salutato alla messicana allora. Lì sono tre baci», ci tenne a precisare, «e non tutti li danno sulle guance». L'immagine di un vecchio zio della madre che le dava tre baci sulle labbra continuava a tormentarla negli incubi peggiori. «Ewww. Lasciamo perdere, vecchi ricordi d'infanzia». Scacciò via quel ricordo così come si fa con una mosca molesta, mentre quell'interrogatorio a due sembrava continuare liscio come l'olio.
    «Credo che semplicemente i miei avessero terminato la loro fantasia, sai l'ultima praticamente scambiata con la menopausa» O forse semplicemente l'avevano riversata tutta su di lei dato che i fratelli avevano nomi banalissimi. «Comunque è tipo una versione in qualche lingua di Emily, tipo mente curiosa, ma non ne sono sicura». Non poteva mica dirgli di aver preso un libro dei nomi a caso, in biblioteca, cercato il primo significato che le sembrava così giusto per lei. Era una corvonero, era una dioptase ed era dannatamente curiosa. Voleva continuare in magisprudenza e commercio perché così poteva entrare nel mondo dell'editoria. Da quando però era ad Hiddenstone non aveva trovato il tempo -coraggio- di andare a far visita (creare) il giornalino dell'accademia. «Il tuo, invece?»
    Magari poteva condividere il significato con quello dell'amante della Preside. Intanto con la sua battuta aveva visto una risata lievemente più limpida(?).
    «C'era quasi», che fosse per un tratto della sua cultura essere così silenzioso persino nelle risate? Erano davvero così rumorosi gli inglesi? Li aveva sempre trovati silenziosi rispetto ai parenti messicani da parte di sua madre. «No, l'ho dimenticato nell'altra borsa», andiamo, poteva mai sembrare una che girava con un costume nella tasca posteriore dei jeans? O anche nella parte interna di una borsa.
    «Stai dicendo che stiamo per farlo sul serio?» Prese le sue cose, rificcandole nello zaino che aveva quel giorno, castandovi un impervius solo per non rovinare il suo prezioso libro contenuto all'interno, sollevando le iridi in quel cielo che sembrava non voler dar loro tregua. «Pronto?» Ora in piedi a pochi centimetri dalla fine della cupola, se solo si fosse alzato la magia sarebbe svanita, lasciando che la pioggia li bagnasse.
    Amalea Davidson

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    Si sentiva osservata, ma non nel modo in cui uno ti guarda mentre è impegnato in una conversazione. Passò la lingua tra i denti cercando tracce di biscotti che erano sfuggiti allo spazzolino o al filo interdentale. Non ne trovò. La passò all'angolo delle labbra, uno per volta, sperando di aver tolto qualsiasi macchia potesse essere rimasta. Ancora nulla.
    Solo la sua spiegazione ipotetica circa l'incantesimo che li teneva al sicuro dagli agenti atmosferici riuscì a fargli distogliere momentaneamente lo sguardo. Non si sentiva in soggezione, ma insomma voleva che qualcuno glielo dicesse se avesse la matita sbavata, una macchia di cioccolata o qualsiasi altra cosa fuori posto.
    «Notevole? Io trovo triste che non abbiano protetto altre aree del castello in quel modo! Mai andato in guferia?» Lì tra vento e andirivieni di pennuti bagnati era meglio tenersene alla larga il più possibile.
    Un'altra cosa che notò del primino fu che non riusciva mai a lasciarsi andare in un sorriso. «Non è che soffre di incontinenza da risata?» Sua madre, nei momenti più impensabili, quando si lasciava andare ad un attacco di ridarella compulsiva non riusciva sempre ad avere il controllo né delle lacrime e né della pipì. Se solo avesse avuto una maggiore confidenza, forse, avrebbe potuto rassicurarlo con un pat-pat sulla testa. Ed a proposito di testa: quanto erano lucidi i suoi capelli? Quasi glieli invidiava per l'intensità del colore, la texture e la lucentezza. Insomma, lo invidiava per intero, soprattutto in giornate cariche di umidità come quella. «Oh, forse ci siamo...» un rullo di tamburi riverberò nella sua mente ma quella risata abortì. Non era ai livelli di battuta di Brooks ma stando con lui aveva un po' affinato le sue battute terribili.
    In qualche modo riuscirono a condividere il tavolo -e non come Rose che non poteva stringersi un po' per farci stare anche Jack- dando il via alla sua curiosità. Chi era, da dove veniva e come c'era finito lì. Non in quel preciso ordine. «Un bel cambiamento! Quanto ci hai messo per abituarti al nuovo fuso orario?» Le gambe piegate, le piante dei piedi unite e strette in punta dalle mani, il movimento leggero ebbe inizio. «Beccata», sollevò le mani, perdendo il ritmo di quelle gambe-farfalla con probabile grosso piacere di Kwon. «Sì, quest'anno capiterà di seguire qualcosa insieme», in quella scuola il biennio aveva spesso delle lezioni in comune il che non sempre era da ritenere un male.
    Ed eccolo, lo sguardo indagatore era tornato, anche se più delicato rispetto agli inizi. Forse era solo per avere una conferma su dove l'avesse già vista. Allungò una mano, dopo essersela passata sui jeans, sorridendo. «Comunque io sono Amalea». Niente secondi, terzi e quarti nomi per lei. Due le sole possibilità di ricavarne diminutivi: Ama, più volte usato da O'Connor, e Lea, che non le era mai piaciuto visto che aveva il sapore di vecchio, stantio.
    Le sue antenne si drizzarono nel sentirlo parlare dei sassi termali. Adorava quella parte della scuola e non credeva che l'altro potesse conoscerla visto che pochi sembravano essere gli studenti a ricordarsene l'esistenza. O forse aveva avuto soltanto una botta di fortuna nel non trovarvi nessuno. «No. L'amante», fece un'occhiolino, sperando che almeno quello riuscisse a lasciarlo andare ad una risata. E se non quella almeno un sorriso. «Se ti va, appena smette di piovere, potremmo farci un salto», tamburellò con le dita sulla coscia, come se stesse rimuginando su una delle sue idee malsane. «Anche se credo sarebbe figo vedere come sono con un tempo come questo...» Cercò il suo sguardo, forse anche un po' a sfidarlo. Sull'essersi praticamente auto invitata non si lasciò sfuggire neanche un commento. «Non trovi?»
    Amalea Davidson

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    Un contatto leggero tra le loro labbra fu l'unica cosa che riuscirono a concedersi prima di entrare in classe. Pigroni erano loro, pigroni i loro famigli. Aveva smesso di contare le volte in cui i papà di Brooks li avessero presi per le orecchie quando veniva l'ora di svegliarsi quando rimaneva a dormire a casa degli O'Connor. Dopotutto chi era il folle che lasciava volentieri il tepore delle coperte e la morbidezza di un cuscino? Non lei.
    Non di lunedì e non quando la prima lezione della giornata era Alchimia. Se all'inizio si era dimostrata elettrizzata a frequentare una materia pressoché sconosciuta ad Hogwarts -se non appena accennata nelle classi di trasfigurazione- era rimasta pressoché delusa, forse soprattutto da se stessa nel non riuscire a comprendere appieno le meraviglie di quell'insegnamento. E così finì coll'ascoltare gli interventi dei suoi compagni con Brooks a disegnare cerchietti sulla mano e a fissarla. «Almeno fingi di guardare il prof», lo riprese a denti stretti e sobbalzando quando sentì le sue labbra vicine all'orecchio. «Penso che forse avremmo fatto meglio a saltare questa lezione». Il sotto testo più che cristallino nelle sue parole, qualora non ci fosse arrivato prontamente il rosso ciliegia che colorò le sue gote lo avrebbe fatto al posto suo.
    Un rossore che perse con la comparsa di animali morti. finendo più con l'assumere una faccia di puro disgusto. spoiler
    «Immagino che il professor Ensor fosse troppo impegnato per dar almeno una ripulita», commentò domandandosi per quanto il tanfo del putrido avrebbe mandato in confusione i suoi recettori olfattivi.
    La carcassa di un uccellino fu adagiata nella porzione di banco a lei destinata. Strizzò gli occhi con forza come se potesse scacciar via quell'immagine. «Sono ancora più convinta che forse era meglio saltare questa lezione».
    Socchiuse l'occhio destro, sbirciando fino a ritrovare il piumaggio di un intenso verde bosco, quasi tendente al grigio. «Via il dente, via il dolore», si incoraggiò riaprendo gli occhi per vedere quale fosse la sua parte mancante. L'ala destra. «Ala per ala», mormorò immaginando, al posto di quella che giaceva dall'altra parte inerte, una piccola ala di pipistrello. Sebbene provvisti di ali essi non erano classificati come volatili, bensì come mammiferi. Avrebbe funzionato. O almeno lo sperava. Spirale concentrica, stoccata e «elego recresci». Ma nulla. Neanche una piccola scintilla. Riprovò ancora, ma fallì. «Se alla prossima non riesce lo butto dalla finestra», sibilò rabbiosa prima di tornare a creare nella sua mente una piccola ala scura, membranosa ma solida. Spirale a chiudersi, stoccata ed «elego recresci».
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    Interagisce con Brooks.
    Prova a trasformare l'ala destra di un uccellino in una di pipistrello.
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    <i>Stesa sul tavolo, la pioggia che cadeva su di lei senza bagnarla, il libro stretto al petto coi polpastrelli che ne carezzavano il dorso e le pagine intervallate da millimetri di carta colorata che davano anche il colpo d'occhio su quanto avesse già letto, Amalea viveva il suo senso di solitudine. Per quanto amasse il riccio, la sua verve ed i suoi scherzi, amava anche ritagliarsi spazi vitali, momenti di puro piacere personale che esulavano da una lezione o dal suo migliore amico. Ragazzo. Ora Brooks era il suo ragazzo. I tempi dell'incertezza e dell'abbandono erano finiti. Protendeva però anche verso quella malinconia a lei tanto cara. A quel quadretto mancava una tazza fumante di te. Come una stupida si era dimenticata di riempire un po' il suo termos prima di incamminarsi verso quell'angolo della riserva. Se per quello non aveva visto neanche le previsioni atmosferiche.
    Poco importava. Avrebbe atteso lì che spiovesse o -alla peggio- un incanto impermeabile e via. Era bello anche camminare sotto la pioggia. Ballare, cantare, correre. In realtà l'autunno, coi suoi colori caldi, il profumo della legna bruciata e le tazze fumanti, era la sua stagione preferita.
    L'attimo di quiete però venne interrotto dalla voce familiare, ma per certi versi sconosciuta, di un ragazzo. Si sollevò sui gomiti, reclinando il capo fino a trovarne l'origine. Un primino, probabile dei Black Opal se non andava errata, si stava scusando per aver interrotto la contemplazione del nulla. «Se riesci fammelo sapere», si mise a sedere, le gambe penzoloni studiandolo da sotto le ciglia lunghe. Non aveva avuto voglia di truccarsi quel giorno, neanche di farsi bella in generale se per quello. Indossava un paio di jeans stretti alla caviglia, un maglione morbido di un blu elettrico che si intravedeva dal mantello aperto. I capelli erano la solita massa infinita di riccioli stretta in uno chignon morbido sulla testa. Probabile che avesse perso gran parte dei ciuffi. «Dicono che il compagno della Preside -incredibile ne abbia o che ne avesse uno, vero?- abbia creato degli scudi che si attivano in caso qualcuno sia seduto in eventi meteorologici avversi». Dire che piovesse o nevicasse era troppo semplicistico.«Secondo me sarà qualche scudo astrale, magari con qualche sigillo con Urano o Nettuno» buttò lì, scostandosi un po' e lasciandogli metà superficie grande disponibile. «Credo ce ne vorrà per un po', puoi sederti se vuoi, non mordo mica», un tentativo di essere simpatica e aperta a conoscere qualcuno al di là della sua solita cerchia. «Non ti ho mai visto ad Hogwarts...» soppesò, studiandone i tratti così come a ricordare eventuali suoi interventi nelle lezioni che avevano condiviso fino a quel punto dell'anno scolastico. «Ilvermorny o Mahoutokoro?»
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    In realtà, spesso ha la sensazione non tanto di vivere, quanto di esistere, di lasciarsi trascinare, giorno dopo giorno, senza mai prendere l'iniziativa.
    Ma non si condanna certo, per questo: il semplice atto di continuare a esistere è già duro a sufficienza.
    *
    Deve fermarsi. Non riesce più a vedere nulla, la vista completamente appannata. Ha solo la forza di staccare uno di quei piccoli post-it colorati -blu, per i momenti e le frasi tristi- e posarlo sulla frase che l'ha appena distrutta.
    Non può finire il capitolo tutto d'un fiato come avrebbe fatto in altre occasioni. Si lascia vincere da quelle parole messe nere su bianco, parole capaci di ricordarle quel periodo oscuro in cui si era lasciata trascinare dagli eventi. Fare una doccia, lavare i denti, indossare la divisa e andare a lezione erano diventate attività sfibranti, persino il cibo aveva perso il suo fascino, il suo potere su di lei. Ogni giorno le era sembrato uguale, un buco nero che la risucchiava, con pochi sprazzi di luce a dirle che però era ancora viva. No, sopravviveva.
    Un movimento rapido delle palpebre, un paio di volte per ritornare a vedere l'immagine di quell'uomo in copertina che stando alla quarta era in preda all'orgasmo, per lei solo dolore. A little life, una piccola vita, una vita come tante ma che in realtà era unica. E pensare che si era ritagliata un piccolo spazio di tempo perché convinta di mandar giù l'ultimo centinaio di pagine perché il peggio era passato. Era stata solo una piccola stolta. I libri non erano oggetti innocui, non per nulla erano tra le prime cose che venivano date alle fiamme per cancellare il passato, una società. I libri erano ragione, sentimento, informazione e fantasia; potevi vivere tante vite rimanendo ferma a voltare una pagina dopo l'altra per poi rimanere con una sensazione di vuoto. Le accadeva anche con testi che non erano chissà quanto elevati nell'argomento o nello stile di scrittura.
    E se molti trovavano eccessivo quello che l'autrice aveva segnato in quelle pagine, Amalea finiva col trovarne giovamento, un senso in tanti piccoli eventi che avevano causato tempesta e rovina. «Come quell'effetto lì, quello delle farfalle», aveva riassunto il tutto dimenticandosi del fautore di quella teoria. Non ricordava se fosse di un libro, di un film, di un matematico o pura fantascienza. Quel che rimaneva era che bastava un semplice battito di ali di farfalla per causare uno tsunami dall'altra parte del mondo. E chissà quale lepidottero aveva appena scatenato la sua magia per avere quell'improvviso temporale a squarciare quel tranquillo sabato mattina. Non se ne curò. Era su una di quelle panchine ombrello dove di tanto in tanto vi aveva fatto quel picnic e sapeva che alla prima goccia di pioggia uno scudo si sarebbe sollevato per proteggere chi occupava tavolo e sedute. Si distese su quello dalla superficie più larga, stringendo al petto il volume che aveva accantonato per il momento ed osservando la pioggia che veniva giù.
    Amalea Davidson

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    Fill your paper with the breathings of your heart.
    "

    Dioptase
    Corvonero

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    *Quotes di "Una vita come tante" di Hanya Yanagihara.
75 replies since 1/9/2021
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