Soulmate pt. 2

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    Shakespeare ci aveva fatto fortuna con Montecchi e Capuleti e l'amore tragico tra Romeo e Giulietta, mentre loro quello che riuscivano a ricavare eran tutt'al più momenti rubati e confusi alla monotonia della quotidianità. Cos'erano, chi erano, dove stavano andando erano quesiti che non aveva mai osato pronunciare ad alta voce. E no, non era contemplato il banalissimo moto a luogo cui avrebbe dovuto rispondere. Perché se le veniva chiesto dove stessero andando, in quel momento, la Lynch avrebbe banalmente risposto: «via da qui». Poteva essere un'aula vuota, uno dei bagni o persino le serre. In realtà voleva essere lontana da ogni essere vivente che avrebbe potuto giudicarla per aver permesso al norvegese di prenderla come un sacco per infrattarsi tra gli scaffali, la mano per lasciarsi alle spalle la biblioteca, mentre nel mentre iniziava a credere a quelle parole che sapevano di promessa: fino in capo al mondo, se necessario. Erano parole pesanti, non dette a cuor leggero, segno che lui per primo ci credeva.
    Ma, in effetti, dove stavano andando? Dopo esserselo trascinato fino alla porta della sala comune con il solo intento di lasciare i libri e prendere qualcosa di più comodo, aveva riallacciato le mani tra loro fino a condurlo alla torre dell'orologio. Con i primi caldi e le belle giornate era certa che non avrebbero trovato nessuno all'interno, soprattutto alla ringhiera di ferro che permetteva di vedere gli interi territori di Hidenstone. E solo lì lasciò andare la sua mano, per appoggiarsi con entrambe ad essa e gustarsi il sole morente.
    Se fosse stato vicino avrebbe lasciato che parte del suo corpo si appoggiasse a lui. «Mi piacciono i tuoi capelli così» ammise, in un sussurro, senza però guardarlo. «Mi sei mancato. Quando non c'eri, non ti facevi trovare, tu mi sei mancato». Ed era vero. Si era sentita persa, tremendamente sola e spenta. Perché checché ne dicessero gli altri, Cameron Cohen era il sole, il suo sole in grado di illuminare tutto e non aveva alcuna intenzione di perderlo, anche se questo poteva significare la possibilità di mettere un punto ad un lato fisico predominante. Perché era meglio averne un po', un piccolissimo pezzettino, che non averne affatto.
    Elisabeth
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    Sembrava quasi che la distanza tra loro si fosse completamente annullata e non solamente quella fisica, anche quella che aveva allontanato due anime nere che ora tornavano ad incontrarsi e scontrarsi, unica cosa che sembravano in grado di fare.
    Avevano fatto una veloce tappa in sala comune di lei per permetterle di lasciare là i libri e di cambiarsi, quindi lui la aspettò lì fuori con infinita pazienza. La aspettò finché le loro mani non si furono congiunte ancora, dopodiché si lasciò condurre ovunque lei avesse voluto ed il loro peregrinaggio, li portò alla Torre dell'Orologio, dalla quale avrebbero potuto avere una splendida e completa visuale del mondo esterno, con il sole che stava appena iniziando ad osare un po' di più, restando in alto oltre l'orario cui erano abituati, tuttavia era giunto -anche quel giorno- il momento di dar spazio ad altri, perciò stava lentamente scendendo oltre l'orizzonte, bagnando il mondo di una tiepida luce arancione, che rendeva tutto più magico. Sembrava di essere all'interno del Re Leone.
    Non si allontanò da lei nonostante le loro mani non fossero più intrecciate e, di riflesso, la imitò, posando anche le proprie mani su quella ringhiera, posandovici come se ne andasse della propria vita. Era un appiglio materiale, ma era sempre meglio di niente. Avrebbe continuato a stare così ed in silenzio ancora per lunghi attimi, volendo rimandare un possibile confronto, ma non gli fu più possibile quando sentì addosso il peso di lei. Quindi, lasciò andare la ringhiera con la mano destra, che decise di avvolgere -con rispettivo braccio- attorno alle spalle dell'opalina, per tenerla stretta a sé. Il respiro rallentato, calmo, vero. Era stato come riemergere dall'acqua, anche se lui ne aveva la tremenda fobia... e lei lo sapeva bene. Avrebbe voluto rompere quel silenzio che, comunque, non era affatto imbarazzante, ma ci pensò lei.
    Mi stanno bene, dici? Magari dovrei dirlo al parrucchiere, potrei farmeli permanenti propose con una mezza risata, prima di concentrarsi però sulla frase che gli premeva veramente. Un morbido sorriso gli incurvò le labbra. Cameron era sempre stato il ragazzo rude, lo stupido stronzo che non badava ai sentimenti altrui, almeno lo era stato prima di conoscere Mia e anche un po' durante, anche se lei aveva contribuito a mitigare il suo lato così. Da quando si erano lasciati, credeva che quel lato del suo carattere sarebbe tornato a dominare, eppure... Liz lo rendeva migliore. Lo aveva sempre fatto, anche senza saperlo.
    Volse la testa verso di lei e le portò una mano sotto il mento per obbligarla a guardarlo. Era più alto di lei, quindi dovette abbassare il volto. Mi sei mancata anche tu, davvero. Non avrei mai voluto farti soffrire. Ne far soffrire Mia. Avrei semplicemente voluto essere migliore. Sospirò, sconfitto da quella confessione. Nonostante ciò che sentiva per Elisabeth, non andava fiero del tradimento perpetuato nei confronti di Mia. Quella stessa alla quale aveva regalato il bellissimo vestito appartenuto ad Arya Cohen prima di lei, una parte del suo cuore.
    Potrai mai perdonarmi? Glielo chiese chiaramente, anche se con i suoi gesti e le sue altre frasi, doveva averglielo chiesto almeno un milione di volte. Si abbassò ancora un po' fino a posare le labbra sulle sue. Stavolta fu un bacio dolce, calmo, non c'era passione, non c'era voglia di farla sua, non in quel momento. Era un gesto per segnare una pace duratura e felice. O almeno, lo sperava. La sua mano che prima stava sulle sue spalle, scorse verso il basso fino a posarsi dolcemente alla base della sua schiena, giusto per attirarla di più a sé, ma senza approfondire quel bacio. Voleva semplicemente sentirla. Non so dove ci condurrà tutto questo iniziò, ansimando nel tentativo di riprendere fiato. So solo che mi piace concluse, prima di sancire il silenzio con un altro, lungo bacio.
    Cameron Cohen


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    Arancio, giallo e rosso divoravano l'azzurro lasciandosi dietro un viola carico di promessa del blu. Un cambio di prospettiva, un modo per vedere la stessa cosa e rimanerne comunque affascinati. Il movimento delle chiome degli alberi, il cinguettio ed il verso di uccelli che lasciavano e tornavano alla voliera, il cicaleccio degli abitanti del castello, il profumo dell'erba appena tagliata.
    Succedeva la stessa cosa con le persone? Bastava fermarsi, cambiare angolazione e si scopriva qualcosa di nuovo? Magari così non era, ma l'esperienza le aveva dimostrato quando in realtà quell'osservazione fosse vera. «Allora perché tutti continuano a vedermi sempre allo stesso modo?» Semplice, perché farlo significava impegno, sforzo e non tutti erano disposti a rischiare, preferendo abbeverarsi del noto, del visto e rivisto. Quanti effettivamente avevano provato a scrollarsi di dosso i loro panni ed indossare i suoi? Perché non riuscivano a capire che diverso non debba significare forzatamente sbagliato? E quanto il ragazzo accanto a lei era abituata a vederla in quello stesso modo, sin dall'inizio, senza mai cambiare prospettiva?
    Che poi forse la prospettiva l'aveva davvero cambiata, altrimenti non si sarebbero ritrovati in quel caos -al momento calmo- tra loro ed il resto del mondo. Cameron Cohen si fidava di lei, affidandole la vita ed i suoi segreti più oscuri e lei li aveva conservati, nascosti e non usati per ferirlo. Con tutto quello che sapeva di lui quanto sarebbe stato facile colpirlo a morte? Troppo. Il solo pensiero le scatenò un piccolo brivido. Non avrebbe mai potuto desiderare nulla del genere per lui. Non gli avrebbe mai fatto volontariamente del male, soprattutto non quando il suo potere aveva finito coll'essere esercitato per affermare quanto fosse entrata sotto pelle. «Sai che sei tipo l'unico a poter risparmiare sul parrucchiere e la chirurgia estetica babbana, vero?» Per non parlare di pozioni ed intrugli vari, oltre che incantesimi. Aveva forse usato la metamorfomagia per nascondersi in tutte quelle settimane in cui erano stati separati? L'ammissione su quanto le fosse mancato la rese ancor più umana e fragile di quanto era stata disponibile a mostrarsi con lui. La sua fame di voler sapere, capire, cosa fossero però diveniva sempre più difficile da soddisfare con il "vivi e sorprenditi di quello che accade" di cui si era alimentata a lungo. Perché per quanto avesse provato a scrollarsi quella rigidità che la portava a classificare tutto, non poteva cambiare davvero del tutto.
    Sentì le sue dita sotto il mento, seguendone il comando fino ad incontrare il suo sguardo e la sofferenza che si celava, la stessa che avvertì nella sua confessione. Sapeva che non aveva voluto niente di tutto ciò, eppure in quella storia ne erano usciti tutti e tre con ossa e cuori infranti. Avevano tradito e quella era una macchia che difficilmente avrebbero potuto scrostare. Non c'erano miracoli. Non per loro. E quanto al perdono... come potevano davvero parlarne quando lei per prima aveva sbagliato? Perdonarlo perché si era preso il suo tempo, per mettere ordine nel caos che era e che aveva contribuito a creare?
    Alcuna parola uscì e non tanto per il bacio dal sapore agrodolce che finirono con lo scambiarsi. Il corpo ormai era del tutto girato verso di lui, alla ricerca di un appiglio, di una solidità che una ringhiera non avrebbe potuto effettivamente darle. Erano vicini, le labbra unite in movimenti lenti, calmi, privi di frenesia e paura che il tempo potesse scadere da un secondo all'altro. «Vuoi» si scostò, cercandone lo sguardo per capire che fosse lì con lei «vedere come va?» Una nota di confusione nella domanda sussurrata. Ne sarebbe davvero uscita con un altro periodo di stallo? Ma d'altronde se non voleva neanche un qualche tipo di ufficializzazione cosa stava cercando davvero? Cos'è che pretendeva? Un modo per sentirsi meno in colpa quando lo baciava davanti agli altri? Di non sentirsi sporca perché finiva sempre col cercare un contatto fisico con lui a ricordarle che fosse sempre al suo fianco? E quelle, alla fine, non erano cose che facevano le coppie?
    «Aiutami a capire una cosa però», le braccia continuavano a cingere il corpo di lui, la mano sinistra era finita sulla sua nuca a giocherellare con i capelli ancora lunghi e cerulei. «È la situazione a piacerti o...» Quanto poteva essere difficile a pronunciare quel pronome, quella sillaba composta da sole due lettere? Perché sapeva che la risposta che ne sarebbe arrivata sarebbe stata in grado di cambiare tutto: via l'amicizia, via l'affetto che provavano, via l'attrazione che li aveva uniti. Lì si parlava di qualcosa di più profondo, di diverso, qualcosa che gettava nella confusione più totale la battitrice, rendendola di fatto incoerente, spaventata ed inetta. Cose che non era mai stata o che credeva di non esserlo mai stata. «Io?»
    Elisabeth
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    Cameron aveva paura di deluderla, Elisabeth.
    Non aveva idea di che loro direzione stesse prendendo il loro rapporto, eppure non poteva più definirsi una semplice amicizia, nemmeno se di semplice, tra loro, non c'era mai stato davvero niente. Certo, era stato facile andare d'accordo perché lei sembrava la sua versione al femminile e viceversa, ma c'era da sempre quella sottile linea di attrazione tra loro, sebbene si fosse concretizzata solamente qualche mese prima. Adorava Mia, eppure solamente Liz riusciva a capire esattamente chi fosse. La bionda era adorata da tutti, era statisticamente impossibile che qualcuno potesse avercela con lei, era sempre buona con chiunque. Loro invece. Erano i reietti della scuola. Due incompresi angeli neri ma se solo qualcuno avesse osato esporsi, cercare di capire cosa si nascondesse dietro quegli animi solitari, probabilmente non sarebbero rimasti delusi. Né Cam né Liz erano delle persone cattive, avevano solamente un vissuto che le aveva portate a determinate scelte e decisioni, nonché stili di vita. Ed alla fine, si erano ritrovati. Un sorriso, mentre la osservava con la coda dell'occhio, abbracciando con l'iride i suoi lineamenti così delicati e duri al tempo stesso.
    Dici che nessun altro sia come me? Le domandò, accarezzandosi i capelli con vanità. Sotto una domanda apparentemente così spensierata e superficiale, però, si nascondeva molto bene la paura che effettivamente fosse lui quello diverso, quello sbagliato, quello che nessuno avrebbe mai voluto. Lei, però, avrebbe potuto intuire il terrore che si intrecciava nelle sue parole.
    Aveva proprio paura di deluderla. Aveva fin troppi demoni, sarebbe riusciti a combatterli tutti e rimanere a galla per lei? Questo proprio non lo sapeva... ecco perché, fin dal primo momento, aveva cercato di scoraggiare chiunque dall'avvicinarsi a lui, dall'affezionarsi a lui. Sperava che sarebbe stato facile evitare tutto quello, eppure ora si ritrovava in una situazione difficile.
    La osservò, la baciò, si nutrì di lei. Ma venne il tempo di scostarsi e parlare, nonostante i suoi corpi stessero rimanendo vicinissimi. Incrociò il suo sguardo ceruleo, riflesso dei suoi capelli. Alla sua domanda, rimase in silenzio, rompendo il contatto visivo per spostarlo sul cielo che si stava tingendo d'arancione. Non avrebbe mai più allontanarsi da quella ringhiera, da lei. Ma sapeva che dovevano davvero parlare e smetterla di allontanare l'argomento come se non valesse la pena. Voglio credere in noi, Elisabeth replicò, con un nodo alla gola, mentre la nebbia dei suoi pensieri, si schiariva leggermente. Cosa diavolo stava combinando? Stava definitivamente distruggendo ogni possibilità di tornare con Mia? Insomma, sarebbe stato tutto molto più tranquillo, con la biondina. Annuì, lasciandola continuare.
    Un'altra pausa che parve infinita, ma stavolta nello sguardo di Cameron non si leggeva nessuna esitazione, solo un immenso stupore. Non rispose direttamente alla domanda, bensì ne pose un'altra.
    E' così difficile per te, Liz, credere che qualcuno possa essere interessato a te? Che per qualcuno, tu non sia il mostro che ti ostini a credere di essere? Le sussurrò a fior di labbra, addolorato che credesse una cosa del genere. Certo, la situazione era elettrizzante e non poteva negarlo, ma non sarebbe stata niente senza di lei a renderla viva. Erano due fiamme che divampavano all'inferno, ma solo unite riuscivano a bruciare di più del diavolo stesso.
    Le sue mani scesero, accarezzandole la schiena fino a posarsi sulle sue natiche e stringere. Una presa salda, un tocco prepotente, che avanzava delle pretese. Ma pur sempre gentile, privo della possibilità di farle male. La sollevò, mettendola a sedere sulla ringhiera, in bilico. Solamente le sue mani, le stavano impedendo di volare di sotto. Ma lui non l'avrebbe lasciata cadere. Ti fidi di me, Elisabeth? Le sussurrò, tenendola saldamente per i fianchi. Voleva farle capire che lui non la vedeva solamente come una situazione tremendamente eccitante. Voleva farle capire che lei, per lui, valeva tanto. Tutto.
    Cameron Cohen


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    Voglio credere in noi. Un noi indefinito, decisamente fuori dagli schemi ma loro. Interamente. In qualche modo però non era sufficiente. Paletti, definizioni, spiegazioni che non voleva ma che bramava. Era tutto un dannato casino nella sua testa, nel suo cuore, in ogni fibra del suo essere.
    Era una codarda, fatta e finita. Aveva paura di perderlo. Aveva paura in prendere quel noi e distruggerlo come ogni dannata cosa che faceva. Il loro rapporto aveva scricchiolato a lungo prima di collassare sotto l'ennesima ondata di lussuria che aveva infine deciso di farsi abbattere. E cosa ne aveva ricavato? Ancora odio da chi non riusciva a capire cosa fossero loro due; dolore, tanto dolore, che non era solo tra lei ed il ragazzo che era a sorreggerla quanto anche di una ragazza che non aveva meritato affatto quello che avevano fatto. Eppure non riusciva. Non riusciva a dare un taglio fermo e deciso a quello che avevano, nonostante i vari tentativi, i litigi e le urla che ne erano seguite. Cameron Cohen era una droga, ma lui sarebbe riuscito a sopravvivere al suo veleno?
    Eppure si stava permettendo quasi di sperare una cosa che non sapeva neanche lei cosa fosse nel concreto. Troppe variabili erano presenti in quella semplice, apparentemente, somma. Solitamente uno più uno fa due ma non quando quell'uno era rappresentato da Elisabeth Lynch, la manipolatrice delle figure geometriche per eccellenza, che si serviva di segmenti solo per creare qualcosa di nuovo, di astratto.
    Ma in quel momento erano solo loro due, vicini, uniti da braccia che cingevano, mani che esploravano e parole, poche, che provavano ad esprimere il tanto che avevano dentro.
    Calò sul tavolo quindi qualcosa che sapeva in futuro poter essere usata come un'arma per seppellirla definitivamente. La situazione o lei? Cosa lo attraeva di più in quel sordido gioco che più tale non era?
    Riportò lo sguardo nel suo alle sue di domande. Odiava quando qualcuno non rispondeva ai suoi quesiti, girandone di nuovi. «Io sono un mostro», un'affermazione pesante, dolorosa. «Perché se non lo fossi allora spiegami tutte le cose che mi sono successe! Se non sono un mostro allora perché io? Perché?» Perché aveva bisogno di continuare a credere di essere una stronza, che si meritava tutto il dolore, lo schifo, la solitudine della sua vita e non che fosse frutto di eventi o di destini già scritti che non poteva cambiare. E lei non era fatalista. Non lo sarebbe mai stata. Il respiro accelerato in contrasto con la delicatezza di quelle dita che ancora erano intrecciate a quei ciuffi ribelli. Dita che si strinsero al colletto per tenersi quando lui la sollevò, spostandola sulla sottile ringhiera, verso quel vuoto che una parte di lei bramava. Un oblio dal profumo di pace. La precarietà di quella posizione, il vento che le scompigliava i capelli, il pericolo di poter cadere da un momento all'altro avevano scatenato un'adrenalina così potente da farla sentire viva. Non era la stessa cosa dell'essere su un manico di scopa, non aveva il controllo. Non del tutto. Chi giostrava erano le mani del norvegese sui suoi fianchi a tenerla stabile. Si fidava di lui. Gli aveva dato quel potere fin troppo tempo fa. «Sì». Una sillaba che valeva oro. E venne poi il suo turno di rivolgergli la domanda. «E tu? Ti fidi di me?»
    Strinse le dita un'ultima volta prima di smollare la presa ed oscillare un po', fino al ritrovare l'equilibrio con l'uso degli addominali, le gambe a cingergli i fianchi. «Cam», si strinse a lui, forzandolo ad indietreggiare e a portarla con lui al sicuro, al riparo, nella vecchia torre dell'orologio. «Non credo che qualcuno possa essere interessato a me, davvero, perché nessuno è mai rimasto», poi ripensò a Jones e a quello che lei aveva fatto coi suoi sentimenti. «Perché io non ho mai permesso che rimanessero», scese da quella che era stata una morsa a koala solo per andare a mettersi spalle a muro, scivolare fino a toccare terra. «Ho paura di perderti. Non lo sopporterei. Non sopporterei che tu potresti essere uno che non rimarrà». Un discorso che andava oltre il sesso, l'amore e le corde dell'amicizia. Un discorso che avrebbero forse dovuto affrontare prima che lui la prendesse nel bagno degli spogliatoi al campo di quidditch. «Non posso perderti».
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    Se non avesse giurato di non diventare mai un mostro come suo padre e di non alzare mai le mani su una donna, avrebbe preso a schiaffi la Lynch. Com'era che non riusciva a vederla come lui la vedeva? Come chiunque sano di mente avrebbe dovuto vederla? Lui aveva una diversa concezione di mostro e ci teneva a farglielo capire, che lei lo volesse o no.
    Smettila di dire stronzate, ragazzina la redarguì, tenendola comunque stretta perché non si annullasse la distanza tra lei ed il baratro. Era l'unica cosa che le impediva di cadere giù ed avrebbe fatto sì che continuasse ad essere così.
    Ho conosciuto tanti mostri, nella mia vita, lo sai. Iniziò, spostandole delicatamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio, osservandola con sguardo severo e dolce allo stesso tempo. Era una ragazza fragile, Elisabeth, per quanto volesse dimostrare sempre e comunque il contrario. Una donna intraprendente, un'abile giocatrice di Quidditch, brava a scuola e tremendamente strafottente. Ma lui. Lui aveva visto al disotto di quella corazza che si ostinava a mostrare a tutto il mondo, evincendo la ragazzina fragile che in realtà era. Un sorrisetto amaro gli si dipinse sulle labbra.
    Mio padre che ha quasi ucciso mia madre, era un mostro. Sollevò un dito davanti al suo viso, come preparandosi ad un elenco puntato. Quel docente che ha ucciso mia sorella, era un mostro. In quell'ultima frase, il solito dolore sordo che lo accompagnava ormai da anni, tornò a martellare all'interno del suo cuore, sgretolando quella sosta che gli aveva concesso. Ma tu, Elisabeth Lynch, sei... una meraviglia. Lo disse infondendo in quelle parole tutta la convinzione di cui era capace e glielo avrebbe ripetuto all'infinito, se fosse stato necessario.
    Anche alle persone migliori succedono cose brutte. Credi che anche io sia un mostro? Anche a me è successo qualcosa che non dovrebbe mai succedere a nessuno. Fece una pausa prima di rivelarle qualcosa che probabilmente non sapeva e che in realtà non riguardava nemmeno lui, ma a lei non avrebbe nascosto mai niente, come se fosse parte della sua anima. Olwen. Lui secondo te è un mostro? Quella domanda sembrava non avere nessun senso, ma voleva chiaramente una sua risposta, perché Lancelot era una delle persone migliori che avesse mai incontrato. Avrebbe quindi aspettato una sua risposta, prima di proseguire. Si è meritato di essere costretto a mentire, tradire e legare suo cugino a causa di una possessione? Di un esorcismo che aveva subito nel tentativo di salvarlo? Vederlo sottoposto ad un doloroso rituale senza poter fare nulla? Osservarlo con l'incertezza? Se quell'uomo avesse mentito, Alexander non sarebbe sopravvissuto. Si ricordava quanto quel suo racconto gli si fosse impresso a fuoco nel cuore. Non era qualcosa che si dimenticava da spettatori, figurarsi per chi ci si trovava a viverlo... aveva provato dolore per lui ma al contempo era stato grato che avesse condiviso con Cam quel suo segreto che probabilmente fino a quel momento sapevano solo le poche persone che erano state protagoniste.
    La sistemò meglio su quella ringhiera, ancora più in bilico, ancora più instabile. Ma non l'avrebbe lasciata andare mai, però era una curiosa metafora della loro vita fino a quel momento: era stata caratterizzata da tutto fuorché sicurezze, che avevano fatto credere loro di essere le persone sbagliate in un mondo tremendamente sbagliato. Lui stesso, spesso, credeva di essere un mostro... ma in quel momento non si stava parlando di lui.
    Mi fido di te ricambiò la cortesia, sincero. Si fidava di pochissime persone al mondo, forse solo due, e Liz si era guadagnata di diritto uno di quei posti limitati, assieme alla bionda che -si vergognava al pensiero- in quel momento non riusciva nemmeno a ricordare bene nei lineamenti.
    Sospirò quando le sue gambe gli cinsero i fianchi e di riflesso, accentuò la presa sui suoi fianchi, tenendola più verso la terraferma che verso il terribile oblio che entrambi avevano desiderato e desideravano fin troppe volte, nella loro vita.
    Liz replicò, avvolgendole le braccia attorno alla schiena ed assecondandola, indietreggiando fino a portarla completamente verso terra, dove nulla di mortale avrebbe potuto nuocerle. La lasciò andare, osservandola senza replicare, mentre andava contro il muro e vi scivolava contro, come sconfitta.
    Tu non capisci, Lynch soggiunse, avvicinandosi ed accucciandosi davanti a lei e posando le mani sulle sue ginocchia per aiutare la sua stabilità.
    Non capisci davvero. Tu sei... Tu sei il mio "meno male", lo sai? Un'altra frase che poteva sembrare non avere alcun senso, ma per lui riusciva a riempire una stanza con i suoi significati. Meno male che ci sei, meno male che mi tieni vivo con la tua presenza. Meno male che rendi tutto più sopportabile. Meno male che accanto a te mi sento vivo. Tu sei il mio meno male, perché da quando ci sei tu, fa tutto meno male. Una pausa mentre crollava in ginocchio, facendo scivolare via le mani dalle sue ginocchia e posandole contro il freddo pavimento della torre. Da quando ho te, la morte di Arya è un po' più gestibile. Da quando ho te, lo sono anche i miei attacchi di panico. Un po' più gestibili, voglio dire. Scivolò accanto a lei e la attirò tra le sue braccia. Stavolta, però, il gesto non aveva proprio nulla di sessuale... era più un bisogno di averla vicina. L'avrebbe fatta accoccolare contro il suo petto, se glielo avesse permesso, per lasciare che fossero i loro respiri a continuare quel discorso.
    Cameron Cohen


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    La sua parte razionale era consapevole di non essere un mostro nel senso stretto del termine ma la sua parte più emotiva, fragile, no. Lei era un mostro, si sentiva un mostro e tutte le davano del mostro. Quanto poteva essere forte il condizionamento dell'altrui pensiero anche per una come lei? Perché quella percezione di sé era frutto degli ultimi anni, dei bombardamenti di merda che l'avevano investita per qualsiasi cosa faceva. E persino in quel momento, mentre Cameron le ricordava di aver conosciuto tanti mostri, si sentiva tale. Lei, che si definiva un mostro quando il padre era un uxoricida mancato e sua sorella era stata uccisa da una persona che aveva il dovere di proteggerla. Voleva stringerlo, voleva tranquillizzarlo, voleva togliergli quell'orribile fardello che gravava sulle sue spalle ma sapeva che lui non l'avrebbe accettato, non così, non in quel momento. E si sentì peggio quando lui le disse che era una meraviglia. Percepibile era il peso che lui metteva in ogni singola sillaba di quella parola. Me-ra-vi-glio-sa.
    Ma lui non aveva ancora finito.
    «No, certo che non sei un mostro!» Ribatté, prontamente, con indignazione. Per lei, neanche per un istante, neanche quando le aveva urlato contro dopo aver rivelato quello che avevano fatto alle spalle di Mia, l'aveva definito tale. Scosse la testa, quando venne tirato in ballo persino Olwen. Credeva che quell'uomo non fosse in grado di far male a una mosca, che fosse uno di quelli che scendeva con l'artiglieria pesante solo quando l'ultimo, ennesimo, tentativo di diplomazia falliva. Non sarebbe mai stata come lui, così perfetto, senza macchia, persino al racconto di Cameron. Come faceva a sapere tutte quelle cose? Chi era Alexander? Un ricordo di Naga, di chi aveva combattuto, si affacciò, ma lo scacciò velocemente. «Olwen è praticamente un santo anche quando fa scelte discutibili».

    Un rinnovamento di fiducia ed i due si trovarono uniti, lei avvinghiata a lui, alla ricerca di un porto sicuro che trovò poi contro un muro, sciogliendo la sua presa sul suo corpo. Aveva bisogno di essere sola per poter ammettere la sua paura più grande: perderlo. Se lo ritrovò vicino e al tempo stesso distante, mentre si lanciava in una filippica che la lasciò a mente, cuore e bocca aperta. Quest'ultima letteralmente. Era in ginocchio da lei, mentre le rivelava come quella voglia di togliergli quel peso dalle spalle c'era riuscita. In minima parte, ma ce l'aveva fatta. Ricambiò la stretta delle sue braccia, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo, lasciandosi andare ad un pianto liberatorio, silenzioso, con le dita che probabilmente avrebbero lasciato lividi per l'intensità con cui lo stava stringendo. «Anche tu sei il mio meno male, Cam». Un dato di fatto ma sapeva che aveva bisogno di sentirlo dalle sue labbra. E, dentro di sé, promise che avrebbe cercato di esserlo il più a lungo possibile. «Sempre».
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