Tutto sembrava andare a fuoco. La sua pelle, i suoi muscoli, le sue ossa, la sua anima. Una fitta pioggia sottile scendeva imperterrita da nubi
oscure, dense, cariche di sordide promesse sinistre. Goccia dopo goccia una nuova ferita veniva creata, aperta, scavata. Sentiva l’energia scivolarle via dalle mani che, nonostante tutto, cercavano di aggrapparsi frenetiche a quel bastoncino di legno che in realtà significava vita. Non c’era un riparo. Non un ombrello, una tenda, un dannatissimo balcone o una piattaforma. Già, le piattaforme. Sembrava che non fosse più capace di creare una struttura solida, grande abbastanza da coprire l’esile corpo. Si trasformavano in gradini ripidi, scivolosi e destabilizzanti per un equilibrio già precario. Come scollegata dalla sua volontà vedeva la bacchetta sollevarsi e produrre eleganti svolazzi con il suono dell’incanto a giungerle ovattato alle orecchie.
E poi la scena cambiava. Era in cima alla torre. Non c’era nessuno oltre lei, un fuoco scoppiettante ed uno strano cerchio impresso sul pavimento di una tinta cremisi. Sangue, fuoco, pioggia. Simboli astronomici e numeri, forse persino qualche runa. Più si avvicinava e più non riusciva a mettere a fuoco. Più si avvicinava e più sentiva i sensi venire meno. Più si avvicinava e più l’ora del risveglio era vicina.
Kenna si sollevò a sedere di scatto sul letto. Le lenzuola, leggermente umide di sudore, stringevano i polpacci in una stretta dolorosa. Ancora una volta gli avvenimenti di qualche settimana prima avevano dominato i suoi sogni. Seppur quando si avvicinava finiva con il non vedere cosa ci fosse all’interno di quel cerchio la magistorica ricordava perfettamente i simboli rosso sangue prima di spazzarli via con la magia. A dimostrazione di ciò bastava fermarsi qualche secondo ad osservare la rete di simboli e numeri che lasciava su ogni pezzetto di carta che le capitava tra le mani. Il taccuino era carico di cerchi, triangoli, triskele e rettangoli. Seppur quello tracciato dalla sacerdotessa invasata fosse circolare l’ex docente aveva deciso di cambiare la struttura a quel sigillo. Ne era diventata quasi ossessionata. Diverse ormai erano le volte che si sottraeva ad una cena o quattro salti sul letto di Garlic tanto era presa dalla febbrile ricerca di perfezione. Voleva non solo riprodurre e manipolare a proprio piacimento la pioggia acida che tanto aveva arrecato dolore a lei e al suo gruppo, voleva potenziarla, stabilizzarla, farne il suo segno distintivo. E perché no, esorcizzare anche quegli incubi continui.
Le sue ricerche andarono approfondendosi giorno dopo giorno, leggendo libri che trattavano la magia elementale, oscura e persino bianca. Approfondimenti furono fatti anche sulle diverse correnti di pensiero che animavano la branca dell’aritmanzia nel mondo magico accademico. Figlia di una specializzazione statunitense la MacEwen finì con lo sposare la corrente della valenza magica relativa e non assoluta circa gli elementi primordiali. Acqua, aria, terra e fuoco erano spesso identificati da uno, cinque, sei e otto, ma non per lei. Tavola pitagorica alla mano aveva ridotto a valenza aritmantica gli elementi dalla sua lingua natia: il gaelico scozzese. La terra,
talamh, era uno;
adhair, l’aria, un cinque dai richiami esoterici;
teine, come i fuochi magici, era il numero 8, che rovesciato aveva la potenza dell’infinito; infine l’acqua,
uisge, il numero 7 dalle forte potenzialità magiche.
Fatto quello però ricordava la presenza di un fuoco acceso, immune alla pioggia perché all’interno del cerchio, un elemento fisico che lei avrebbe voluto sostituire in altro modo. Voleva la potenza dei numeri per quello, mentre l’aiuto degli astri e delle antiche rune sarebbero andate tutte a sostegno della pioggia e della sua peculiare forza corrosiva.
In un primo momento si era servita di due numeri e due simboli astrali e con il supporto di una sola lettera del Futhark, poi li aveva spostati, seguendo un ragionamento logico e poi libero. Eppure c’era qualcosa che non le tornava.
I tempi sembravano ancora lontani per essere maturi.
I giorni passavano e il tarlo sembrava rendere la scozzese sempre più assente e distante, tanto che diverse erano le volte che non scendeva ad aprire i battenti della libreria o che, addirittura, non li chiudeva neanche troppo presa dai suoi scarabocchi. Ogni volta che affermava come quello sarebbe stato l’ultimo tentativo messo su carta alla fine la vedeva accartocciare l’ennesimo fallimento con rabbia, riducendo una povera ed innocente pergamena ad una pallina abbozzata e scaraventata dall’altro lato della stanza.
Diverse sigarette dopo, un manto di carta ad occultare il pavimento del suo studio, le labbra della storica si tesero in un sorriso abbozzato di vittoria e solo perché, da perfetta donna di scienza, voleva verificare la sua ipotesi. Con la bacchetta nella destra ed un piccolo coltellino, della famiglia dei tagliacarte affilati, nella mancina l’ex responsabile dei Dioptase lasciò la sicurezza delle mura del negozio, le vie silenziose del villaggio e buona parte di buon senso alle spalle, incamminandosi verso la foresta e, precisamente, verso una radura nascosta che avrebbe limitato i danni qualora la sua magia le si fosse rivoltata contro.
Giunta a destinazione la donna si fermò in quello che era il centro esatto di quel cerchio che madre natura aveva reso perfetto. Le fronde degli alberi gettavano l’ombra di un sole ormai morente, seppur smosse dalla leggera brezza che veniva dal mare. Con la bacchetta, senza alcun utilizzo della magia, iniziò a tracciare un grande cerchio, seguito da quattro più piccoli nelle posizioni dei punti cardinali. Questi ultimi erano legati tra loro da un quadrato e da una croce che però era priva di punto di congiunzione. Infatti le braccia di quella croce greca incontravano la resistenza di un altro cerchio. Iniziò da est, così come il sole augurava il giorno sin dalla notte dei tempi. Lì tracciò un otto fluido,
teine, il fuoco che avrebbe alimentato quel rito. Poi si spostò ad ovest, l’esatto opposto, lì dove il sette avrebbe dominato. La potenza dei numeri non si poteva non avvertire in quella scelta:
uisge, l’acqua, aveva la stessa valenza aritmantica di
searbhag, acido in gaelico scozzese. I ricordi suggerivano come al posto del numero arabo la sacerdotessa avesse utilizzato il simbolo astronomico di Nettuno, il pianeta dell’acqua, una scelta che lei aveva apprezzato ma anche superato proprio qualche istante prima. Infatti credeva che la simmetria dei caratteri e dei simboli fosse più importante della scelta di tracciare un tridente. Ciò risiedeva anche nella decisione di usare le sue conoscenze astronomiche per qualcosa di molto più potente, qualcosa che avrebbe avuto il sapore della chiosa per il suo sigillo.
Il simbolo successivo ad essere tracciato dalla sua bacchetta fu Berkana, la runa che infliggeva dolore, la stessa che lei aveva tracciato in direzione della sacerdotessa. Ora come allora era al rovescio, libera di usare la sua potenza distruttiva. A nord, invece, la libraia a lungo era stata divisa tra il tracciare Uruz o Thurisaz, la runa della protezione, su cui alla fine era ricaduta la sua scelta. Un pensiero -qualcuno avrebbe azzardato nominarla preghiera- attraversò la mente della corvina: proteggere chi stesse tracciando quel simbolo. Se avesse funzionato avrebbe fatto convergere quello nella possibilità di estensione della protezione anche ai suoi alleati. Infine arrivò al centro, quello che non era solo il cuore della radura ma anche il punto focale e di attivazione dell’intero sigillo. L’ultimo spazio fu interessato dal simbolo astronomico di un pianeta, sesto del sistema solare nonché il secondo più grande, capace di suscitarle un maggiore timore rispetto al canonico Marte: Saturno. Simbolo della tempesta era anche usato per indicare il veleno. E cosa ci sarebbe stato di più velenoso della pioggia acida che stava invocando?
Eppure tutto quello non bastava: per avere qualcosa in cambio bisognava pagare un prezzo e, per quella volta, sarebbe stato il suo sangue. Infilata la bacchetta nella tasca del vestito Kenna guardò con solennità la lama di quel tagliacarte affilato. Conosceva perfettamente la sensazione del filo tagliente che lacerava la sua pelle soprattutto quando le veniva recapitata della corrispondenza d’oltreoceano, ciò nonostante era perfettamente consapevole che non sarebbe stato lo stesso.
La ragazzina velata sulla torre probabilmente aveva invocato l’aiuto della madre, la sacerdotessa che avevano affrontato all’interno del tempio, o forse quell’aberrazione immonda dall’aspetto di un ragno, di un’ape regina che era scomparsa lasciando i denrisiani in balia del figlio naturale di Jason. Strinse i denti al solo ricordo. Se stava facendo tutto quello, alla fine, era perché sapeva che prima o poi i loro cammini si sarebbero incontrati nuovamente e questa volta avrebbe cercato di non essere del tutto impreparata.
«Non ho divinità a cui appellarmi. Non credo in nessun essere superiore», la voce calma risuonava per la radura complice una eco a lei favorevole.
«Ciò in cui credo è nel tangibile, nella storia, nella scelta dei singoli e delle masse». Aprì il palmo della mancina mentre la lama luccicava sotto un sole ormai morente.
«Io credo nella scienza e nella magia e saranno loro, oggi, a rispondermi». La lama venne premuta con decisione, lacerando la pelle che si tinse immediatamente di rosso. Le dita si strinsero a pugno mentre un rivolo di sangue scendeva giù fino a spiccare il volo verso il terreno in tante piccole goccioline proprio lì dove c’era Saturno. Sangue che alla fine avrebbe colorato di rosso il segno da lei tracciato e su cui ormai pendeva solo la mano del
fato.
Everything changes, everything moves, everything revolves, everything flies and goes away