Speriamo che questa volta l'acqua rimanga nel bicchiere

Jess e Lilith

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    Jessica Veronica Whitemore
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    Ci sono giornate in cui tutto va bene e giornate in cui tutto va male. Beh, quel giorno sembrava rientrare nella seconda categoria. Aveva litigato con lo zio, attraverso il magifonino, perché insisteva di farla tornare a casa un po' prima, ma così si sarebbe persa il ballo e non avrebbe potuto dare i regali ai suoi amici. Perché? Beh, perché aveva uno dei suoi dannatissimi convegni o qualcosa del genere che iniziava il 22 e voleva portarsela dietro, lei ed Alex. Ma la mora non aveva voluto sentire ragioni. Non avrebbe, per nessun motivo, rinunciato a stare a scuola fino al giorno designato. Poi ad un certo punto aveva esclamato una frase di cui si pentiva, ma l'orgoglio le impediva di chiamarlo per scusarsi. "Non sei il mio cazzo di padre", gli aveva detto. Beh, biologicamente no... però, dall'abbandono dei suoi, l'aveva trattata sempre come una figlia, cercando di donarle tutto l'amore di cui era capace. Ma la ragazza era troppo arrabbiata e testarda per capirlo e per scusarsi, quindi gli aveva chiuso il telefono in faccia e se n'era andata, infuriata. Aveva bisogno di andare da qualche parte, in un posto dove non vi fosse chiasso. Era pomeriggio presto, mancava ancora un po' alla prima lezione ma il pranzo era passato e suo figlio, Alex, stava riposando beatamente nel suo lettino, come se niente e nessuno potesse turbare la sua quiete. Era uscita dalla sala comune dei Black Opal senza degnare di uno sguardo i compagni e senza ricambiare gli occasionali saluti che riceveva. Possibile che fosse così difficile da capire? Così fottutamente difficile da capire che lei non era più una bambina, che era dovuta crescere in fretta sì, ma che ora sapeva badare a sé stessa, senza il bisogno di seguirlo ad ogni fottutissimo convegno? Sbuffò sonoramente mentre percorreva i corridoi senza una meta precisa ma con l'obiettivo di non fermarsi a parlare con nessuno e di trovare un posto isolato dove poter pensare. Ma non conosceva ancora così bene la scuola, quindi a furia di salire piani e percorrere corridoi, si trovò al quinto, dove raramente era stata, quindi iniziò a piantare un passo dopo l'altro, guardandosi attentamente in torno. Ma certo! Ricordava di esserci stata circa un anno prima con Blake, dove avevano tentato invano di studiare, finendo solo per discutere. Percorse la distanza che le mancava per entrare in quell'aula precisa e si guardò intorno. Sì, era proprio dove aveva provato a studiare con Barnes, dove gli aveva rivelato di essere incinta. Wow, non entrava da un'eternità. Spinse piano la porta che si aprì con un lieve sbuffo e si guardò intorno, per vedere se fosse libera.
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    Perché le giornate erano così lunghe? Perché non terminavano mai? Eppure aveva sempre desiderato avere del tempo in più perché le classiche ventiquattro ore non l'erano mai bastate.
    Adesso, invece, non faceva altro che sperare che finissero sempre più velocemente, ma c'era qualcosa che le remava contro e riuscivano a sembrare sempre più lunghe e più lente.
    Aveva spesso bisogno di isolarsi e quindi tra una pausa e l'altra cercava di sgattaiolare lontano da Blake che non la lasciava un attimo da sola, per poter rivedere il suo silenzio e piangere senza star lì a distruggere ancora di più il ragazzo che amava.
    Era chiaro che per lei valeva più non ferire Blake, che star male lei stessa, quindi quando sentiva di non poter reggere le lacrime, scappava con la scusa del bagno. Così come aveva fatto quella volta. Circa un'ora prima aveva comunicato all'Opale che aveva necessità di andare in bagno e si era defilata, prendendo - invece - la strada per l'aula in disuso, dove aveva deicso di rintanarsi.
    Quella stanza aveva molto di cui parlare, riguardo Lilith. Lì aveva incontrato Blake per la prima volta, mentre leggeva un libro e lui le aveva spiato le mutandine.
    Poi aveva incontrato Joshua, dopo tanto tempo, imbarazzandosi del fatto che ormai fosse una ragazza fidanzata sul serio, dopo quello che avevano fatto insieme, divertendosi e non poco.
    Era una stanza dove molti ricordi che erano legati a lei, la riportavano a quell'atto che adesso non voleva sentir nominare, ma nemmeno per sbaglio.
    Quello che era successo ad Ottobre, era troppo pesante per lei, non vedeva l'ora di dimenticarlo, quante volte aveva pensato di voler chiudere gli occhi per sempre?
    Quante volte aveva cercato un modo per allontanare Blake e poter fare quel passo che l'avrebbe finalmente fatta riposare per sempre.
    Non aveva detto niente alla sua famiglia, non aveva detto niente a nessuno dei suoi compagni, solo Blake sapeva, solo lui aveva saputo e le era bastato vedere le sue lacrime, per capire che non era il caso di dirlo più a nessuno.
    E questo l'aveva fatta chiudere ancora di più dentro di sé, aveva fatto in modo che si rendesse conto che non aveva alcun amico attorno a sé, che tutti la vedevano come la ragazzina con la puzza sotto il naso, saccente e piena di sé.
    Era in un angolino dietro la cattedra, di quella stanza dove nessuno mai entrava.
    Piangeva, singhiozzava, con le gambe abbracciate, piegate le ginocchia al petto, piangeva probabilmente da un'ora e gli occhi erano gonfi e rossi, i capelli ricci ancora non prendevano la colorazione giusta.
    Non si accorse nemmeno che la porta cigolò, il volto era nascosto tra le gambe, non pensava ad altro se non a piangere.
    Al suo fianco c'erano un paio di forbici. Perché?
    Forse non aveva avuto il coraggio...
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    Si sedette pesantemente su una sedia e si guardò intorno. Era evidente che quelle aule non fossero troppo frequentate, ma era un bene per chi, come lei, voleva rimanere sola. Si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio ed intrecciò le braccia sul tavolo, posandovi il mento. Ecco che, così, i pensieri avevano il via libera. Quell'anno si stava dimostrando dannatamente strano e già ne avevano avuto una prova il primo settembre al molo con l'attacco di quella sottospecie di terrorista. Sbuffò sonoramente e chiuse gli occhi, desiderando di alienarsi almeno per qualche ora, spegnere la realtà. Solo allora, in quel preciso momento in cui riuscì a zittire i suoi pensieri, si accorse di qualcosa. Sentiva un rumore quasi come se qualcuno... stesse piangendo. Ma come diavolo aveva fatto a non notarlo prima? Forse era troppo concentrata sui suoi problemi per focalizzarsi su altro. Lanciò uno sguardo alla stanza completamente in penombra e individuò più o meno il punto da dove veniva il suono. Dietro la cattedra. Certo, era inquietante pensare che ci fosse qualcun nascosto nella stanza con lei, quella stanza così isolata dal resto del mondo, ma d'altro canto non sembrava qualcosa di minaccioso, semplicemente la disperazione di qualcuno che sperava di aver trovato un luogo dove poter stare tranquillo. Per un secondo la corvina si sentì in colpa, quasi avesse disturbato un momento estremamente intimo e delicato. Ma se c'era una cosa che aveva imparato negli ultimi tempi grazie anche a quella scuola, era che non poteva certo fare finta di niente davanti a tanta disperazione. Sospirò e si fece coraggio, dirigendosi verso quella cattedra dalla fattura possente. La aggirò e quello che si trovò davanti, la lasciò sbigottita per lunghi secondi. Era Lilith. Ma non la Lilith forte che ricordava, bensì un'ombra di ciò che era prima. Stava abbracciando le proprie gambe e stava singhiozzando, quindi la ragazza si chiese, ancora una volta, come avesse fatto a non udirla. Gli occhi dimostravano che stesse piangendo da un bel po', erano gonfi, rossi e lucidi, oltre al fatto che a Jess parevano molto stanchi. Sapeva che lei era stata rapita, ma lo erano state altre tre ragazze, eppure non ricordava di averle mai viste in quelle condizioni. Nemmeno Ayla che le sembrava la più fragile. Ciò la portò a chiedersi cos'avesse fissuto davvero quella ragazza, sempre ammesso che la sua crisi derivasse da qualcosa successo durante il suo rapimento, anche se era abbastanza probabile. Si chiese anche dove fosse Blake, come mai non fossero insieme, visto che da quel giorno Blake non le toglieva gli occhi di dosso. Contemporaneamente, le venne una stretta al cuore nel pensare all'amico e alla loro litigata furiosa, ma in quel momento doveva focalizzarsi solo sulla ragazza davanti a sé. L'unica occasione per cui se la ricordava, tolte ovviamente le lezioni, era stato al Campo di Luglio, probabilmente unica volta che avevano parlato e non era finita troppo bene. Ma ora che la provava anche lei -sebbene non nei confronti di Barnes- capiva come mai la gelosia l'avesse spinta a fare ciò che aveva fatto, seppur le avesse "solamente" tirato un bicchiere d'acqua. Ma Jessica, e anche quello lo aveva imparato col tempo, non era rancorosa al punto di negare un aiuto alla ragazza. Già nell'agosto di quella stessa estate, le era passato tutto.
    Mentre era persa in quei pensieri, adocchiò un paio di forbici là affianco e nello stesso momento, si accorse che anche Lilith le stava guardando. E una ragazza in lacrime che ha vissuto un'esperienza terribile e che guarda le forbici, non era certo un buon segno. Non ci pensò nemmeno un attimo e si allungò ad afferrarle prima che un probabile pensiero malsano -parlava lei, poi...- si trasformasse in un qualcosa di concreto. Fatto ciò, le andò a posare su un banco ben lontano dalla ragazza per poi tornare da lei e chinarsi alla sua stessa altezza. Non la toccò, non voleva che avesse qualche reazione brusca, ma si limitò a parlarle. Ehi, Lilith sussurrò. Non sapeva nemmeno perché avesse abbassato la voce, ma tant'è. Non dovresti stare qui da sola proseguì, per poi pensare che la dioptase avrebbe semplicemente potuto snobbarla. Ascolta, lo so che non abbiamo iniziato col piede giusto, che non siamo esattamente amiche per la pelle, ma... non sapeva come continuare, non era esattamente portata per consolare le persone ...ma non voglio vederti così. Sei forte sussurrò ancora, allungandole una mano, come a farle segno di afferrarla per aiutarla ad alzarsi, ma sempre senza toccarla a meno che non lo volesse lei. Andiamo a sederci là e indicò i banchi e le sedie che, seppur non fossero il top come comfort, erano sicuramente più comode del freddo e duro pavimento. Ti va? La voce della corvina aveva un'inflessione dolce; sperava di convincerla perlomeno a non prenderla a parole, sebbene era abbastanza sicura che Lilith in quel momento non ne sarebbe stata in grado.
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    Era tutto troppo difficile in quel periodo. Non riusciva a vedere una vera via d'uscita in quello che sembrava l'incubo peggiore della sua vita. Non sentiva niente intorno, né amore, né odio. Voleva solo lasciarsi andare e l'idea di poterlo fare la stava attanagliando, voleva liberare tutti quelli che stavano soffrendo per lei, voleva liberare Blake dal peso che aveva condiviso, voleva liberare se stessa da quel senso di oppressione. Ormai era rotta, sporca, inesistente. Non vedeva una luce in quel buio che l'avvolgeva.

    Non aveva sentito niente attorno a sé, non aveva sentito la porta aprirsi, i passi di Jessica mentre entrava nella stanza, nulla di nulla. Non sentiva altro che il rumore dei suoi singhiozzi che come un fischio le avevano occupato le orecchie. Non si accorse nemmeno di quando Jessica le tolse le forbici vicino. Si accorse di lei, solo quando la corvina richiamò la sua attenzione.
    Lilith sgranò gli occhi, prima di sollevare la testa nascosta nelle sue ginocchia e quando vide Jessica, la prima cosa che fece, fu scattare con lo sguardo verso le forbici. Non c'erano. Si guardò a destra e sinistra. Niente. «D-damm-dammele... t-ti prego...» il suo tono non era aggressivo, i suoi occhi erano ricolmi di lacrime, mentre cercava con disperazione quella via d'uscita che Jessica le aveva fatto sparire. Era una supplica, un singhiozzo di dolore che veniva fuori in quel sussurro forzato.
    Jessica continuò a parlare, le lacrime sul volto di Lilith non disdegnavano dallo scendere.
    Sei forte.
    Non era vero, non lo era mai stata. Ora ancora di più. Non aveva avuto la forza di dire no.
    Guardò la sua mano per lungo tempo, in silenzio. Le sole cose che riusciva a tirar fuori erano lacrime.
    L'afferrò dopo un paio di minuti. Era fredda, come se fosse già morta da tempo, ma non si alzò. Cercò di tirarla a sé, mentre si avvicinava facendo leva su quel braccio e si lanciò in lacrime sulla sua spalla. Singhiozzava e piangeva, come mai nella sua vita aveva fatto.
    Non erano partite col piede giusto, vero, ma sicuramente adesso non stavano migliorando con un bell'inizio in lacrime.
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    Jessica Veronica Whitemore
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    Jessica non si era mai considerata una persona "empatica", almeno non troppo. Ma quella dannata scuola. Quelle dannate persone. L'avevano fatta cambiare fin troppo; fino all'estate prima di iniziare Hidenstone per la prima volta, Jessica era perlopiù una ragazza che pensava a se stessa, pensava a come star bene, non a come far star bene gli altri, eppure... eppure ora ci pensava eccome al benessere altrui. Quindi quando si accorse di Lilith, là da sola, piangente, non se l'era sentita di ignorarla. Insomma, okay, erano partite nel peggiore dei modi, ma non l'aveva mai odiata... di sicuro non al punto da lasciarla sola in un momento in cui aveva palesemente bisogno di qualcuno. Si sarebbe sicuramente sentita male ad ignorarla; sicuramente una come Lilith Clarke non piangeva per un qualche capriccio. Se voleva una cosa, Jess era certa che la ricca la ottenesse, quindi sicuramente la sua crisi era dovuta a qualcosa di molto grave. Qualcosa di legato al suo rapimento.
    Quindi si avvicinò alla ragazza e la prima cosa che fece, fu allontanare quelle forbici tutt'altro che innocue. Non si sarebbe mai perdonata se le avesse usata contro se stessa con la corvina presente e non avesse fatto nulla per aiutarla, oltre al fatto che non sarebbe più riuscita a guardare in faccia gli amici, Blake per primo. No. Rispose secca alla sua richiesta di ridarle le forbici. Non ci pensava proprio; Lilith non aveva certo intenzione di fare un collage. Tuttavia, il suo viso si ammorbidì così come il suo tono. Avrebbe fatto di tutto per aiutarla, per lei, per Blake... per Lilith stessa. Quindi le porse la mano, sperando l'afferrasse. Si morse il labbro nel vederla così distrutta, in lacrime. Non che non la capisse, da quella notte si era svegliata spesso dopo un incubo e con il viso bagnato di lacrime che non ricordava di avere versato. Però non ricordava di aver mai provato una disperazione così profonda come quella che si leggeva chiaramente in Lilith.
    Dopo quella che sembrò un'eternità, finalmente la mano della dioptase -fredda, quasi cadaverica- afferrò quella che la corvina le stava porgendo. Non andava bene che le sue mani fossero così fredde e sperò che non lo fosse anche il suo corpo. Insomma, non poteva certo morire congelata. Quando le loro mani si toccarono, la ragazza non si impegnò molto per essere rialzata, ma Jess non si innervosì. Sapeva che stava passando qualcosa di brutto e voleva solo aiutarla. Alla fine, bene o male riuscì nell'intento e la prefetta si scontrò con il suo corpo, appoggiando la testa sulla sua spalla senza smettere di piangere. L'opalina le passò delicatamente una mano sulla schiena, facendo leva sulle gambe per rialzarsi e portare con sé l'altra. Quindi, se non si fosse opposta, l'avrebbe condotta ad un paio di banchi a pochi metri da loro e l'avrebbe fatta sedere, prendendo una sedia e piazzandosi davanti a lei. La guardò in silenzio per qualche secondo, per poi tirare fuori un pacchetto di fazzoletti dalla tasca e posarlo sui banchi che avevano affianco. Che cosa avrebbe potuto dirle? Non sapeva perché stesse così male, non voleva forzare a dirglielo, non voleva forzarla a fare nulla. Ponderò attentamente le parole da dire, poiché sarebbe stato davvero da grandissimi idioti e senza un minimo di tatto chiederle come stesse, se era tutto ok... quindi optò per parole diverse. Afferrò nuovamente, sempre con estrema delicatezza, la sua mano. Era davvero incerta se chiederle cosa stesse succedendo, sarebbe stata la domanda giusta da fare? Probabilmente no. Nessuna domanda inerente al suo stato d'animo sarebbe stata quella giusta da fare, cazzo. Ehi, hai voglia di fare una passeggiata, guardare un film, sgraffignare qualcosa in cucina...? elencò con l'ausilio delle dita alcune alternative. Non conosceva abbastanza -per non dire "per niente"- la ragazza e l'unica cosa che poteva fare, era proporle una qualche distrazione. Chissà, magari sarebbe davvero diventate amiche. Cercò di sorriderle ancora. Che ne dici? Mi piacerebbe ricominciare. Chiaramente si riferiva proprio al pessimo inizio della loro conoscenza.
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    Non avrebbe mai pensato di finire tra le braccia di qualcuno, a piangere e singhiozzare come se fosse una bambina viziata. Eppure era quello che stava succedendo in quell'aula dove nessuno metteva mai piede.
    Jessica l'aveva trovata nascosta, con delle forbici che sarebbero servite a scopi che probabilmente avrebbero portato ad uno scandalo in quella scuola, le aveva tolte ed ora era lì a recuperare i pezzi di quella ragazza che agli occhi di tutti era sempre parsa come una donnina forte e pronta a combattere.
    Qualcosa l'aveva distrutta e ora non sapeva come rimediare a tutto quello che aveva perso.
    Sentì il contatto di Jessica, quella mano che passava sulla sua schiena, una temperatura contrastante al freddo del corpo della Dioptase. Da quanto era lì a terra, da quanto piangeva? Probabilmente erano ore, ore che cercava di avere il coraggio di affrontare quel passo che avrebbe liberato tutti dal suo malessere. Sarebbe bastata solo un minimo di coraggio in più, solo quello.
    Si fece sollevare, cercando di pesare il meno possibile, già stava rovinando la sua giornata, non era il caso di rovinare anche la sua schiena. Si mise a sedere, stringendosi nelle spalle e nelle gambe, con il volto ancora piegato verso il basso.
    Prese un fazzoletto, osservandolo con la coda dell'occhio «S-scusa...» disse tra un singhiozzo e l'altro, quasi come se avesse cercato di fare del male a lei, con quelle forbici.
    Le mani si muovevano su e giù sulle gambe, quasi a volerle riscaldare, fino a quando qualcosa di caldo, non la toccò di nuovo. Era la mano di Jessica, ancora una volta.
    Sollevò lo sguardo, quasi stupita di quel nuovo contatto. Gli occhi liquidi sbatterono un attimo le palpebre, lasciando cadere altre lacrime e gocce dalle ciglia, come rugiada. Annuì appena. Era quasi incerta...
    Non le stava chiedendo il suo stato d'animo, non voleva sembrare invadente, l'aveva solo aiutata...
    «V-vorrei... qualcosa di caldo...» sembrava quasi che si vergognasse a chiedere qualcosa per se stessa, quindi calò lo sguardo e cercò la mano di Jessica un'altra volta «P-perché mi stai aiutando?...» voleva saperlo, anche se magari con quegli occhi bagnati sarebbe stato il caso di smetterla di continuare a parlare. Le alternative proposte dall'Opale erano tutte valide, quindi perché temporeggiare ancora?
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