Old habits die hard

June

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  1. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Le vecchie abitudini sono dure a morire, o almeno questo gli avevano sempre detto.
    Nonostante fosse il primo a testarlo, in quella vita sconsiderata e sregolata di cui ormai aveva fatto un'abitudine, per Josh era difficile ammettere ciò che gli stava stretto, persino se era in grado di vederlo con i propri occhi.
    Ricordare il passato lo portava a condannarsi più del necessario, soprattutto in ambito sentimentale, motivo per cui preferiva semplicemente dimenticare e soffermarsi più sul presente, altra e principale fonte di problemi.
    Non era tanto un discorso relativo alla capacità di osservare il bicchiere mezzo pieno, l'ottimismo non c'entrava e la scarsa assunzione di responsabilità neppure, semplicemente a volte fingere di dimenticare gli permetteva di non ripensare all'unico volto femminile che gli aveva fatto tanto male da doversene vergognare.
    Non ripensava a quel viso da tanto tempo - anni, ormai - e faceva di tutto per non tornare indietro con la memoria a quel frangente piuttosto compromettente di una vita volta a non commettere lo stesso errore. Era l'unico errore da cui aveva imparato qualcosa, per quanto fosse difficile a dirsi.
    C'era un motivo se Joshua Evans tendeva a non legarsi a nessuno in particolare. Quello stesso motivo lo aveva costretto a non scegliere quando il suo cuore lo aveva per lo meno portato a limitarsi alle uniche due persone che, in qualche modo, lo avevano fatto sentire vivo e importante, quasi essenziale, come non era mai successo prima di allora.
    Aveva desiderato sentirsi in quel modo per una persona, molto tempo addietro rispetto a quando Jesse ed Elisabeth gli erano stati vicino, ma non era successo. Non in base a ciò che sapeva lui.
    L'aveva vista andar via, quella ragazza, lasciando indietro il cuore infranto di un giovane uomo di appena quattordici anni che sembrava non avere occhi per nessuno, se non per lei.
    Se Josh si fosse impegnato, probabilmente ne avrebbe rammentato i capelli neri e folti, tra cui aveva passato le dita pochissime volte rispetto alle innumerevoli di cui aveva sognato; ne avrebbe ricordato le labbra e il loro sapore, il profumo della pelle e la voce che si affievoliva quando la stringeva in ogni antro del castello che concedeva loro pace e intimità, quella per cui avrebbe pagato oro, pur di poterla tenere con sé.
    Quando Juniper Smith se n'era andata, lo aveva lasciato con l'amaro in bocca e nel cuore. E con la convinzione di non voler mai più soffrire in quel modo per qualcuno che, a dirla tutta, non aveva mai tenuto a lui.
    Questo lo aveva reso un bugiardo, seppur inconsapevolmente. Aveva mentito a Elisabeth e aveva mentito a Jesse, stava mentendo a Erin e probabilmente avrebbe continuato a raccontare bugie su bugie, focalizzandosi sul desiderio di tenerli al sicuro da ciò che era, rifiutando una storia che avrebbe potuto rendere felice almeno una di quelle tre persone. Certo, Jesse era ormai fuori dall'equazione, ma in passato tale presa di consapevolezza avrebbe potuto fare la differenza.

    Ora, il preambolo a cui avete appena assistito non è certo casuale.
    Quel giorno, un pomeriggio come tanti, Josh si recò in aula di Alchimia per recuperare il quaderno lasciato indietro un paio di ore prima. Curioso come il destino, delle volte, metta il proprio zampino lì dove davvero non dovrebbe farlo. Certe ferite dovrebbero restare chiuse, soprattutto se cicatrizzate da tempo. Eppure, il segno è lì, visibile e dolente se si ricorda cosa l'ha causato. Il dolore - o il ricordo di esso - è ancora vivido nella memoria e quelle sensazioni, apparentemente dimenticate, tornano a gettare l'animo nell'abisso dello sconforto.
    C'era qualcuno in quell'aula, probabilmente il professore, ma Josh si avviò rapidamente verso il banco occupato poco prima.
    «Mi scusi, ho solo dimenticato il quaderno.»
    Non lo guardò nemmeno, l'insegnante intento a fare qualcosa nei pressi della cattedra, tant'è che l'ametrino recuperò il quaderno e lo sollevò stretto nella mano destra, come per testimoniare di aver detto il vero. Solo in quel momento si concesse di rivolgere all'altra persona presente in aula la propria attenzione, riscontrando un volto che pensava di aver dimenticato da tempo e che invece si rese conto di non aver mai realmente rimosso dal cuore.
    Le palpebre si sgranarono, il respiro si mozzò e il corpo si tese per un attimo infinito.
    E quando riconobbe June sbuffò in un'amara risata, volgendo il capo verso l'uscita di quell'angolo di Paradiso dal sapore d'Inferno.
    «Dev'essere uno scherzo.»

    Juniper Smith

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    Quando aveva letto la risposta del docente di Alchimia di Hidenstone per un attimo, un fottutissimo brevissimo attimo, aveva quasi pensato di mollare tutto e annullare la sua richiesta. Aveva ricevuto il gufo in un tardo pomeriggio di ottobre, le foglie che facevano a gara per entrare nella sua stanza insieme alla civetta, e per un attimo il suo monolocale le era sembrato ancora più claustrofobico del solito. Eppure aveva fatto le sue ricerche, aveva contattato tutti i docenti migliori che si erano dimostrati raggiungibili e quando aveva trovato l'indirizzo di Keegan le era sembrato tutto così naturale, così positivo.
    "Calma, respira, va tutto bene." si era detta parlando al nulla, la civetta che aspettava paziente sul davanzale una risposta da poter recapitare. L'aveva fissata a lungo, tentennando sulla possibilità di lasciarla andare senza una risposta o di scribacchiare un rapido "no grazie" senza nemmeno spiegare perchè.
    Si era ricordata solo in un secondo momento che niente di tutto quello faceva parte della sua personalità, veniva spesso accusata di non valutare prima i rischi e di lanciarsi sempre a testa bassa in qualunque situazione, non era proprio una che ragionava a lungo prima di buttarsi. Anche il suo istinto ormai era un senso accessorio, una parte di se che era abituata ad ignorare, ancora di più quando si trasformava in ansia immotivata o paura dell'ignoto: lei non voleva essere così, non poteva permettere alla paura di frenarla.
    Alla fine si era convinta ad agire, in qualche modo: aveva riposto la lettera nel cassetto, scribacchiato su un foglio che accettava le condizioni dell'insegnante e poi si era buttata a capofitto nei preparativi per la "partenza". Non che ci fosse molto da preparare, viveva a Londra ormai da qualche settimana, in un monolocale sovra prezzato in centro, e l'unica cosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi era di fare una buona prima impressione.
    A voler essere onesti era più l'idea di tornare a scuola che la terrorizzava, più che quello che avrebbe fatto: lo aveva realizzato con una certa chiarezza quando, nel cuore della notte, si era svegliata urlando dopo aver sognato Hogwarts gremita di suoi coetanei che la guardavano con astio. Ancora una volta, l'autocritica non era mai stata un suo forte, preferiva molto di più lasciarsi tutto alle spalle piuttosto che analizzare ogni dettaglio, ma nel silenzio assordante della stanza illuminata solo dai lampioni esterni si era ritrovata costretta a prendere una pausa e affrontare i suoi demoni.
    Aveva lasciato Hogwarts anni prima, assicurandosi che niente della sua esperienza in quella scuola o delle persone che aveva incontrato la seguissero. Non era stato facile, aveva fatto molto più male di quanto le piacesse ricordare, ma si era imposta freddezza, si era ritrovata a pensare che passare per stronza fosse meglio che distruggere tutto dopo, con la sua natura, il suo carattere o qualsiasi parte di lei portasse ogni rapporto a disintegrarsi, prima o poi.
    Aveva preso quella decisione drastica quando era solo una ragazzina, eppure non si era più legata a nessuno tanto era stato traumatico prendere quella strada, e fino a quel momento si era convinta che stare da sola fosse la cosa più giusta e sicura per tutti quanti.
    Alla fine nonostante le sue incertezze e il fatto che solo l'idea di Hidenstone le annodasse lo stomaco, quella mattina si era svegliata, due profonde occhiaie che fece scomparire prima di soffermarcisi troppo, e si era trascinata all'Accademia cercando di pensare meno possibile alle conseguenze. Anche entrando nella scuola aveva cercato di concentrarsi solo sulla meta, certe dinamiche, certi corridoi, anche solo le divise le facevano ancora effetto e ptreferì muoversi rapida verso l'aula di Alchimia prima di fuggire a gambe levate.
    Vedere il Professore l'aveva in parte rasserenata, o almeno le aveva permesso di concentrarsi sul motivo per cui era lì, almeno fino a che quel secondo di calma non venne interrotto, prima ancora che potesse abituarsi alla sensazione.
    Avrebbe riconosciuto quell'accento e quel tono di voce ovunque, nonostante ora avesse un timbro leggermente diverso, un suono che risultava piacevole e sbagliato al tempo stesso perchè non era quello che ricordava lei e dannazione l'aveva portata a voltarsi prima che potesse impedirlo. Ed eccolo lì, in carne ed ossa: cresciuto senza ombra di dubbio, eppure con gli stessi occhi di cui si era innamorata la prima volta e con addosso il peso di tutte le promesse che lei aveva distrutto.
    Sospirò piano, sforzandosi di mantenere la calma, ancora di più perchè non era quello il momento di farsi prendere dal panico.
    "Non uno dei migliori." finì per rispondere a denti stretti, salvo poi fare appello ad una calma che non aveva mai avuto, le parole che premevano sulle labbra per uscire come se proprio non potesse tacere ora che lo aveva di fronte. "Non sapevo frequentassi Hidenstone." ammise con innocenza, e in effetti come poteva saperlo? Aveva tagliato ogni contatto con Joshua e chiunque altro avesse frequentato Hogwarts nel suo stesso periodo, aveva resistito all'impulso di cercarlo sui social o di rivangare troppo il passato, di certo non poteva sapere qualcosa della sua vita.
    Juniper Smith

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  3. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    Se si parlava di impulsività, sicuramente Joshua ne sapeva qualcosa. Avrebbe forse potuto essere lui a dare lezioni alla ragazza che aveva di fronte, ribaltando i ruoli e non soffermandosi neppure per un momento a riflettere su cosa avrebbe significato spezzare quel sottile equilibrio che li aveva visti lontani e relativamente felici negli ultimi cinque... sei anni?
    Era trascorso talmente tanto tempo dall'ultima volta in cui gli occhi di lui si erano incastrati alla perfezione in quelli di lei, in un connubio talmente imperfetto da rasentare la sinuosità di forme dissimili che si incastrano alla perfezione.
    Non vedeva quegli occhi da anni, eppure, per quanto la cornice fosse inevitabilmente cambiata, quasi non riusciva a scorgervi alcuna differenza. Eppure era cambiato tutto, primo fra tutti lui e la vita che lei si era lasciata alle spalle.
    Non aveva provato a capirla neppure una volta, neanche quando aveva iniziato a fare ad altre quello che lei aveva fatto a lui. Era quella la spinta egoistica che lo aveva portato a fare i conti con i fantasmi di quel passato mai rivelato a nessuno. Era quella la reale motivazione che lo aveva condotto a quel momento, tramite un destino bizzarro che si prendeva evidentemente gioco di lui.
    E rideva. Rideva delle sue disgrazie.
    Non sapeva cosa ci facesse a Hidenstone e a un primo impatto fu certo di non volerlo sapere. Desiderava solo che sparisse, così come aveva fatto una volta - non sarebbe stato tanto difficile replicare, no? - eppure una parte di lui lo supplicava di ignorare quella tentazione a cui cedere sarebbe stato semplicissimo.
    Non si rese conto dell'attimo esatto in cui le unghie marchiarono la pelle del palmo della mano sinistra né di quando la muscolatura si irrigidì tanto quasi da dolergli. Sembrò svegliarsi da quel torpore indotto dai ricordi e da sensazioni dimenticate solo quando la sentì parlare, come se il dubbio che si trattasse unicamente di un miraggio si fosse ormai dissolto.
    Era davvero lì.
    «Sono molte le cose che non sai.»
    Non ricordava quante volte aveva sognato anni prima di poterla rivedere. Certo, le circostanze erano molto diverse allora, persino nella sua più fervida immaginazione. Ma mai, neppure una volta, l'aveva vista varcare nuovamente la soglia di Hogwarts per portare a compimento le promesse vuote che gli aveva rivolto. E in quel momento, quando finalmente quel sogno si era avverato, non sapeva cosa dire.
    Per quanto volesse avercela con lei, per quanto aveva promesso a se stesso di detestarla in eterno, mantenere quella parola sembrava la cosa più sciocca e ridicola a cui avesse mai pensato. Era andato avanti, non poteva avercela ancora con lei. Perché accettare che il proprio rifiuto di costruire qualcosa con chi teneva davvero a lui fosse causato dalla ferita che lei gli aveva inferto era intollerabile.
    La prima e l'unica.
    La guardava da lontano, certo di non provare più nulla per lei, neppure il sentimento più immeritevole. Si costrinse ad ammorbidire la presa sulla tracolla e buttò fuori l'aria dalle narici.
    «Insomma è questo che succede quando sparisci dalla circolazione.»
    "Senza permettermi di cercarti".
    Ma andava bene così. In fondo lui non aveva fatto lo stesso con altri?
    Già, avrebbe dovuto chiederselo, e forse lo aveva anche fatto. Peccato che non riuscisse a trovare similitudini tra le due circostanze, perché ciò che aveva provato nell'uno e nell'altro caso era piuttosto diverso.
    Alla fine era proprio vero: si diventa ciò che ci distrugge.
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    La possibilità, seppur remota, di rivedere Joshua, un giorno non meglio definito, viveva senza pagare l'affitto in un piccolo anfratto della sua mente, conservata gelosamente insieme a tutti i ricordi di lui e del loro rapporto che fingeva di aver dimenticato ma che non erano mai sbiaditi del tutto.
    In quel momento le sembrava quasi di non essere padrona del suo corpo, come se quella sensazione di elettricità che le scorreva sulla pelle o i nodi allo stomaco non le appartenessero davvero. Come non le apparteneva la persona di fronte a lei, che aveva caratteristiche famigliari ma che al contempo era ben diversa dal ragazzo che aveva conosciuto in passato e che mai avrebbe usato un tono come quello per apostrofarla.
    La sua risposta, pronta e tagliente, ebbe lo stesso effetto di una doccia gelida, costringendola a svegliarsi dallo stupore iniziale e scontrarsi con la realtà.
    Si meritava una risposta del genere, meritava tutta l'acidità che poteva rivolgerle, a dire il vero sospettava di meritarsi anche qualche schiaffo o qualche risposta più piccata, ma immaginava che quello non fosse il luogo adatto per quel genere di conversazione. Non che tutto il resto ora avesse importanza, sembrava quasi che l'aula fosse scomparsa, che tutto intorno a loro il tempo si fosse fermato, aspettando col fiato sospeso di capire che cosa sarebbe successo.
    Lei, di preciso, che cosa si aspettava? Nulla, avrebbe voluto dire, ma la verità era che avrebbe voluto qualcosa di diverso, anche se non sapeva in che modo.
    Joshua era stato davvero la sua prima grande cotta, aveva provato per lui un sentimento che non si era più concessa, e forse proprio per colpa di quella astinenza la sua presenza non riusciva ad esserle indifferente. Era abbastanza certa che se avesse incontrato di nuovo qualsiasi altro amico dell'epoca, se avesse incrociato per i corridoi un qualunque altro volto famigliare, sarebbe riuscita, seppur con fatica, a voltarsi dall'altra parte e proseguire ma con lui di fronte, così vicino e così lontano al tempo stesso, le sembrava di non poter fare altro che fissarlo.
    Era cambiato, era più alto, più magro, la sua voce era più profonda e roca di quanto ricordasse e portava i capelli più lunghi di una volta, un taglio che gli donava un'aria quasi tenebrosa. In un altro momento avrebbe quasi provato a fargli una battuta in merito, ma le parole del ragazzo l'avevano colpita in pieno petto e la ferita bruciava abbastanza da renderle impossibile cambiare discorso.
    "Touchè" replicò a mezza voce, quasi più a se stessa che a lui, abbassando lo sguardo sulle proprie mani interrompendo forzatamente il lorok movimento rapido e incontrollato, infilandole subito dopo direttamente nelle tasche della giacca.
    Si strinse nelle spalle, nascondendosi dietro un velo di indifferenza, ma tornò comunque a studiarlo, inclinando appena la testa.
    "Se per questo ci sono molte cose che nemmeno tu sai." Ed eccola che usava la sua strategia preferita: l'attacco. Avrebbe potuto ammettere le sue colpe, crollare in ginocchio e implorare il suo perdono, ma aveva un orgoglio e una dignità e continuava a voler tenere fede alle motivazioni che l'avevano spinta ad allontanarsi. Ormai aveva capito cosa succedeva a chiunque si affezionasse a lei e, per quanto potesse essere giudicata egoista, lei proprio non ci teneva a vedere che cosa l'Universo avrebbe causato per rovinare tutto ancora una volta. Per questo quando si sentiva punta nel vivo tutto quello che riusciva a fare era correre ai ripari e rispondere a tono, nella speranza che le persone si stancassero più in fretta e se ne andassero da sole.
    Eppure non voleva che Joshua se ne andasse, si scoprì inconsciamente intenta a trovare una qualsiasi scusa per continuare la conversazione, per proseguire con quella tortura ancora per un po'.
    "Studi qui quindi?" domandò, dando subito della sciocca per la stupidità di una frase come quella.
    Juniper Smith

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  5. Joshua B. Evans
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    Joshua Benjamin Evans
    Ametrin | 20 anni
    La possibilità, seppur remota, di rivedere June era stata più vicina alla speranza in quelle prime ore di totale smarrimento nel registrare l'informazione della sua partenza. Aveva creduto fosse uno scherzo, o per lo meno si era convinto a ritenerlo possibile perché l'unica alternativa era la più scomoda e infelice, quella che lo aveva portato a cambiare considerevolmente nei confronti dell'amore e di tutto ciò che ne conseguiva: lo aveva lasciato.
    Non aveva semplicemente interrotto una relazione, June se n'era andata, scomparendo completamente dalla sua vita senza neanche dargli l'opportunità di arrabbiarsi, soffrire o semplicemente domandarle il perché di quella decisione improvvisa e, a suo parere, insensata. Ai tempi era troppo giovane per capire cosa potesse aver smosso un animo come quello della ragazza al punto tale da farla fuggire da tutto ciò che conosceva e aveva, ma non erano stati sufficienti neppure quegli anni per spingerlo a provare a capirla.
    L'aveva accantonata, in un angolo remoto della propria mente e soprattutto del cuore, non pretendendo altro se non fingere che non fosse mai esistita.
    Cosa si aspettava? June era stato il primo amore, quello che un ragazzo non oserebbe mai ammettere perché dall'altra parte si ritrova una figura di una bellezza fuori portata, una ragazza più grande che sembra veramente interessata a lui. Josh aveva sempre detto di non sapere cosa significasse amare, ma la verità era che, per quanto flebile un simile sentimento potesse essere a quindici anni, credeva di averlo provato e pertanto intendeva solo dimenticarlo.
    Come aveva fatto a crederle? A pensare di poter significare qualcosa per lei?
    Pensieri e domande a cui non aveva mai dato voce, ma sui quali si era soffermato a ragionare per qualche notte, prima di decidere di andare avanti.
    Joshua Evans era sostanzialmente un bravo ragazzo, forse uno dei migliori. Perdonava, porgeva l'altra guancia - e Blake ne sapeva qualcosa - ma una volta deluso era quasi impossibile da recuperare.
    Eppure, se solo in quel momento fossero stati sinceri l'uno con l'altra e avessero deciso di lasciare da parte l'orgoglio condito di ricordi del passato, probabilmente qualcosa da recuperare ci sarebbe stato.
    Le iridi di ghiaccio scrutarono il viso dell'ormai giovane donna con un'intensità tale che l'Ametrin si attese quasi di vederla arrossire. Accolse le sue parole assottigliando le labbra e fingendo che nulla di ciò a cui l'altra dava voce potesse turbarlo, quando il suo corpo dava segnali contrastanti. Avrebbe dovuto voltarle le spalle e andarsene, impedirle di avere ancora potere su di lui, ma qualcosa lo fece desistere e le concesse la possibilità di parlare.
    Josh aveva sempre detestato quel suo modo di fare, quell'indifferenza che un tempo June palesava e basta, senza provarla davvero. Nel presente non avrebbe saputo dire quanto questo fosse cambiato.
    «E di chi sarebbe la colpa? Sentiamo.» Gli uscì di getto, quell'impulsività che non riusciva a frenare neppure provandoci. Ma se ne rese conto, seppur non in tempo, e si fermò, arrestando quella camminata appena accennata verso di lei, portandosi una mano sul volto e l'altra a sfilarsi il berretto, attraversando i solchi tra i ricci scuri che persino dopo tutto quel tempo la ragazza avrebbe dovuto riconoscere.
    Sospirò e le diede le spalle solo per un momento, incredulo di ciò che stava prendendo piede in quella stanza.
    Non pensava più a lei da anni. Si era costretto a non farlo.
    «Lascia perdere, mi dispiace.» Alzò le mani in segno di resa e tornò a guardarla, non riuscendo ancora a capacitarsi di quella morsa che sentiva di provare proprio lì, all'altezza dello stomaco. «Avrai avuto le tue ragioni.»
    Non volle sapere, non volle litigare, non volle mostrare all'unica persona che lo aveva avuto in passato un coinvolgimento che aveva rinnegato per anni.
    Ricevette la sua domanda come un'espressione di puro scetticismo. Se la sua intenzione era di fare quattro chiacchiere, lui non era affatto di quell'idea, eppure si ritrovò a rispondere, ricordando di trovarsi di fronte alla prima persona che aveva appreso della sua condizione.
    «Sì, beh, ho perso qualche anno per problemi personali.»
    Lasciò cadere l'argomento, certo di non voler affrontare con lei quanto subito nei precedenti mesi.
    Sbigottito dalla piega presa da quella giornata, si ritrovò a vagliare in silenzio le strade da intraprendere e, dopo averne scartate un paio, tornò a guardarla negli occhi con aria quasi afflitta.
    «June, che ci fai qui?»
    RevelioGDR
     
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