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Joshua B. Evans.
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.Era in un multiverso, una realtà ancora più oscura di quella in cui era intrappolata.
Quello o semplicemente qualcuno lassù aveva voglia di affogarla nella merda.
Non credeva in alcuna divinità eppure finiva con l'essere sempre più convinta che in qualche vita precedente avesse fatto del male a milioni di innocenti, non sapeva spiegarsi altrimenti quello che stava accadendo nelle ultime settantadue ore. Ora più, ora meno.
Le pozze cerulee non erano più abituate a soffermarsi sul tavolo dei giallo-viola troppo impegnate nello scambiarsi messaggi silenziosi con il battitore dei verde-blu; le sue orecchie non prestavano più attenzione ai mormorii e ai pettegolezzi, stanca di sentire l'ennesima vessazione nei suoi confronti, incuranti del fatto che ora la spilla da Prefetto fosse tornata a brillare sul suo petto; la freneticità degli impegni e dei doveri la portavano a varcare la soglia delle aule quasi sempre all'ultimo secondo utile prima che le porte venissero chiuse e finiva con l'accontentarsi con l'ultimo banco o posto libero più isolato. O forse, semplicemente, erano solo le lezioni di Lancelot Olwen che Elisabeth Lynch condivideva con il ragazzo cui aveva donato l'ultima vera briciola di umanità, di amore, che aveva.
Quando l'aveva visto lì, seduto, più pallido che nei suoi ricordi fu convinta di essere vittima di qualche sortilegio o tiro mancino della sua mente sovraccaricata dallo stress. Non voleva credere, non poteva credere che Joshua Benjamin Evans -Ben- fosse tornato.
Aveva trascorso quei minuti come se fossero ore, costringendosi a non voltare lo sguardo verso di lui, bocca spalancata ed espressione terrorizzata sul viso, richiamando all'ordine ogni singolo muscolo del corpo, in una tensione tale che il suo collo ormai fosse più assimilabile alle pietre che a carne viva.
Finì con l'uscire da quelle quattro mura neanche stesse scappando dagli scagnozzi di Naga Berteg.
Solo quando ebbe il dormitorio tutto per sé, si concesse il lusso di crollare, non prima però di aver recuperato una vecchia scatola di latta dal fondo del suo baule. Non ebbe bisogno di aprirla per sapere che all'interno vi avrebbe trovato stoffe, girasoli, foto e cartoline che appartenevano ad una vita che non c'era più.
Il Natale del suo secondo anno rappresentava il suo Ground Zero, dove tutto veniva diviso in un prima e dopo quella folle corsa al San Mungo.
I mesi di esilio auto imposti fino alla morte della madre che solo in quel momento le rivelò l'identità del padre. Destino beffardo volle che fosse passato anche lui a miglior vita per colpa di uno dei suoi deliri pozionistici. E con lui ogni singola persona cui aveva dato accesso al suo cuore. In quel buco nero, che faceva concorrenza al Triangolo delle Bermuda, era stato risucchiato anche un suo compagno di letto -era da stronza far passare Ciàran Hinds solo in quella categoria, visto che grazie a lui aveva superato alcune fobie e difficoltà- oltre che l'ametrino. Ci era andato vicino persino Cameron Cohen e, ancora una volta, per colpa sua. Aveva tradito Mia perché lei non era riuscita a fermare quell'onda travolgente che era il norvegese, finendo in un rapporto dal labile confine tra amicizia, amore, passione e follia. E a nulla era valsa quella specie di ammenda -che poi aveva mai davvero chiesto scusa a Jones per il palco di corna che gli aveva donato? {spoiler: No}- con riavvicinamento al ragazzo del suo primo bacio.
Sembrava quasi che si stesse incamminando in una sorta di deja vu, ritorno al passato, visto che alcuni elementi potevano essere sovrapposti tra ieri ed oggi. Un'opera però che avrebbe messo in risalto crepe che non valeva la pena mettere in risalto con un misto di colla e scaglie d'oro. Perché illudersi che potesse vivere un reale e se... non avrebbe fatto altro che portarla a schiantarsi al suolo, duro, polveroso della realtà.
Niente lacrime da asciugare, solo un battito di cuore da riportare ad un ritmo naturale, vecchi ricordi da rimettere al loro posto in forma di scatola ed un panico da soffocare prima ancora di scatenare un incendio devastante, perché Joshua Benjamin Evans sarà pur tornato ad Hidenstone ma Lyllibeth era ormai morta da tempo.
«Non mi sto nascondendo» continuava a ripetersi mentre tornava, dal bagno delle ragazze, nell'Aula in Disuso dove aveva lasciato la sua cartella piena di libri sotto la postazione che aveva scelto per scrivere la relazione di Alchimia, salvo poi finire a scarabocchiare con un semplice pastello a cera di un nero profondo. Gioco di luci ed ombre che ancora non sapeva cosa avrebbero rivelato una volta concluso. Semplicemente la stava aiutando a rimettere in ordine i suoi pensieri e quello era tutto ciò che le bastava sapere. Affrontare però il reale peso, le conseguenze e il come avrebbe dovuto comportarsi con lui nella prossima occasione, magari proprio in una lezione di Olwen, era fuori discussione. Non voleva farlo, non poteva farlo, «ma non mi sto nascondendo, cazzo!» Ed invece era proprio quello che stava facendo, spingendo nuovamente quella porta dell'aula che aveva conquistando terrorizzando un paio di matricole un paio di ore prima. Si richiuse la porta alle spalle, tirando un sospiro di sollievo, capo chino e pugno contro la porta contro cui impattò producendo un rumore sordo. Non se ne curò. Era sola dopotutto. O forse no.
Sollevò di pochi millimetri il capo, i capelli liberi a scivolare oltre le spalle aprendo quella cortina che si era costruita involontariamente. C'era un odore lì, un profumo che le ricordava qualcosa, il sentore di un qualcosa che doveva riconoscere. La sensazione di aver già vissuto quella stessa scena, anche se in modo diverso. Si rimise dritta proprio nel momento in cui sentì un rumore provenire dal divano e quella voce fin troppo reale da poter illudersi che fosse solo frutto della suggestione. Non disse nulla. Non fece nulla. Semplicemente si prese il lusso di guardarlo. Il solito aspetto trasandato, la solita altezza ed ampio torace seppur magro, la solita chioma indomabile che aveva reso ingestibile ancor di più, i soliti occhi di un colore che dall'azzurro viravano al grigio. Indefinibili. Indefinibile come lui era per lei. Non sapeva decifrare l'emozione o una banale reazione al comprendere che l'intruso fosse lei. Lei che aveva lasciato le sue cose in modo ordinato, ma non nel disegno. Lo sguardo ne seguì il pensiero, soffermandosi sul foglio che rivelava quello che provava, che sentiva, ciò che era. Sperava che non l'avesse visto, che si fosse diretto dritto al divano per riposarsi un po'. «Il rosso. Dov'è il rosso?» Di scatto volse lo sguardo di nuovo su di lui, trovando quel pastello nella sua mano. Colpevole.
Si riscosse, avvicinandosi a passi rapidi alla scrivania. «Stavo andando via». Tre parole. Tutto quel tempo e tutto ciò che aveva da dirgli era: stavo andando via. Una bugia. E cos'altro avrebbe potuto dirgli? «Perché sei sparito senza lasciare neanche un biglietto?» Era stata lei la prima a farlo. «Dove sei stato in tutto questo tempo?» Non è più affar tuo. «Lo sai che Lighthouse mi odia ancora per colpa tua?» Non gli interessava all'epoca, perché farlo ora? Il marrone che stringeva tra le dita, mentre lo rimetteva in scatola, si spezzò. Fece finta di nulla, mentre nella sua mente domanda e risposta di una conversazione che aveva fatto negli ultimi giorni continuava ad imperversare. «Cosa hai fatto in questi anni? Chi sei ora? Quali sono i tuoi sogni?» Mancava solo quello schizzo ormai. «Ti è mai importato di me?» La mancina lo afferrò e lo accartocciò mentre si chinava per prendere il fagotto sotto la sedia rivelando il mantello e la tracolla. Non aveva più scuse per rimanere lì. E così, com'era entrata, stava lasciando quell'aula come mai aveva fatto con quella di storia. Il disegno incompleto finì nel cestino -non dovette neanche guardare per centrarlo- la mano si poso sulla maniglia, pronta per essere abbassata. «Hai detto che ti è indifferente, allora perché non sei gentile? Basta solo che gli dici una parola, basta che sia gentile. Ad esempio: bentornato. Vedi?! Semplice, piatta e disinteressata. Ripetila insieme a me, al mio tre. Uno, due, tr-»
«Perché sei tornato?» La gentilezza, ormai, l'aveva lasciata da tempo.Elisabeth
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Joshua B. Evans.
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.Aveva letto, in un libro di cui le sfuggiva il titolo, che bastavano quindici secondi per cambiare tutto. Ora, quanti quindici secondi ci sono in oltre mille giorni? Troppi, così tanti che si può affermare di come più di quindici secondi siano stati motivo di cambiamento nel fisico, nel cuore, nel carattere di Elisabeth Lynch. Aveva perso, subito ingiustizie, pensato di aver trovato un mentore, uno scopo; era caduta e si era rialzata dalle sue stesse ceneri come la più luminosa, incendiaria, delle fenici. Così tanti quindici secondi che -come amava dirsi- potevano ritenersi più che sufficienti per una vita ancora agli inizi come la sua; così tanti quindici secondi che si era illusa di aver superato la scomparsa di Josh. Pensava che mettere la sua felpa, un anellino che lei stessa si era comprata, ogni singolo oggetto legato a lui, in una scatola decretasse l'aver messo fine a quello, che a tutti gli effetti, era stato il suo primo amore. E forse unico. Chi era venuto dopo di lui era stato solo di passaggio -discorso a parte era il suo rapporto con Cameron- forte anche della volontà di non dare più tanto per ritrovarsi il nulla. Perché la prima cosa che aveva pensato del silenzio radio di Evans ricadeva nella scelta, che lui aveva fatto, tra i due Prefetti Black Opal, con l'ago della bilancia a pendere verso il biondo marines. Aveva cercato la chioma arruffata dell'ametrino sul molo di Yggdrasill, il primo settembre, e quella di Lighthouse trovando quella di quest'ultimo con accanto sì un Ametrin, ma non lui.
I pettegolezzi l'additavano tra le colpevoli del suo allontanamento da Hiddenstone, così come lo sguardo carico d'odio di Jesse ad ogni suo respiro fuori posto, senza dimenticare l'ipotesi che si fosse allontanata dalla scuola perché rimasta incinta. Tutto perché lei non aveva rivelato a nessuno di essere rimasta accanto a sua madre per il tempo che le rimaneva, perché non aveva voluto la loro compassione prima e neanche dopo. Le andava bene quell'odio, così almeno le piaceva credere.
Odio, rabbia, frustrazione... emozioni così forti, potenti, da farla sentire viva.
La stessa rabbia che l'aveva portata quel pomeriggio a spezzare, accartocciare ed attaccare l'altra persona in quella stanza.
Non l'aveva sentito muoversi, il flusso del sangue era così rapido da renderla sordida ai rumori più leggeri, accorti. E lui doveva esserlo stato per forza perché non vide che alla fine quella mano fermarsi sulla porta, impedendole di fatto la possibilità di allontanarsi.
Non erano così vicini da quando lei indossava uno degli abiti più belli che avesse mai avuto e lui che aveva "rubato" una giacca solo per non lasciarla sola allo Yule Ball, andando contro i suoi stessi propositi di tenersi lontano dalla Sala Grande. Solo per lei.
«Ma quello era prima».
E mentre erano in una bolla, dove lei si lasciava confondere dal calore del suo corpo, stordire da un profumo che aveva cercato più volte nella felpa che lui stesso gli aveva dato, aprì bocca per pronunciare una domanda che si scostava fortemente dai pensieri che si affollavano nella sua mente. E c'erano altre domande che premevano per uscire dal «lui l'hai cercato?», «perché non hai mai cercato me?», «prima di sparire ti eri mai accorto che anche io ero sparita?» e avrebbe potuto continuare così se lui non avesse parlato.
Le labbra si tesero, gli occhi si chiusero, prese un respiro profondo.
Perché non voleva neanche prendere in esame la sensazione che quel respiro, il suo ricordo, avesse su di lei.
Voltò il viso nella sua direzione, assorbendo sei parole pesanti come il ferro, facendole proprie, analizzandole, sviscerandole.
«Non pensavo volessi condividerlo con me», ammise, investendolo col suo sguardo, pur senza risparmiarsi nell'usare un tono sarcastico. Avrebbe capito che quello in realtà fosse un modo per proteggersi?
Lasciò andare il fagotto che cadde ai loro piedi in un tonfo soffocato.
Erano ancora vicini, così maledettamente vicini che i loro corpi si sfioravano. Anche lui la riconosceva? «Sai, stavo iniziando a pensare che mi stessi evitando, seguendo la massa», che fosse lei la prima ad averlo fatto -ma non per quello che si diceva in giro- non importava minimamente. Un sorriso mesto sul suo volto. «Forse mi sbaglio», stava risultando odiosa persino alle sue stesse orecchie.
Si raddrizzò, le spalle rigide, il mento inclinato e lo sguardo che si teneva basso sul nodo allentato della sua cravatta. «Scusa», una pausa, un momento per lasciar fluire una piccola parte di rabbia, tensione, nervosismo che rischiava di farla esplodere davvero. Non pensava però di essersi lasciata sfuggire una nota stonata, un piccolo indizio che forse non avrebbe neanche colto. «Perché tu te ne sei andato?»Elisabeth
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Joshua B. Evans.
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.«Invece sì», avrebbe voluto urlargli, lo aveva pensato sul serio, così come aveva pensato che lei per lui era stata nulla. Ma quello non glielo disse perché non voleva avere la certezza che quel pensiero fosse giusto. L'avrebbe annientata.
E quindi non potè far altro che rimanere lì, mentre lui schiena alla porta, non iniziò a raccontarle i suoi perché. Ed uno fu proprio ad un quesito che non aveva posto ad alta voce. La sua malattia. Il suo cuore si fermò, le narici si dilatarono e fu davvero difficile non lasciarsi andare a quelle lacrime che stavano spingendo contro la sua volontà. Avrebbe voluto sapere di più, chiedergli di più, ma con un gran gioco da maestro spostò l'attenzione da lui agli altri. Non c'era bisogno di un appello sapeva di essere tra i molti, così come Jesse, nonostante tutto non fu facile. Contro ogni previsione un sorriso amaro, di comprensione, salì nel realizzare come avessero operato nello stesso modo, solo che lei era tornata prima. Rimase in silenzio, tormentandosi i palmi delle mani pur di non parlare, di non muoversi, di non toccarlo. Quello fu il più difficile tra tutti.
Sentiva quasi la necessità di toccarlo per avere la conferma -l'ennesima- che lui fosse lì e che non fosse vittima di una qualche illusione.
Ci riuscì, per poco, ma ci riuscì e solo perché si arrabbiò nell'ascoltare come lui avesse potuto pensare, credere, anche solo per una volta che lei l'avrebbe potuto dimenticare. Oh sì, lo aveva desiderato, ma Joshua Benjamin Evans era come un tarlo, impossibile da silenziare del tutto. Risollevò lo sguardo, dopo che aveva avvertito uno spostamento d'aria, e la porta tornò ad essere la padrona della sua visuale con lui che si manteneva nella periferica. Non le sfuggì quel movimento, quella mano tesa verso il suo viso a sfiorarla.
Non la toccò.
Lei però accompagnò quella carezza col viso, inclinandolo, come a seguirne il percorso.
Le stava dando la possibilità di scegliere se andar via o restare.
Avrebbe potuto allungare una mano, abbassare la maniglia, spalancare la porta e fuggire.
Fece un passo avanti, solo per voltarsi e prendere il suo posto, contro quella porta che si era trasformata in un confessionale. Perché ti evitano?
«Sono sparita anche io», chiarì con amarezza guardando dritto davanti a sé. «Mia madre ha contratto una malattia che se l'è portata via in pochi mesi. Ho deciso di lasciare la scuola per stare con lei fino all'ultimo secondo», le unghie ormai avevano creato dei piccoli solchi, così profondi che mancava poco a lacerare la pelle. La sua voce risuonò piatta, come se stesse raccontando la storia di qualcun altro e non la sua. «Christopher Brown è morto prima ancora di sapere che mia madre fosse incinta», non si dilungò sulle cause della sua morte, non allungava nulla alla sua storia. «Per cui in teoria dovrei essere Elisabeth Brown, non Lynch», lo rivelò solo perché gli aveva più volte confidato la volontà di andare a cercare l'uomo che se n'era lavato le mani. Peccato che la parte più grande di lui era paragonabile ad un granello di sabbia. «Quando sono tornata a settembre tutti mi odiavano per quello che avevo fatto a Jesse, a Lucas, a te». Prese un profondo respiro, strizzando gli occhi per ricacciare le lacrime che ora premevano con forza. «L'unica mia colpa, oltre ad essere sparita e di non aver cercato nessuno per le tue stesse motivazioni, era essere innamorata di te». Saltò Hinds; saltò il dolore che aveva provato nel vedere la sua Spilla da Prefetta appuntata sul petto della mammina, della sua nemesi verso cui ora non provava neanche più odio; saltò la sensazione di smarrimento che aveva provato al colloquio con il professor Black per il suo futuro e atterrò all'ultima grande bomba che aveva sganciato. «E poi mi odiano per essere andata a letto con Cameron Cohen quando lui era ancora fidanzato con Mia Freeman». Non ebbe il coraggio di girarsi a guardarlo, non voleva leggere il disgusto anche sulla sua faccia. «Non sono mai stata popolare, non sono mai piaciuta davvero a nessuno, al più si avvicinavano per il mio aspetto ma scappavano per il mio carattere, senza pensare che» -deglutì- «non sono solo una stronza, anche se fa comodo pensarlo». Abbandonò la porta ritornando alla sua posizione d'origine. Riabbassò lo sguardo fino al suo fagotto per poi dirigerlo verso le scarpe di Josh per vedere se le punte fossero rivolte verso di lei o se avrebbe visto solo talloni, segno che sarebbe andato via. Di nuovo.Elisabeth
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Edited by Joshua B. Evans - 12/11/2022, 11:49. -
.Per quanto uno possa possedere certezze queste iniziano a venir meno quando il tarlo del dubbio inizia a banchettare con esse.
Elisabeth aveva voluto così tanto Josh, lo aveva amato così tanto che -in cuor suo- sapeva anche che avrebbe accettato di avere un piccolissimo pezzetto di lui che non averlo affatto. Proprio lei che della condivisione non sapeva che farsene avrebbe accettato di essere l'altra nella relazione tra lui e Lighthouse. A tanto era arrivata.
Poi c'era stato il suo abbandono, la morte, il fondo che aveva toccato non solo metaforicamente -il panico di Lucas nel recuperarla nella sua piscina completamente ubriaca era stata la prima cosa che ricordava- e la lenta risalita. Era tornata, grazie a Ciaràn, a recuperare la sua identità, il suo cuore e la sua fobia della foresta proibita che altro non era il superamento di alcuni fantasmi. Tra cui Josh.
Ma, come detto prima, si era illusa.
Illusa per quella distanza forzata tra di loro, di aver superato il loro primo bacio all'Osservatorio astronomico, il loro weekend a Bath fatto di pioggia, camerini e vasche idromassaggio. Quei due giorni erano stati il suo ultimo momento di pura felicità: aveva ancora sua madre, era con il ragazzo che amava e gli aveva donato la parte più pura di sé.
Era felice e non lo sapeva.
La felicità, ora, si manifestava in piccoli picchi così fugaci che non riusciva a registrarli, a trattenerli tra le mani.
Mani che stavano torturando se stesse perché tramite il dolore sordido poteva insistere nel voler credere alla pantomima di stare bene. Perché lei stava bene, no? Si sarebbero detti quello che non avevano avuto modo di dirsi in tre anni e poi ognuno avrebbe proseguito per la sua strada. Giusto?
Un pizzico di panico scoppiò come una scintilla, proprio quando Josh provava a forzare la sua tortura per sedarla. Non glielo permise, non lo lasciò entrare, non poteva concedersi quel lusso. «Diverse sono le cose che ora non hanno più importanza», le uscì più dura del previsto. Non voleva ferirlo ma quella era la semplice verità dei fatti e non sapeva se lui rientrava nelle cose che non importavano più o in quelle in cui valeva ancora la pena combattere.
Ma prima di vedere dove pendesse quell'ago Evans aveva il diritto di sapere tutto.
Una risata amara proruppe nel sentir definito Cohen un coglione. «Lui, forse, è ancor più odiato di me. Siamo uguali, Josh, probabilmente è questo il motivo che ci ha portato a diventare amici e poi» lasciò in sospeso quella frase, non voleva sottolineare il fatto di aver avuto diversi rapporti con il norvegese. Norvegese che si era trasformato nella sua persona, l'unico che sembrava riuscire a capirla anche solo con uno sguardo perché aveva tastato lui stesso con mano il dolore di perdere chi si amava. Inutile dire, però, che da quando Evans era tornato Elisabeth era divenuta un fantasma per lui perché parlargli avrebbe significato analizzare, parlare e dire cose che neanche lei sapeva. «E lui lo sa, ha fatto lo stesso per Mia», sparire per ricomparire solo quando effettivamente si dichiarò pronto a qualsiasi cosa fosse. Dannazione, l'aveva messa su una maledetta ringhiera sottile e traballante che dava su uno strapiombo e lei non aveva avuto paura di cadere.
Non come ora che si ritrovava con i piedi ben piantati per terra e l'ametrino che sottileneava una verità che a quanto pare solo loro due sapevano. Non voleva puntalizzare il fatto che lei avesse fatto lo stesso con Jones. Sarebbe stato superfluo.
«Sì, così daranno vita a chissà quale altra storia» lo disse divertita, ma entrambi sapevano come la loro vicinanza sarebbe stata vista dagli altri studenti, soprattutto da quelli della vecchia guardia.
Era tornata nella posizione di partenza, lasciandolo libero di scegliere e lui era rimasto. Era rimasto perché ora sentiva di nuovo il calore davanti a lei. Lo sentì prima di quelle mani che si sollevarono per posarsi al lato del suo viso.
Barcollò, si irrigidì, ma non lo allontanò.
Lasciò che quelle mani ritrovassero il posto che era stato casa.
Ma si sentiva incompleta.
Una pressione delle dita, una guida delicata ed ora erano davvero uno di fronte all'altra. Vicini, così vicini da poter sentire il suo sapore sulle labbra ad ogni parola pronunciata.
Proibito.
Otto lettere che potevano assumere una moltitudine di significati che per lei, però, erano pochi ma chiari: proibito, l'essere così vicini; proibito, il battito che andava aumentando; proibito, credere che lei fosse piaciuta davvero; proibito, sperare in qualcosa che non voleva ammettere di volere; proibito, pensare che lui avesse scelto il verbo piacere quando lei aveva usato amare.
Perché la differenza, tra loro, era stata tutta lì. Lui l'aveva quasi amata, lei l'aveva fatto. E non poteva recriminargli niente perché lui era stato sempre trasparente.
Così come in quel momento, nell'ammissione dell'essergli mancata, riuscendo a dire un flebile «anche tu» prima di lasciare che lui la catturasse.
Perché l'aveva visto arrivare e non si era scostata.
Perché lo voleva anche lei, debole davanti alla possibilità di poterlo assaporare di nuovo.
Lo baciò, mentre le sue mani si sollevarono solo per piantarsi nella sua schiena, per avvicinarlo ancora un po', con la mancina a salire fino alla sua nuca ad intrappolare quei capelli che le erano mancati come ogni singola molecola di lui.
Lo baciò, trasmettendogli rabbia, per quello che si erano fatti; rimpianto, per quello che avrebbero potuto essere; dolore, perché l'aveva ferita più di qualunque altro; passione, perché ora c'era la frenesia del voler prendere, dell'avere di più a discapito di qualsiasi altra cosa.Elisabeth
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.Cos'è che aveva detto? «Uscirò con te quando l'inferno gelerà, la luna sarà visibile nelle ore del giorno e quando un Portiere potrà afferrare un Boccino, cioè mai». Si era sentita invincibile quando gli aveva rifilato quel due di picche, in biblioteca, al loro secondo anno. Non si sopportavano, si erano sempre stuzzicati e non gli aveva creduto quando lui le aveva detto che le piaceva. Beh, dopo aver spezzettato il suo rifiuto con foto di cartelli stradali ghiacciati, lune in pieno giorno e quella maledetta della Hopkins che aveva indossato per una sola partita i panni di Cercatrice. L'aveva fottuta. In tutti i sensi.
Perché con Josh era così, quando credevi di poterlo battere, di averlo in pugno lui ti dimostrava il contrario. E quello la faceva infuriare come poche cose al mondo.
Così come il suo ego, in quel momento, nell'apprendere di esser stata con altri. Odiarla perché era stata con Cameron. «Non ne avresti alcun diritto», sibilina, arrivò la sua risposta. Perché poteva provare fastidio ma non avrebbe mai potuto sindacare chi e perché si era portato a letto, perché quel diritto che gli aveva offerto l'aveva letteralmente mandato a farsi benedire tre anni prima. E come lui non ne aveva il diritto, sapeva che neanche lei avrebbe potuto sindacare cosa aveva fatto lui in quel tempo, con chi era stato e perché. Ad eccezione di una sola persona.
Joshua Benjamin Evans era la sua cryptonite, il suo veleno, la torta di cioccolato che non toccava durante il campionato ma che voleva fino all'ultima briciola. E ammettere che le fosse mancato fu solo un punto di non ritorno, perché quelle labbra, quelle dannate labbra, avevano il sapore di familiare, di proibito, di giusto.
Fu come salire in sella di una scopa dopo tanto tempo e realizzare di saper ancora fare una finta Wronsky; fu come prendere tutti Eccezionale ai M.A.G.O. e anche qualcosa di più.
Ricambiò quel bacio perché doveva sapere, doveva capire. Perché semplicemente lo voleva. Il suo corpo lo voleva disperatamente. «Mio» fu il ringhio nella sua mente, mentre lasciava che si appropriasse dei suoi vestiti fino a mettere in risalto il suo collo. Fremette quando le labbra vi si posarono. Ma non le bastava.
La camicia venne sollevata, i muscoli della sua schiena sotto il suo tocco a guizzare mentre si inarcava contro di lui in una frizione che avrebbe portato sollievo. Non ti ho avuta per tre anni. No, era lui a non averla voluta. Questione di semantica, ma che cambiava tutto. E mentre lui le sollevava la coscia per incastrarsi meglio, contro quella porta che aveva accolto le loro confessioni e che ora stava assistendo ad una pura e semplice perdita di ragione, Elisabeth lo spintonò fino a farlo indietreggiare contro il tavolo ricercando la bocca con la sua mentre le dita, agili, liberavano i bottoni dalle loro asole. Non c'era più ingenuità nei suoi movimenti, non c'era innocenza ma sicurezza. Sicurezza nel fargli scivolare lungo le braccia la camicia senape fino a farla diventare una pozza informe di colore sul tavolo in cui aveva scarabocchiato il mostro che era. Ma tutto era stato mandato al diavolo. «Perché io sono il diavolo». Diavolo tentatore, una stronza, una che giocava coi sentimenti degli altri, una che si credeva superiore a tutto e a tutti. Ma lì, mentre giocava con la patta dei pantaloni di lui, stava risorgendo qualcuno che aveva seppellito tanto tempo prima e che non sapeva come avrebbe spento.
«Non ora», ma i suoi baci rallentarono, i suoi movimenti rallentarono mentre il suo respiro pesante si infrangeva contro il viso di Ben. «NO! Josh, lui deve rimanere Josh». Era tra le sue gambe, la destra sul suo petto, la mancina ancora sulla lampo dei pantaloni da abbassare. Lo guardò. Perché se avrebbero continuato non avrebbero più saputo come tornare indietro. Gli aveva appena fatto un assist, lasciandogli a lui la scelta se fare goal o mandare la Pluffa fuori dagli anelli.Elisabeth
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.«Problema tuo, non mio» rimarcò fredda, con la rivalsa dentro di lei a ballare la conga. Perché quando avevi il sospetto potevi ancora sperare, ma con la certezza no. E lei gli aveva appena cancellato dalla mente la scenetta che l'avesse aspettato per tre anni con lui, unico e solo, ad averla bramata, avuta e posseduta. «E non mi illudo che tu sia rimasto casto nel frattempo», anche se questo non le avrebbe impedito di provare una piccola nota di amarezza nell'immaginarlo dare e ricevere piacere da altre persone che non erano lei.
Un po' quello che stavano facendo in quel momento, carichi di tensione sessuale che non assecondarla sarebbe risultato blasfemo. E nella volontà di essere lei a dettare le regole del gioco -illudersi di farlo- lo spintonò fino ad un luogo che avrebbe potuto accogliere entrambi, gustandosi un copro che aveva imparato a conoscere nella camera di un albergo di Bath, tracciandone i confini ma notandone i cambiamenti. Le vene sulle braccia erano più evidenti, le mani scarne ma sempre pronte a contenere ogni centimetro della sua pelle.
Scese con le labbra dalla mandibola al collo, graffiando, mordendo e leccando rabbrividendo nel sentire il fruscio della camicia scivolare lungo le sue braccia, lasciandola in un semplice reggiseno nero, privo di pizzi ed orpelli stupidi e che a stento conteneva un seno più gonfio. E se la sua gonna veniva sollevata per avere accesso ad altra pelle sensibile, le sue dita erano sulla patta dei pantaloni della divisa con le labbra che avevano ritrovato quelle dell'ametrino.
Per quanto si stesse liquefacendo rallentò fino ad allontanarsi. E quello che vide era quanto più di magnifico e terrorizzante potesse assistere: labbra gonfie, capelli impazziti, i segni del suo passaggio sul collo e quello sguardo perso, ottenebrato dal desiderio. Di lei.
Era lei ad averlo reso così.
E lui sembrò tornare alla realtà, forse in maniera meno brusca della sua. Le mani che erano sui fianchi vennero meno per aiutarlo a sollevarsi sul tavolo, ampliando maggiormente le gambe per lasciarle spazio. Uno spazio che avrebbe potuto colmare. «Non ancora», il capo a pendere verso la spalla sinistra. Non voleva sapere quali fossero le sue condizioni in quel momento. Nel momento in cui stavano per fare sesso. Le sue mani erano ancora sulle cosce solide, quasi a sorreggersi. Il problema non era che non volesse farlo. Lo voleva.
Lyl. Non si era neanche resa conto di essersi avvicinata se non quando aveva sentito quel vecchio nomignolo, dandole il quadro di dov'era e in che modo era tra le sue gambe: fronte contro fronte.
Era buffo, perché con nessun altro aveva mai assunto quella posizione. La cosa che si poteva avvicinare di più era naso contro naso, ma la fronte... aveva cercato in ogni modo di evitarla -coscientemente e incoscientemente- perché era il loro modo per comunicare, per chiedere se stessero davvero bene. Perché era quella la prima cosa che lui aveva fatto nella foresta dopo settimane di prigionia.
La pressione sotto il suo mento, iridi cerulee che incontravano quelle gemelle, ed una domanda che non avrebbe avuto senso essere posta. Giusto?
Perché forse era proprio lei a non piacersi più.
Lasciò andare un sospiro e, seppur aveva fatto un passo indietro portando al termine quel contatto, non le interessò il fatto che comunque si infranse contro quelle labbra ancora arrossate. Chissà se sapeva ancora di lei.
Di riflesso lo fece con le sue, passandovi la lingua, trovando conferma dei suoi sospetti: c'era il suo sapore.
Sollevò gli occhi al cielo al ricordo dei suoi numerosi rifiuti -quanto era stata stupida- ma anche le sue labbra si tesero verso l'alto, in un sorriso specchiato di Evans. «E cosa?» Venne sbilanciata di nuovo verso di lui, ingabbiata dalle sue braccia ed il suo mento sulla fronte, quasi a volersi nascondere dal ricordarle di come avesse lasciato un lasciapassare in bella vista. Gli aveva comunque donato uno spiraglio e lui non aveva aperto quella porta. No. L'aveva letteralmente divelta.
E lui lo stava facendo di nuovo.
E lei, armata di legna ed accendino, stava per dare fuoco a tutto.
«Allora brucia».
Guancia contro guancia. Ma solo per prendere la rincorsa e ritrovare le sue labbra. Lingua, denti e labbra erano la sua benzina, la miccia le mani che risalirono lungo le cosce verso la cerniera che abbassò, questa volta senza alcun cenno di ripensamento, strattonando verso il basso la stoffa dei pantaloni della divisa fino a farli scivolare oltre il ginocchio, lungo i polpacci. E poi di nuovo su, tracciando il rigonfiamento ancora più visibile, mentre con i denti tirava il labbro inferiore, inarcandosi verso di lui.Elisabeth
Lynch"Sometimes you have to stand alone. Just to make sure you still can."
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Joshua B. Evans.
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