La rabbia è una scelta, non un'abitudine

Louise&Nicholas

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  1. Louise De Maris
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    Stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza.
    Forse sarebbe stato meglio se Evrard Boyer le avesse cancellato la memoria quella fatidica sera. Forse sarebbe stato meglio aver centrato almeno uno di tutti i suoi tentativi di suicidio. Forse sarebbe stato meglio essere già con i suoi genitori quel giorno e esser uccisa assieme a loro. Perché, così, nessuno, tantomeno lei, avrebbe sofferto. Poteva sembrare un pensiero egoista ma, sinceramente, non ce la faceva più a sopportare le percosse di suo zio, le umiliazioni a cui sua zia, Brigitte De Maris, la sottoponeva quotidianamente, gli attacchi e i morsi di Chivas, il cane di Evrard, la rigidità a cui doveva attenersi durante le lezioni che la sua tutrice la costringeva a seguire durante le sue vacanze, per prepararla ad essere una “degna” De Maris, che, poi, non lo sarebbe stata mai. Affatto. E allora Louise si domandava perché continuasse a insistere sulla sua persona, se sapeva che non avrebbe mai potuto essere una vera erede di quel cognome. E, poi, c’era anche la trafila di uomini con cui era costretta a passare del tempo, tutti suoi possibili futuri mariti che Evrard stava scegliendo per lei. Quando sarebbe arrivata la sua libertà? Quando avrebbe potuto spiccare il volo, respirare ossigeno, dormire sogni d’oro? Lei, ormai, viveva solo di incubi, di attacchi di panico non appena il suo udito fosse stato colpito dal rumore di un tonfo sordo o i suoi occhi avessero visto anche solo la silhouettes di un cane, di paura anche solo a scambiare una singola parola con uno sconosciuto, anche fosse stato un suo coetaneo, perché poteva essere tutto: una spia oppure la strada aperta per un report all’istituzione che suo zio rappresentava da parte dei suoi scagnozzi.
    Forse si stava meglio quando si stava peggio… quando non possedeva nulla dei suoi genitori, se non una misera collanina di suo padre. Ora, invece, aveva un album di foto e un quaderno di sua madre che aveva portato con sé dopo la “visita” ad Issigeac, durante la quale aveva pianto lacrime amare.
    Si sentiva arrabbiata: con sé stessa, per avere tutti quei pensieri; con Evrard e Brigitte; con Blake, anche se non ne aveva motivo; con Aaron, con praticamente tutti. E voleva sfogarsi, ma non aveva ancora trovato il modo e il tempo per farlo. Mentre camminava a passo celere tra i corridoi della scuola, per scaricarsi, le passò per la mente che nei paraggi ci fosse un’aula in disuso. Era finalmente arrivato il suo momento: corse verso quello che sapeva fosse lei, il vento le scompigliava i capelli lunghi e lisci che le cadevano sulle spalle ormai ossute, visto che era andata incontro ad un dimagrimento improvviso e ben visibile. Spalancò la porta e la richiuse, senza far rumore. Poi, lanciò un veloce – Muffliato – per silenziare la stanza e si prestò a quella che avrebbe definito essere la sua preferita: distruggere cose, tutto quello che avrebbe trovato davanti. Iniziò con un vecchio mappamondo e, a seguire, sedie, libri, giochi da tavolo. Non era nessuno presente lì e non aveva pensato che qualcuno avrebbe potuto precipitarsi di lì a poco.



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    La vita di Nicholas, vista da fuori, poteva sembrare tutto quello che una persona potesse mai desiderare. Un titolo, case di proprietà, una discreta somma di galeoni in banca…aveva persino dei fratelli con cui andava d’accordo e una madre amorevole - a volte decisamente troppo, secondo lui. Tuttavia, se ci si fermava bene a controllare, la mancanza di un tassello fondamentale rovinava tutto il bel quadretto che sembravano essersi dipinti. La mancanza di suo padre era una ferita che ancora stentava a rimarginarsi, e forse non lo avrebbe mai fatto per davvero. Ormai era difficile che si svegliasse per via degli incubi, sopratutto quelli riguardanti quel terrificante pomeriggio di qualche anno prima, ma erano orai un paio di giorni che non faceva altro. Era rientrato da poco a scuola, e la malattia di Mary Lou non aveva fatto altro che riportare a galla quel sentimento di impotenza generale che lo avviluppava ogni volta che succedevano cose simili. Il sogno più recente era partito con una semplice cavalcata accanto a suo padre, per poi trasformarsi in un terrificante susseguirsi di eventi che lo avevano fatto urlare fino a grattarsi la gola. Il bosco dietro la loro villa aveva preso fuoco, lui si era gettato avanti cercando di salvare suo padre che veniva mangiato dalle fiamme e all’improvviso era sua sorella quella intrappolata li dentro, e aveva lo stesso colorito cinereo che aveva su quel letto di ospedale…non che Nick avrebbe mai potuto fare qualcosa. Quando fu il momento di suo padre aveva avuto addosso le mani del fratello e della madre - a tenerlo, a pregarlo di non fare l’eroe - mentre per la sorellina l’unica cosa che poteva fare era starsene seduttorio su quella sedia scomodissima del San Mungo, tenendola per mano e sperando che le terapie avessero effetto. Solo il pensiero che ora Mary Lou era bene ed era tornata a casa lo mandava avanti in quei giorni. Quello e i baci di Fitz, ma l’opalino in quel momento non si trovava da nessuna parte, e Nick lo sentiva, sentiva che il suo cervello stava cominciando a vorticare, a sovrapporre le immagini del padre sorridente a quelle del suo cadavere, che aveva visto di sfuggita mentre veniva tirato fuori dalle ceneri del bosco. L’anello che aveva al dito era appartenuto a lui, l’anello che designava il lord della famiglia, quello che aveva la fantomatica ultima parola sulle questioni…chissà quali erano state le ultime parole di suo padre, prima di quel “state indietro” urlato a pieni polmoni…chissà a chi erano rivolte. Nick stava implodendo, e nessuno se ne rendeva conto. Doveva andare viaviaviava. Si staccò dal muro dove si era appoggiato - quando? Quando era arrivato in quel corridoio? - e si avvicinò alla porta dell’aula in disuso, aprendola e infilandosi dentro la stanza con un sospiro un po’ strozzato e gli occhi chiusi. Si appoggiò alla porta ora causa e li riaprì, scoprendo il caos, generato sicuramente dalla ragazza in piedi al centro dell quattro mura. Si schiarì leggermente la voce, e tenendo lo sguardo puntato in quello di lei fece un mezzo sorriso.
    -Rotti insieme, eh? - si staccò dallo stipite, allontanandosi da esso di qualche passo - Nicholas, piacere. Ma puoi chiamarmi Nick, miss..?
    Grandioso. Il mental breakdown avrebbe dovuto aspettare.
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  3. Louise De Maris
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    Le sue mani stringevano la gamba di una sedia che ormai non era più tale, la cui estremità era delineata da punte affilate che, se costrette sulla pelle nuda, avrebbero lasciato traccia del loro passaggio in striature di sangue, forse copioso. Le nocche si erano fatte bianche dalla presa ferrea che stava applicando su quella mazza di legno. Dappertutto, pezzi di vario materiale erano disseminati per il diametro e il perimetro della stanza. Sarebbe bastato un incantesimo per far tornare tutto come prima, vero? Vero?! Eppure, non ne aveva ancora abbastanza. Allungò il braccio verso uno dei libri sulla mensola di un grosso scaffale, con l’idea di acciuffarlo e scagliarlo violentemente contro un muro, ma le sue gesta rabbiose furono fermate da una voce maschile proveniente dalla sua sinistra. Louise virò leggermente il capo verso la fonte: lei aveva i capelli arruffati, le guance e le orecchie arrossate, lo sguardo cinereo e le labbra socchiuse per consentire all’ossigeno di avere miglior accesso alle sue vie respiratorie. Il petto si alzava e si abbassava ritmicamente: ansimava dallo sforzo che aveva compiuto. Abbasso lentamente il braccio, fino a che questo non ricadde lungo il suo fianco. Cosa voleva quel moretto? Ma, soprattutto, cosa ci faceva lì? Non vedeva che l’aula era occupata e anche distrutta?! Non rispose prontamente alle sue domande, troppo presa da quelle proprie che le perforavano il cranio. Poi, con un movimento brusco di braccio, lanciò lontano da sé la gamba della ormai defunta sedia, che precipitò sul pavimento con un tonfo.
    - De Maris! – rispose, specificando solo il suo cognome, con tono di voce duro e feroce. Non aveva voglia di parlare con nessuno, tantomeno fare conoscenza. Voleva star da sola, ma, a vedere dalla posa del ragazzo, non sembrava che lui volesse lasciarla stare. E quella constatazione la faceva innervosire ancora di più.
    - E, comunque, non sono affari tuoi! -


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    Erano ormai un paio di minuti che Nick si doveva ricordare di fare la cosa più semplice del mondo, ossia respirare. Tirava dentro un po’ d’aria e la lasciava lì all’infinito, per poi buttarla fuori e rimanere in apnea fino a che non si ricordava che l’aria era una componente importante per la sua vita. Era inevitabile, stava crollando su se stesso come un fottuto castello di carte dopo un alito di vento. E così si sentiva, effettivamente, una carta da gioco sballottolava avanti e indietro da un vento decisamente poco magnanimo. Ma cosa poteva fare lui? L’unica cosa che gli veniva in mente era urlare, o rannicchiarsi e sperare che tutto passasse al più presto. L’idea dell’aula gli era sembrata buona, fino a che non era effettivamente entrato e aveva trovato il caos personificato nella ragazza al centro di tutto, che a quanto pareva rispondeva al nome di De Maris. Francese, dunque. Probabilmente venuta da beauxbatons in quell’anno. Sembrava un fascio di nervi, pronta a scattare al minimo sospiro, e Nick sapeva che la cosa migliore da fare sarebbe stata andare via e lasciarla li con il suo dolore, o con il suo odio, con quello che le aveva fatto venir voglia di distruggere la stanza. Ma Nick era anche stato un grifondoro, e per quanto le occhiate omicide della ragazzina facessero decisamente paura, non aveva voglia di cercare un altro posto per…cosa? Rompersi? Piegarsi su se stesso e stare male e male e cercare di riprendere i suoi pezzettini e ricomporli prima di cena? Sentì il respiro accelerare, questa volta senza bisogno di comando, e se da una parte il pensiero che il cervello avesse capito di dover respirare lo rincuorava, dall’altro cominciò ad andare nel panico perchè stava respirando decisamente troppo, e troppo in fretta. Poggiò la mano sul tavolo più vicino, quello che un paio di ore prima aveva sopra una macchina per il caffè prontamente fornita, e cercò di rimanere dritto, più per non svenire che per preservare qualche briciola di dignità.
    -Si, si, lo so. Mi dispiace, mademoiselle De Maris, ma purtroppo dovrò occupare ancora un po’ il suo spazio personale. - Si sedette a terra, fregandosene dell’uniforme che probabilmente si sarebbe rovinata, e si passò una mano tra i capelli senza rendersi conto di essere scivolato involontariamente nel parlato formale che usava alle cene politiche a casa sua - continui pure, non si faccia problemi. Anzi, se i miei polmoni decidono di respirare in maniera normale tra un po’ potrei addirittura unirmi.
    Chiuse gli occhi per mezzo secondo, sentendo il petto contrarsi con forza, e boccheggiò dal dolore. Doveva calmarsi. Non era normale, non poteva continuare così e di certo non aveva bisogno che la ragazza si preoccupasse per lui. Non che quello sembrasse un problema, al momento.
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  5. Louise De Maris
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    La rabbia, effettivamente, non era una buona scusa per trattare male quel povero ragazzo che aveva solo deciso di aiutarla, in qualche modo. E Louise, di lì a breve, si sarebbe sentita una grandissima stronza e i sensi di colpa le avrebbero divorato il cervello. Alla fine, compì il lavoro che aveva iniziato poco prima: allungò la mano, raccolse un libro a caso e, poi, senza nemmeno dare uno sguardo di compassione alla copertina, lo scaraventò contro il muro con forza, accompagnando l’azione con un piccolo urlo di rabbia. In quel frangente di tempo, riuscì comunque a udire le prime parole del ragazzino e, pian piano, si fecero strada verso il suo udito anche i respiri tirati a forza e accelerati. La sua mente entrò come in un blackout totale sul momento: quante volte aveva respirato così lei? Non si potevano contare sulle dita tutti quegli attimi durante i quali aveva dovuto cercare di combattere la paura di non vomitare ed era rimasta seduta a fianco al water, a guardare le mattonelle bianche della dimora dei suoi zii, nella speranza che la nausea si calmasse presso. E, poi, c’erano tutte le volte in cui era rimasta senza ossigeno per i dolori lancinanti provocati dalle percosse di suo zio o dai morsi di Chivas, il suo alano, a cui Evrard ordinava di attaccarla. Ricordava anche bene quel giorno in cui l’uomo l’aveva tenuta sospesa in aria per il collo, quasi uccidendola dal soffocamento o in cui l’aveva letteralmente fatta volare contro un muro e lei era rimbalzata da esso sul pavimento, spaccandosi anche la testa.
    E il modo in cui quel ragazzino stava respirando non le piaceva per niente. La rabbia fu presto dimenticata e si ritrovò ad avvicinarsi al dioptase con passo celere. Si accovacciò al suo fianco, allungò le mani e provvide ad allargargli la corda della cravatta e a sbottonare qualche bottone della sua camicia.
    - Scusami, devo farlo… ti aiuterà… - gli disse. – Riesci a dirmi cosa senti? -
    Non poté avere risposta perché vide i suoi occhi sbarrarsi e la sua bocca aprirsi in una smorfia di dolore. Si spostò velocemente, in modo tale che fosse davanti a lui. Gli prese il volto tra le mani e lo costrinse a guardarlo, senza applicare forza eccessiva sul suo volto.
    - Ehi, guardami… guardami… -
    Ancora, acciuffò una sua mano e portò il palmo contro il suo petto. Qualcosa di concreto come il battito del cuore l’avrebbe aiutato a calmarsi, perché era quasi come se risvegliasse nell’uomo un ricordo primordiale: il ricordo inconscio del battito del cuore della mamma.
    - Ecco, senti il mio cuore… -
    Cercò i suoi occhi.
    - Respira… insieme a me… dentro! -. Inspirò. – Fuori… -. Espirò. Avrebbe continuato così per un po', fino a quando non si fosse calmato. Il palmo poggiato sul petto dell’ametrina l’avrebbe aiutato a toccar con mano l’azione del respiro e a guidarlo tramite esso.



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    Nick odiava con tutto se stesso la vulnerabilità. Non degli altri, quello mai, ma la sua? Insopportabile. Come poteva aiutare la gente se lui per primo aveva bisogno d’aiuto? Per questo, quando sentì le ginocchia implorare di sedersi e il respiro farsi più veloce, si trovò a imprecare leggermente nella sua testa. Che cosa patetica. Si accasciò, sentendo il rumore di un libro che urtava la parete e pensando che almeno la ragazza non doveva farsi tutti quei problemi, se aveva deciso di continuare con la sua distruzione totale e lasciarlo li. Il respiro non migliorava, e Nick no riusciva a pensare ad altro, di continuo, non facendo altro che peggiorare la situazione.
    “Respira piano, porco Salazar! Non c’è bisogno di fare tutto questo, sto bene! Sto bene, non c’è bisogno, respira piano!”
    Nulla sembrava funzionare. Il cervello lavorava a tremila, e la vista di Nick cominciò a risentirne. Strinse forte le mani, quasi a ficcarsi le dita nel palmo, imponendosi di non svenire. Non sarebbe successo. Non ce n’era il minimo bisogno, Morgana benedetta, stava bene fino a 5 minuti prima! Si sentì improvvisamente stanco, di tutto, incredibilmente propenso a lasciarsi scivolare nel buio che lo attendeva ad un passo, dietro il nero delle sue palpebre, che non riusciva a tenere aperte. Improvvisamente, sentì la morsa sul collo allentarsi leggermente, e aprendo leggermente gli occhi vide delle mani piccole e pallide armeggiare con la cravatta e i bottoni della camicia. Provò a muoversi, ma questo gli provocò ius dolore lancinante, che gli fece sbarrare gli occhi e lo fece ansimare, forte. Che miserabile. Stava perdendo una terribile battaglia contro se stesso, senza riuscire neanche a fare qualcosa - qualsiasi cosa, diamine - per vincere. Chiuse ancora gli occhi, sentendo che il troppo ossigeno gli stava facendo venire la nausea, quando quelle piccole mani, sorprendentemente forti ma gentili, lo presero per le guance, costringendolo al movimento. Aprì gli occhi, facendoli scontrare con quelli di lei, e la implorò con lo sguardo di lasciarlo morire, di lasciarlo li tra le sue insicurezze e i suoi problemi e il suo dolore. Lei, ovviamente, non raccolse la richiesta, e gli portò una mano sul petto. Nick stava per ritrarla - tanto non serve, non serve, non riuscirò a calmarmi - quando il battito del cuore di lei andò a scontrarsi con il suo, nettamente più veloce. La vide respirare, e con tutta la forza di volontà che riuscì ad accumulare in quel momento si costrinse a fare lo stesso, seguendo il ritmo di lei. Nick non sapeva bene quanto tempo fosse passato, prima che il suo respiro tornasse regolare. Minuti, ore. Non riusciva a capire come fosse potuto accadere. Un crollo così pesante non gli capitava da quando il padre…prese un respiro più forte, e scosse la testa a scacciare il pensiero. Non era il momento. Si lasciò cadere a peso morto con la schiena, appoggiandola completamente al pezzo di mobilio che aveva dietro, per poi alzare lo sguardo e incrociare quello della ragazza.
    -Io…grazie, per avermi aiutato. - sorrise, leggermente spossato, e riconoscendo la preoccupazione sul viso di lei - e scusami, non volevo rovinarti così la serata…mi dispiace averti fatto preoccupare.
    Cercò di darsi una sistemata, finendo solo per arruffarsi di più i capelli, e sospirò un po’ sconfitto.
    -Che periodo di merda.
    Si diede un occhiata in giro, notando di nuovo la distruzione della camera.
    -Non deve essere stata una buona giornata neanche per te, scommetto…
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  7. Louise De Maris
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    A dir la verità, si era spaventata e non poco per quell’attacco respiratorio che aveva afflitto il ragazzo: un conto, infatti, era viverlo in prima persona (non che fosse meno spaventoso), un altro ne era, invece, vederlo dall’esterno ed entrare in panico perché non si sapeva come muoversi e aiutare l’altro che stava male. Sì, Louise, alla fine, conosceva come fare perché l’aveva vissuto un milione di volte… ma questo non voleva dire che non le fosse quasi uscito il cuore dal petto quando aveva visto il dioptase quasi accasciarsi a terra.
    Il proprio volto, non proprio colorito già quando era in preda alla rabbia, si era fatto molto più pallido. Quando Nicholas scosse il capo, forse per scacciar via un pensiero spiacevole, Louise lasciò andar via la sua mano e strinse una presa gentile, ma ferma, sul suo mento.
    - Ti sconsiglio di muovere la testa… potrebbe girarti di nuovo all’improvviso e avere conseguenze poco piacevoli… - gli disse.
    - Non c’è bisogno di ringraziarmi… l’avrebbero fatto tutti, no? -
    Gli mostrò un sorriso educato, che non fece altro che solcare le due fossette ai margini delle proprie guance. Poi, chiese: - Come va il tuo stomaco? Ti fa male? È nauseato? -.
    Mali diversi comportavano cure diverse, seppur Louise avrebbe potuto sopperire solo con quelle babbane, imparate un po' grazie agli insegnamenti di suo padre, un po' per sopravvivere alle percosse e alle torture inflittale dallo zio durante tutti quegli anni. E, poi, c’era il fatto che negli ultimi tempi aveva convissuto parecchio sia con la nausea che con il vomito.
    Virò i suoi occhi verso il volto pallidissimo e leggermente sudato del ragazzo.
    - Non dirlo nemmeno per scherzo! – si ritrovò a rimproverarlo. – La mia serata era già rovinata ancor prima che tu facessi capolino in questa stanza e, comunque, non sei affatto da ritenere la causa del crollo dei miei umori -. Si lasciò scappare una risatina per scongiurare la tensione che c’era nella stanza.
    - Un attimo solo… - affermò d’improvviso, alzandosi da terra e muovendosi verso un mobiletto che non era ancora stato intaccato dalla propria furia distruttiva. Aprì le sue due ante: era alla ricerca di qualcosa che assomigliasse a un bicchiere, anche vagamente.
    - Eccoti! -
    Allungò una mano e raccolse una ciotola abbastanza profonda. Anzi, era meglio prenderne due.
    - Hai ragione, è un periodo davvero di merda! – rispose all’affermazione di Nicholas. A propria testimonianza c’erano anche le occhiaie nere dipinte sotto gli occhi.
    Strinse la bacchetta tra le dita. – Aguamenti! – cantò, prima verso una, poi verso l’altra ciotola. Portò tutto sul mobile su cui era poggiato di schiena il dioptase.
    - Ecco, prendi! Comincia con un bicchiere d’acqua, che fa sempre bene! -
    Se, infatti, le avesse detto di avere mal di stomaco, gli avrebbe preparato una tisana. Come? Beh, forse avrebbe fatto un salto di nascosto nelle cucine. O avrebbe chiesto a qualcun altro.
    Avvicinò un fazzolettino imbevuto di acqua fresca alla sua fronte, ma, prima di poggiarlo sulla pelle, l’avrebbe guardato per chiedergli il permesso di farlo.
    Poi, gli avrebbe detto, porgendogli l’altra ciotola, - Bagnati i polsi e dietro le orecchie… ti farà sentire meglio… -. Seguì un istante di silenzio e una domanda un po' scomoda: - Hai spesso questi attacchi…? -





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    La mano di Louise sul viso sembrò riportarlo appena appena di nuovo in questa dimensione. Il respiro si era ormai regolarizzato, ma il problema vero era il cervello, che continuava la sua corsa nell’infinità del buio e dei cattivi pensieri senza dargli un attimo di tregua. La voce di lei lo raggiunse, sempre gentile, sempre attenta. La guardò, ammirandone il viso e imprimendosi nel cervello la posizione delle sue fossette, per poi replicare con uno dei suoi, di sorrisi.
    -No. Non tutti.
    La gentilezza, per Nick, non doveva mai essere data per scontata. Lou si era dimostrata una ragazza alla mano, affidabile e gentile, e nessuna di queste caratteristiche era da considerarsi comune, visto quanti ne aveva incontrato che invece lo avevano trattato proprio l’opposto. Senza quasi volerlo il cervello gli fece ricordare una delle cene che sua madre lo aveva obbligato ad organizzare insieme a lei. “È uno dei tuoi doveri, ora che sei Lord della casa. Su, Nick, fa quello che devi”, e Nick lo aveva fatto. Aveva organizzato la cena, sorriso alla gente che si congratulava con lui dopo avergli fatto le condoglianze formali per suo padre…solo per poi nascondersi nella sala del pianoforte e ascoltare per sbaglio tutte le conversazioni di grandi Lord che lo trattavano da ragazzino e immaginava che presto la grandezza dei Mc Callister si sarebbe esaurita. Falsi.
    -Un po’, sinceramente non stavo così male da un sacco di tempo. - si fece scrocchiare il collo, girandolo lentamente a destra e poi a sinistra - però, passerà anche questa.
    Il tono di rimprovero lo fece quasi sorridere. Sembrava AMry Lou quando lui e Cam le rubavano i pennelli per farle uno scherzo. Così, sempre sorridendo, alzò le mani in segno di resa e si unì alla risatina di lei. Era veramente curioso di chi fosse la causa del mal umore della ragazza, ma non voleva intaccare quel piccolo sorriso che si era fermato sulle labbra di lei, e così decise per il momento di lasciar stare. La guardò alzarsi per raggiungere un mobile dall’aria quasi integra, per poi cominciare a cercare qualcosa al suo interno.
    -Cosa…?
    La vide tirar fuori due ciotole, e si trovò incredibilmente a sorridere ancora. Era davvero una ragazza premurosa, quella Louise.
    -Effettivamente, se posso permettermi, non hai proprio una bella cera…incubi, realtà o entrambi? - poi, visto che non era giusto che lei rispondesse senza saper nulla di lui, aggiunse - per me sono entrambi. La realtà che si trasforma in incubi quando dormo.
    Accettò la ciotola, prendendo un sorso d’acqua e alzando un pollice, ringraziandola mentre beveva. Il suo stomaco inizialmente protestò vivacemente, ma dopo un paio di sorsi si era calmato, e Nick riuscì a trovare un sospiro di sollievo. Si lasciò bagnare la fronte dalla ragazza, sentendosi progressivamente meglio, e seguì il suo consiglio, bagnandosi leggermente i polsi. Poi si trovò a guardarla, sorridendo ma senza che il sorriso gli arrivasse davvero agli occhi.
    -No, in realtà. Non così brutti. L’ultimo che ho avuto così forte è stato quando mio padre è morto, ma ultimamente sono successe un sacco di cose con mia sorella in ospedale e non so…- strinse le spalle - forse è stato un po’ traumatico. Tu invece? Non per essere scortese, ma sembri parecchio ferrata su cosa fare quando si ha un’attacco di panico.
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  9. Louise De Maris
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    Stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza.
    Il ragazzino aveva effettivamente ragione: Louise sapeva che non tutti sarebbero stati in grado di gentilezza e lei l’aveva sperimentato sulla propria pelle. Quante volte, infatti, aveva dovuto fare i conti con le cinghiate sulla schiena e con una mente fragile e spezzata, senza che nessuno si facesse avanti per aiutarla? Tutti erano stati a guardare, persino Alton, colui che era stato il suo promesso sposo, aveva lasciato che suo zio la torturasse, senza muovere un dito per aiutarla. Era stato proprio lui a sottomettersi alla volontà di Evrard Boyer e a spegnere quel mozzicone di sigaro sulla pelle nuda del seno dell’ametrina, sul quale vi era ancora una leggera traccia di cicatrice. Ed era rimasto a guardare mentre lei singhiozzava e pregava disperatamente il suo aguzzino di smetterla, mentre scalciava disperatamente premuta contro un muro e sollevata da terra dalla mano dell’uomo sulla sua gola, che la stava soffocando a morte, mentre urlava dalla disperazione per la confessione che i suoi genitori fossero stati uccisi a sangue freddo dalla bacchetta di Evrard, mentre proprio quest’ultimo confessava che avrebbe voluto tanto scoparsi la madre di Louise… Lei lo sapeva bene e non riuscì a rispondere a quella risposta. Lasciò che fosse il silenzio a parlare per i suoi pensieri e continuò a muovere le dita, non più ferme, ma leggermente tremanti per tutto quello che aveva appena rivisto in una sequenza di ricordi. Sapeva che il Mc Callister, prima o poi, se ne sarebbe accorto; perciò, non provò neanche a nasconderle dietro la schiena, per quanto sembrasse allettante l’idea che la sua sofferenza potesse sfuggire agli occhi del dioptase. C’era solo un’altra persona di quella scuola che l’aveva vista in quelle condizioni: Blake Barnes. Era felice che non fosse lui ad essere in quella stanza, perché non riusciva proprio a pensare come avrebbe dovuto affrontarlo dopo quanto accaduto.
    Annuì dolcemente.
    Sì… passerà”.
    Erano pensieri più di convinzione rivolti verso sé stessa, che non riusciva più a credere in un’esistenza pacifica, normale. La propria normalità, ormai, consisteva nel convivere quotidianamente con gli incubi che non erano altro che pezzi frammentati di realtà gettati nei sogni più oscuri.
    Si concesse di rivolgergli un lieve sorriso. Aveva compreso a che gioco stesse giocando.
    - Cosa è? Una confessione per una confessione? -
    Non avrebbe avuto problemi a riferirgli quella parte di sé stessa, soprattutto se ricambiata, perché sapere qualcosa in più di quello studente le avrebbe permesso di aiutarlo con più facilità.
    - E’ lo stesso per me… vorrei che fossero solo incubi, ma, purtroppo, non è così… -
    Non aveva una bella cera ancora, ma aveva messo su un po' di peso, riempendo, con sua grande gioia, i fianchi e i glutei. Avrebbe dovuto smettere di sperare per il seno cadente… non avrebbe potuto far nulla, se non sottoporsi a un intervento estetico di qualche tipo per rimetterlo su. Ma non era il fisico ciò che importava in quel momento, per quanto avesse voluto essere più bella di quello che fosse… soprattutto per Blake.
    Rivolse un’occhiata comprensiva al dioptase.
    - Mi dispiace per tuo padre… - disse semplicemente. Non aveva idea di quanto percepisse e comprendesse il suo dolore.
    - Sì, in effetti sono abbastanza ferrata, come hai detto tu… ci soffro da… - si bloccò per un secondo. - …da un po' di tempo. E, dopo un po', si deve per forza capire come affrontarli, no? Altrimenti si rimane schiacciati, soprattutto quando- -.
    Fermò il suo parlare d’improvviso: non voleva svelare di sé stessa più di quanto avesse già fatto. Provò a cambiare argomento.
    - Come ti senti? -






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    Nick, sebbene portasse nel passato il rosso oro dei Grifondoro, non era mai stato stupido, o disattento. Insomma, in quel momento indossava i colori dei dioptase, e per quanto poco valesse una cosa del genere, si sentiva davvero degno della sua nuova definizione. Perciò, non si stupì di se stesso quando notò il modo in cui le piccole mani di Louise tremassero, o il modo in cui i suoi occhi erano volati lontano, insieme - probabilmente - ai suoi pensieri. La lasciò fare, senza interrompere il flusso di quelli che sicuramente erano ricordi, sapendo che anche se quasi sicuramente poco piacevole, era una cosa talmente personale che lui non avrebbe potuto fare nulla, ne metterci bocca. Quando la vide annuire, certo che fosse tornata li di fronte a lui anche con il cervello, si azzardò a prenderle le mani. Non disse nulla, limitandosi a stenderle leggermente nelle sue per poi lasciarle andare. Un semplice “sono qui”, “Se vuoi crollare anche tu ti sostengo” mascherato da piccolo gesto. Ma Nick sapeva che lei avrebbe capito, non comprendendo neanche perchè di quella sicurezza. Era un po’ meravigliato dalla semplicità con cui erano caduti in quella ripetizione di gesti, la confessione e la passata d’acqua sui suoi polsi, il sorriso e il ricordo. Era anche piuttosto meravigliato da quanto si sentisse a proprio agio a parlare con la ragazza, seppur aiutato, sospettava, da fatto che lei lo avesse quasi visto svenire. Sorrise.
    -Solo se vuoi - si fermò un secondo, per poi spalancare gli occhi e ridacchiare - prima però dimmi come ti chiami, Miss De Maris, o altrimenti me sentirò sempre in svantaggio.
    Perse un po’ il sorriso, riprendendo il modo complicato che si era creato nella stanza, e annuì deciso, concordando in pieno con la ragazza.
    -Fa davvero schifo, quando è così. Ti svegli sperando sia tutto finito e invece ti ritrovi l’incubo dritto dritto nella realtà.
    In un’inattesa botta di fiducia, si trovò poi a confidarsi con la ragazza, aprendosi come mai aveva fatto con uno sconosciuto. Era un po’ incredibile, il fatto che fossero passati a dirsi cose simili senza neanche sapere…chessò, quale fossero i loro colori preferiti. Sorrise mesto allo sguardo che le rivolse Louise, per poi ringraziarla con un cenno del capo. Sapeva, in cuor suo, che non gli stava dicendo “mi dispiace” tanto per dire. La osservò mentre parlava di se. Non sembrava molto felice del suo passato, ne molto tranquilla nel parlarne.
    -Si, decisamente. - le sorrise, cercando di essere rassicurante - sei molto forte, Louise.
    Accettò il cambio di argomento con naturalezza, non volendola farla sentire a disagio o - Merlino lo risparmiasse - farle venire un attacco di panico facendole ricordare cose spiacevoli.
    -Molto meglio, devo dire. - flesse un po le dita, sentendole meno intorpidite - mi sono quasi ripreso del tutto.
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