Stubborn Love

Nick & Fitz

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    Era passato un mese buono dall’ultima volta che Nick aveva messo piede a Hidenstone. Un momento prima era li a lezione, tenendo una mano a Fitz e prendendo appunti normalmente, quello dopo si era ritrovato catapultato in un turbine di incontri con medici e medimaghi, infermieri e domestici e - Merlino, gli faceva male solo a ricordarlo - le lacrime di sua madre. Mary Lou stava male. Male da ospedale, però, non il solito vecchio raffreddore che le prendeva ogni primavera. Aveva cominciato a tossire e non aveva più smesso, fino ad arrivare a tossire sangue.Quando era entrato a farle visita, sul lettino di ospedale aveva visto una bambina gracile e dal colorito cinereo, molto lontana da quella che era l’immagina che lui aveva in testa della sorella. Aveva quindi passato un mese a sentire medici e infermieri, a cercare invano di consolare la madre - che già era certa di aver perso la figlia - e suo fratello Cam, che sembrava essere diventato una statua di sale. Solo quando finalmente il trattamento aveva cominciato a fare effetto e il colore era tornato sulle guance di Mary Lou aveva ricominciato a essere.
    In tutto quel trambusto, tuttavia, non era riuscito a scrivere neanche una riga di lettere, a nessuno. Voleva mangiarsi le mani, ma le giornate erano occupate con la sorella, e appena tornava a casa crollava in un sonno talmente profondo da sembrare in stato comatoso a chi lo osservava. Sperava solo che Fitz lo ascoltasse, lo lasciasse spiegare. Non voleva perderlo, decisamente non dopo così poco che lo aveva, ma si rendeva conto di non essere nella migliore delle situazioni. E Fitz…non sempre riusciva a non farsi prendere dalla rabbia.
    Strinse al petto “la casa sul mare celeste” e ne tracciò il contorno con le dita, sentendo gli occhi che si riempivano di lacrime. Era passato. Era tutto passato e stavano tutti bene, e ora doveva solo ritrovare il suo meraviglioso ragazzo e doveva lasciarsi baciare come solo lui riusciva a fare, e forse sarebbe riuscito a respirare di nuovo. Forse avrebbe smesso di sussultare ogni volta che sentiva un colpo di tosse, o avrebbe smesso di mangiarsi le unghie, divorandole come se stesse divorando la sua ansia. Magari, se le braccia di Fitz lo avessero stretto, avrebbe smesso di sentirsi così solo e inerme davanti al mondo. Si asciugò una lacrima solitaria e strinse al petto il libro, che aveva il piccolo bigliettino lasciato dall’opalino incollato in prima pagina. Doveva trovare il suo Linus Baker.
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    Fitz G. O'Connor
     
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    Un giro, due giri, tre giri. L'anello dall'anulare sinistro viene sfilato via. Lo stringe in un pugno. Poi lo sposta fino alla punta delle dita. Lo rigira. Mani, corona e cuore. La punta di quest'ultimo graffia leggermente il polpastrello del medio. Lo blocca tra questo e l'indice e poi lo infila nell'anulare del destro con la punta del cuore rivolta verso il dorso della mano. Esco con qualcuno è il messaggio in codice di chi conosce la tradizione irlandese dell'anello. In realtà lui vi attribuiva il significato del provo qualcosa per qualcuno. Fino a qualche secondo prima di giocarci era sulla mano opposta, con la corona a baciare la nocca e il cuore a proiettarsi verso le dita affusolate: fidanzato ufficialmente, per lui in una relazione. Erano passate settimane da quando aveva assaporato le labbra di colui cui aveva affidato il proprio cuore, così tante da non ricordarsi più il suo profumo, la sua risata, il suo sapore. Settimane che si erano accumulate fino a diventare mesi, infinità, ma dove lui aveva sempre messo quel dannato anello, cimelio di famiglia, su quel maledetto dito nonostante il suo cuore divenisse sempre più una pietra. Come poteva continuare a battere se lui non c'era più? Lui ed il suo gemello. Strinse i denti. Neanche i suoi papà gli avevano voluto rivelare dove Brooklyn era andato a cacciarsi, limitandosi ad occhiate di compassione al suo dolore silenzioso.
    Un dolore che non era riuscito ad anestetizzare con lo studio e i successi scolastici e para scolastici, in misura minore alle sue aspirazioni iniziali. Abbassò lo sguardo su quel claddagh che lo sbeffeggiava con la speranza di riavere indietro il proprio cuore. Imprecò, a denti stretti.
    In un gesto di stizza provò a sfilarsi nuovamente il pezzo d'argento, per rigirarlo nuovamente tra le dita mentre i suoi piedi calpestavano l'ingresso del castello. Era nervoso, scattante, rabbioso. Voleva solo infilare quel dannatissimo anello al medio destro, il finale spigoloso del cuore ad accarezzare le falangi, in un chiaro: «vaffanculo a tutti, sono tornato su piazza, SONO SINGLE Parole che mascheravano odio...
    L'anello cadde a terra, iniziando una corsa verso l'infinito ed oltre. Lo seguì, con una frase che continuava a rombare negli orecchi: «No. L’odio è una perdita di tempo. Ho troppo da fare per mettermi a odiare qualcuno. Sto bene così». E doveva stare bene. Doveva solo recuperare quell'anello ed indossarlo. Tutto lì.
    Anello che arrestò il suo cammino davanti ad un paio di scarpe un po' consumate sulla punta. Rabbrividì. Non tanto per le calzature, quanto più per l'odore che arrivò a stuzzicargli le narici. La botta iniziale arrivò con il profumo del sandalo, forte, virile, spezzato un po' da quello pungente degli di pino bagnati dalle gocce di un temporale estivo. E poi il lieve, sensuale, aroma di caramello che inizialmente pensava provenire da un eccessivo consumo di dolciumi salvo poi scoprire che era l'odore naturale della sua pelle, proprio in quella porzione di collo poco sotto i lobi. Le sue papille registrarono il sapore mentre l'anello perdeva d'interesse, così come quel braccio teso ed una mezza parola di scuse si arrestarono quasi al loro principio. Che fosse...? Non voleva creare false speranze al suo cuore di pietra, non voleva essere uno stolto che credeva in tutto ciò che gli veniva messo sotto il naso senza accertarsene personalmente o fare almeno un minimo di ricerca. Poi lo vide. Quel panorama marino, in un mare celeste, fu il secondo colpo nonostante ne vide solo frammenti per via di quel braccio che spesso aveva sentito stringersi attorno al suo corpo. Corpo che ne riconobbe il peso ed il calore. Ma la scalata dal basso verso l'alto continuò, incontrando le clavicole delicate, il mento che si era affilato nel tempo e poi due pozze oscure incontrarono due confuse cioccolato. Un sopracciglio si arcuò, le labbra si strinsero fino a formare una linea dritta.
    Uno, due, tre secondi e poi si chinò per recuperare l'anello e stringerlo forte nel palmo della mano mentre ritornava in una posizione eretta. Guardandolo apertamente rigirò lo stesso tra le dita. Non sapeva cosa fare. Non sapeva cosa dire.
    Però poteva essere stronzo.
    «Pensavo che gli avessi dato fuoco, magari con te dentro al falò» -occhieggiò la copertina del libro che era stato un suo regalo, nonché la sua fottutissima dichiarazione d'amore- «No, che sbadato. Tu preferisci accendere la miccia e non guardare neanche l'incendio divampare, figurarsi camminare tra le ceneri». Ma nel dirlo l'anello trovò il suo posto. Anulare, cuore verso l'esterno e mano sinistra: era di nuovo in una relazione. Ma non ne era consapevole.
    Fitz O'Connor

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    La sua ricerca finì ancora prima di cominciare. Nick aveva fatto solo un passo, un solo minuscolo passo in avanti, quando un anello vagamente familiare aveva preso a rotolare verso di lui. Allora era rimasto immobile. Fermo come una statua di marmo, scolpito tra i respiri mentre il piccolo pezzo ornamentale scivolava verso di lui, come una traccia da seguire. Ed eccolo lì, il suo cacciatore. Procedeva spedito, evidentemente stizzito dalla situazione. Nick restò fermo. Lo vide raggiungere lo spazio davanti a lui, abbassarsi a recuperare il ninnolo e poi fermarsi, anche lui, probabilmente riconoscendolo senza neanche bisogno di guardarlo. Fermo, mentre gli occhi di Fitz gli scivolavano addosso come una doccia fredda in pieno agosto, permettendogli di ricominciare a respirare. Fermo, mentre vedeva il viso di lui registrare le sue braccia, il libro, il suo collo e infine i suoi occhi. Quello che vide una volta che aveva quelle iridi d’ossidiana puntate nelle sue non gli piacque per niente. Era stato difficile aspettare che Fitz capisse che non c’era bisogno di nascondersi dai suoi sguardi, aspettare di avere gli occhi nei suoi per più di qualche secondo. Ora capiva perchè spesso il moro girava lo sguardo, come se avesse paura che Nick gli avrebbe visto l’anima se lo avesse guardato troppo a lungo. In quegli occhi, effettivamente, Nick vedeva tutto. La rabbia, la disperazione, la voglia di urlare. Il sollievo. Lo guardò mentre si piegava, per recuperare l’anello che se ne stava dimenticato davanti le sue scarpe. Stava per prendere fiato, stava per rompere quell’incantesimo di immobilità che evidentemente gli era stato lanciato addosso, quando Fitz aprì la bocca, e allora si sentì morire dentro, perchè aveva ragione. Aveva ragione, era stato uno stronzo, e lui aveva tutto il diritto di sentirsi così. Aveva tutto il diritto di vomitargli addosso tutto l’odio che sicuramente stava provando per lui in quel momento, tutto il risentimento che gli si annidava nel cuore. E allora fu Nick che non riuscì più a guardarlo negli occhi, e si ritrovò a fissare il pavimento con un intensità spaventosa. Non voleva che andasse così, non sarebbe dovuta andare così. Ma naturalmente niente succedeva mai come voleva lui, e questa era l’ennesima prova che Merlino e Morgana probabilmente lo odiavano. Improvvisamente, prese fiato. I polmoni gli facevano quasi male, tanta era la voglia d’ossigeno, ma lui non se ne rese neanche conto, concentrato com’era sul dolore del suo cuore, terribilmente desideroso delle braccia di Fitz intorno al suo corpo. Dal nulla, si sentì piccolo. Piccolo, indifeso, nudo. Dopo il mese d’inferno che aveva passato, non aveva le forze per poter tener testa a Fitz come aveva sempre fatto. Una lacrima gli scivolò sul viso, seguita pochi secondi dopo da un’altra, e poi da un’altra ancora.
    -Scusa. Scusa, scusa, scusa, scusa.
    Un mantra, una richiesta, una preghiera di perdono che sperava Fitz cogliesse. Allungò il braccio libero, andando a chiudere la mano introno al tessuto della manica del ragazzo di fronte a lui, per poi avvicinarsi di un passo e poggiare la testa sulla sua spalla.
    -Fitz, io…tu hai tutto il diritto…ti prego lasciami spiegare…
    Non sapeva neanche cosa dire, come fare per far capire al ragazzo che quella era la prima volta da quando aveva varcato la porta dell’accademia che sentiva il cuore battere per davvero.
    -Mary Lou è stata male, io…troppo poco tempo…non riuscivo neanche a mangiare…
    Singhiozzò, odiandosi terribilmente per quello sfoggio di emotività in mezzo all’ingresso, e rialzò la testa, puntando gli occhi in quelli del suo cuore.
    -È stato l’inferno, e io ci camminavo dentro come un morto. - strinse la presa sulla manica - E tu…tu hai tutto il diritto di incazzarti. Hai tutto il diritto di non parlarmi più. Ma sappi che ti ho pensato. Sempre. Sei diventato la mia anima, Fitz, come facevo a non pensarti? - abbassò di nuovo lo sguardo, puntandolo sulle mani di lui - ti prego, non andartene.
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    Tutto si era aspettato quel giorno tranne di ritrovarsi davanti lui. Se solo si fosse dedicato alla lettura dell'oroscopo quella mattina avrebbe potuto apprendere di come Venere fosse entrato da qualche parte in qualche altra, influenzando la sfera dell'amore, altresì in breve: attenzione! Vecchi ritorni di fiamma si profilano all'orizzonte. Con quello si sarebbe fatto una grande risata, ma nella realtà lo avrebbe preparato a non essere così sorpreso. Sia ben chiaro: la sua maschera da stronzo rimaneva perfettamente su, come una seconda pelle, ma era il cuore che non aveva capito più niente. Quel maledetto aveva preso a battere freneticamente quando l'aveva riconosciuto. Sia chiaro, ben prima che il suo sguardo aveva percorso la sua intera figura. Non lo avrebbe mai ammesso -lo avrebbe fatto settimane più tardi lol- ma aveva sentito la mancanza di quell'essere, non solo nel suo involucro esteriore -davvero troppo appetibile- quanto più per la sua anima. Fitz c'era cascato con tutte le scarpe sin dalla prima volta su quella panchina, rendendo vani i tentativi di tenerlo lontano dalla sua vita. Gli indizi erano stati tutti a favore di Mc Callister a partire da quel suo maledettissimo secondo nome fino al suo tocco e al suo sapore. E che dire poi di quel libro con quella dedica sdolcinata cui si era maledetto innumerevoli notti per aver lasciato scoperto e visibile il suo lato più puro, vulnerabile, ancora bambinesco. Perché erano i bambini quelli che amavano senza remore di sorta e pregiudizi. Ma lui non era più quel bambino. Era quello che gli piaceva credere in realtà, perché l'istinto di levare le sue dita un po' fredde ed alquanto tremanti per togliere via le lacrime che iniziarono a rigare quei tratti che lo avevano perseguitato giorno e notte. Quante volte si era fermato in un corridoio perché aveva realizzato che li cercava in ogni singolo essere che incontrava? Troppe, aveva smesso di contarle.
    Odiò quella parola ripetuta continuamente, una cantilena composta da cinque lettere che recavano in seno il balsamo per lenire le ferite di entrambi. E odiò se stesso per non avere avuto la prontezza di ritirare il suo braccio prima che potesse essere afferrato da lui. Debole, era un debole. Schiavo di quel tocco familiare che divenne finalmente reale, tangibile. Se lui lo stava toccando significava che poteva fare lo stesso? «Cosa stai facendo?» Un quesito che lo abbandonò in un rantolo carico di sofferenza, di paura. Perché dannazione profumava di buono? Di casa? Perché aveva sentito la necessità di appoggiare la fronte su di lui? Non riusciva a guardarlo in faccia e perché? «Nicholas», il suo nome per intero risuonava così freddo, distaccato, ben lontano dal calore e dai sospiri che accompagnavano il suo diminutivo. La mano libera era già volata sulla spalla, pronta a premere sulla clavicola per allontanarlo da lui fino a quando non arrivarono spiegazioni. Sgranò gli occhi. La più piccola di casa, quello che Emily rappresentava per lui, stava male. O almeno lo era stata. «Come sta lei?» Si era preso tutto il tempo del mondo, persino sordo ai singhiozzi di lui ed all'accenno di inferno che aveva vissuto. Anche lui ne era stato avvolto ma quanto si poteva sentire legittimato nello sbattergli in faccia che anche lui era stato avvolto dalle fiamme? Sorellina in fin di vita batte interesse amoroso del momento cento a zero. Chiuse gli occhi, strinse le labbra, rifiutando di perdersi in quegli occhi dolcissimi che lo imploravano di credergli. «Anche io ti ho pensato sempre» avrebbe voluto urlargli addosso, così come ricordargli che non aveva risposto a nessun messaggio. Per quanto intontito dal dolore perché non gli aveva risposto? Bastavano poche parole e lui avrebbe capito. Sarebbe persino andato da lui, finendo con l'essere un supporto effettivo e non un santino cui rivolgersi prima di andare a letto. «Non pretendevo mica un gufo... ma un messaggio del tuo magifonino sì», fu quello che riuscì a dire, riaprendo gli occhi ma non allontanandolo da lui, con il legame della sua mano che era scesa dalla spalla al petto. «Ho pensato che fossi scappato con mio fratello, ho pensato di non essere abbastanza, ho pensato che» si fermò, scuotendo leggermente il capo. Non era pronto a dire quanto miserabile ed inetto aveva creduto di essere. Fitzgerald Garrett O'Connor colui che non era all'altezza del cuore di Nicholas Evan Mc Callister.
    Fitz O'Connor

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3 replies since 23/8/2022, 00:37   108 views
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