six feet under

Nick&Fitz

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    Negli ultimi giorni era diventata una piccola abitudine per Nick avere sempre in tasca una piccola pietra con sopra incisa la runa Naudiz. Non che la trovasse particolarmente bella, o che amasse il suo significato all’inverosimile, ma era diventato un monito costante per lui. Se la stava rigirando tra le dita con insistenza anche in quel momento, senza farci neanche caso, mentre camminava per i corridoi del castello senza una vera meta. Era appena uscito dalla sala grande, dopo pranzo, e si stava dirigendo in sala comune per riposarsi un pochino quando i suoi piedi avevano deciso di continuare a camminare. Come tronato al presente, si rese conto di avere il sassolino in mano, e lo guardò come se potesse dargli tutte le risposte che desiderava. Naturalmente non era così. L’unica cosa che avrebbe potuto rispondere a tutti i quesiti di Nick era la bocca di Fitz O’Connor, cosa non fattibile visto come lo evitava neanche avesse il vaiolo di drago. Si passò una mano tra i capelli, ricordando come erano sembrate giuste le mani dell’altro tra di essi. Si diede uno schiaffato sulla guancia, un ammonimento a smetterla di pensarci. Non era giusto. Certo, non era stato giusto neanche il modo in cui lui l’aveva lasciato li su quella panchina, a patire il freddo più intenso che avesse mai sentito, senza neanche una spiegazione. Un momento prima sulle nuvole, un momento dopo sotto terra. Si era interrogato spesso, in quei giorni, su cosa avesse potuto fare di sbagliato, senza trovare alcuna risposta. Insomma, magari l’enfasi lo aveva spaventato, ma non era una scusa plausibile - considerato che oltre ad essere stato lui a cominciare, aveva messo tanta enfasi quanto Nick - oppure si era semplicemente reso conto di non volerlo più. Ma perché allora non dargli spiegazioni? No, non ci stava. Poteva anche essere un Dioptase, ora, ma il suo animo da Grifondoro non era di certo scomparso, e in quel momento gli urlava solo una cosa: cercalo, e fatti dare le risposte che meriti. Così, con la runa stretta in mano come se un monile prezioso, e con la bruciante sensazione di essergli vicino, cominciò a cercarlo. Necessità. Tsk. Non poteva aver bisogno di Fitz. Non c’era alcun motivo per cui il suo cervello reclamasse a gran voce un altra di quelle schermaglie sussurrate e striscianti, che ti si infilavano sotto pelle senza darti il tempo di capire cosa stesse succedendo. Non c’era motivo per cui le sue labbra cercassero nel vuoto quelle di lui, o il suo corpo stringesse l’aria alla ricerca del suo. Girò l’angolo, e andò a sbattere contro qualcuno. D’istinto allungò le mani, a sorreggere l’altra persona, per poi guardarla negli occhi e lasciar cadere le braccia con un secondo. Gli occhi di Fitz tuffati nei suoi.

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    Fitz G. O'Connor
     
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    Stava rischiando la pazzia. Dormiva poco, mangiava ancora meno, si concentrava sulle lezioni e provava in ogni modo ad allontanarsi dai teatrini che sembravano avvolgere il gemello, la sua migliore amica, la sua ex e il ragazzino che aveva una cotta per lei. Merlino, erano già difficili da trattarli separatamente, non osava immaginare la mole di pazienza cui avrebbe dovuto appellarsi quando -non se- tutti si sarebbero trovati nella stessa stanza. Si massaggiò le tempie, già dolorose al solo pensiero del disastro stile tornado forza sette nelle campagne del Texas. Aveva già i suoi problemi da affrontare e aveva persino un nome: Evan. Che poi fossero due ragazzi distinti e completamente agli antipodi era un altro paio di maniche. Blackfire era stato quello con cui aveva fatto sesso la prima volta con l'aggiunta di sentimenti; Mc Callister era stato una piacevole pioggerellina primaverile rinfrescante. Una boccata d'aria nel suo mondo infernale. L'aveva stuzzicato per noia, l'aveva baciato perché lo voleva. E non voleva fermarsi solo a quello. Se non avesse visto quei due fanali guardarlo in quel modo probabilmente avrebbero consumato l'atto proprio su quella panchina, troppo lontani i luoghi più sicuri e tranquilli dove potersi lasciare andare. Si sarebbe perso tra quei capelli, quel profumo penetrante ed unico. Lo avrebbe preso fino allo sfinimento. E lui si sarebbe perso. Ma erano le sensazioni di quel bacio a tenerlo sveglio la notte, mentre riviveva ogni singolo frammento di quella conversazione fino al climax più alto. Lo studiava, lo rimandava indietro al dialogo ma finiva sempre con il focalizzarsi sul calore della sua bocca e delle sue mani. Puntualmente si svegliava duro e con un incontro di cinque ad uno nel suo baldacchino o sotto la doccia. Nicholas Evan Mc Callister lo stava fottendo alla grandissima. Chiuse gli occhi, continuando ad avanzare imperterrito lungo il corridoio, verso la biblioteca, quando finì con lo scontrarsi con qualcuno.
    «Ma vuoi vedere dove metti i piedi, razza di i-» Il suo impropero morì in gola. Il tocco sul suo petto, quegli occhioni a tuffarsi nei suoi. «Evan», un sussurro che aveva perso prima ancora che potesse fermarlo. Si irrigidì, allontanandosi come scottato. «La prossima volta tieni gli occhi aperti», freddo, gelido, come se quel contatto di qualche secondo prima non ci fosse mai stato. Era pronto a superarlo e allontanarsi da lui.
    Fitz O'Connor

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    È uno strano tipo di dolore, quello che provi per qualcosa che non avrai mai, ma che ci vuoi fare? Non sono cose che si scelgono, ne tantomeno che si cercano. Succede e basta. Per Nick era successo e basta, un paio di giorni prima, in quella panchina del cortile senza niente intorno se non il tramonto e gli occhi di Fitz. Gli stessi che si erano specchiati nei suoi per il tempo di un battito di ciglia, per poi spostarsi - non lo guardava mai abbastanza perché Nick riuscisse a scorgere qualcosa al loro interno - e perdersi da qualche parte che non fosse il suo viso. Il suo secondo nome pronunciato da quelle labbra così invitanti da mandare Nick su di giri solo a guardarle lo fecero fremere, ma rimase fermo come una foglia in una giornata senza vento. Lo guardò per il tempo di qualche respiro, e lui se ne stava già andando. Lo stava superando, sulla sinistra, per andarsene chissà dove, lasciandolo di nuovo fermo immobile senza risposte. Strinse il pugno destro, odiando come la runa ancora nel suo palmo sembrasse bruciare tanta era la forza che ci stava mettendo, e fece un passo all'indietro e uno verso sinistra, trovandosi di nuovo davanti al ragazzo. Lo guardò negli occhi, fissandolo con intensità. Non si sentiva arrabbiato, ne stanco, ne usato, ne...niente. Si sentiva tutto, in quel momento, tanto che si ritrovò a farsi quasi violenza fisica per fermarsi dall'allungare la mano a posargliela da qualche parte - ovunque - basta che fosse addosso a lui. Batte le palpebre e osservò la curva della sua bocca, che troppe volte in quei giorni aveva immaginato a fare cose poco caste, e si dovette mordere il labbro con forza per trattenere un gemito, del tutto inopportuno. Merlino, non lo aveva nemmeno toccato. Lo aveva sfiorato per non farlo cadere, certo, ma Nick lo aveva già dimenticato, perso nel desiderio di riaffondare le mani nei suoi capelli e i fianchi in quelli di lui. Più volte. Fino a fargli urlare il suo nome - o ad urlare lui il suo, non che si facessi questi problemi. Si riscosse dai suoi pensieri per alzare leggermente il mento, guardandolo da sotto le palpebre sollevate a metà. Una sfida, perché non aveva intenzione di lasciar stare. Non quella volta.
    -Scappi da qualcosa che non vuoi o da qualcosa che hai paura di avere? - incrociò le braccia al petto, sfidandolo a rispondere di non volerlo. Sfidandolo a rinnegare le sensazioni che sapeva di avergli fatto provare. Lui non ne sarebbe stato capace, e forse invece l’opalino lo avrebbe fatto senza pensarci due volte. Ma Nick lo stava guardando negli occhi, con un grado di intensità tale che l’altro non sarebbe riuscito a scostare lo sguardo - almeno, lo sperava, considerando che sulla panchina non c’era riuscito. Lo guardava e sondava i suoi occhi, cercando la verità che sperava di trovare. Cosa avete fatto quando la avrebbe scovata, era tutto da vedere.

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    Il controllo. Era quello il suo segreto. Cercava di averlo, prenderlo ed esercitarlo anche nelle più piccole cose. C'era però un problema: l'imprevedibilità di determinate azioni, di persone. Il modo più facile per ovviare a tutto quello era uno: l'isolamento emotivo.
    Uno strumento di difesa, uno strumento di attacco che però aveva un solo risultato: la solitudine.
    Ora sarebbe più semplice comprendere la sua reazione alla runa che aveva pescato, a come avesse cercato di ferire, allontanare, con la sua spiegazione intrisa di becero scetticismo. Quello era quanto fosse trapelato, la sua facciata. In realtà tra coincidenze, stati d'animo, già sappiamo cosa sta accadendo sotto la sua scorza dura. Cercare di combattere, imbavagliare, soffocare quella recente ossessione lo stava consumando. Ignorare Nicholas Evan Mc Callister era facile quando era a lezione, a svolgere noiosi compiti o portando avanti la sua opera migliore; diventava difficile, impossibile, nel silenzio della notte, tra le cortine chiuse del suo letto a baldacchino. La prima volta che aveva lasciato correre l'immaginazione a dopo, a come sarebbero andate le cose se non avesse abbandonato quella panchina, era stato stordito dalla potenza dell'orgasmo; il peggio era stato il dopo, nel momento della realizzazione. Era corso -nel cuore della notte- sotto la doccia, strofinando forte fino a scorticarsi, come se ciò riuscisse a ripulirlo di quel peccato. Aveva giurato di non fantasticare più sul Dioptase, cercando distrazione nella sua comfort zone: il sesso sporco ed occasionale che gli altri studenti erano in grado di offrirgli. Peccato che l'eccitazione lo abbandonasse dopo un paio di colpi di lingua, con il cervello a segnalare come fosse sbagliato quel sapore semplicemente perché non era il suo. Da lì aveva cercato di trovare e ricevere piacere senza l'incontro delle bocche, ma... non c'era traccia di alcuna erezione. Lì, ma non quando finiva col pensare a lui, finendo col cedere all'autoerotismo con mente, anima e cuore rivolte a lui. Erano momenti di rabbia, di frustrazione, di piacere più assoluto.
    Ed ora...
    Ora era lì, il suo corpo che aveva reagito a quello scontro in modo così diverso rispetto alle sue parole. Aveva cercato di superarlo, lasciandogli capire quanto fosse difficile, di come fosse un pensiero costante per lui, con quel nome che l'aveva abbandonato con un gemito. Una debolezza che non voleva, non poteva, permettersi perché farlo avrebbe significato la sua fine.
    Aveva cercato di scappare, di nuovo, come il re dei codardi, fallendo miseramente complice il movimento che l'altro aveva prodotto con il mero scopo di arrestare la sua fuga. E da quelle labbra -che bramava su di sé, su ogni centimetro del suo corpo- uscì una nuova sfida. «Mi stai dicendo che tu» -avanzava verso di lui, spingendolo di fatto verso l'insenatura sicura che offriva il corridoio- «saresti mio L'accento volutamente posato sull'ultima parola. L'oscurità dei suoi occhi probabilmente animata da una luce pericolosa. Continuava ad avanzare fino a quando l'altro non avrebbe arrestato la sua corsa. Tra di loro neanche lo spazio per la più sottile delle pergamene. Si leccò le labbra, perché la loro vicinanza gli stava già facendo gustare il suo sapore. Perché il Grifondoro aveva centrato lui -stava in effetti scappando- ma questo, a rigor di logica, aveva fatto scoprire le sue carte. L'avrebbe avuto. «Solo una volta, così questa ossessione finirà», si disse, il pomo a muoversi lungo la sua gola. Un ultimo istante di lucidità prima di liberare la sua follia, la sua fame, baciandolo come se senza quelle sue labbra non potesse più vivere.
    Fitz O'Connor

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    Il corpo di Fitz così vicino al suo, eppure così lontano, lo stava mandando in tilt. Il desiderio costante di afferrarlo, di infilargli le mani tra i capelli, di scoprirgli la gola per potergliela baciare, lo stavano mandando a fuoco, togliendogli mano a mano qualsiasi forma di lucidità. Il respiro di Fitz si scontrava con il suo, a metà strada, e l’elettricità dell’aria era aumentata esponenzialmente negli ultimi pochissimi minuti, dal momento esatto in cui si era spostato per posizionarsi di fronte all’altro, interrompendo la sua fuga, l’ennesima. Aveva le braccia incrociate, per evitare che le mani di loro spontanea volontà si avvicinassero al corpo del ragazzo, che lo accarezzassero come aveva sognato di fare tante troppe volte in quei giorni. Ormai era perso nell’universo composto da Fitz e basta, unicamente lui, tanto che i momenti nella doccia non gli bastavano più. Si era dato del cretino, si era detto che non aveva importanza, ma tutto si riduceva ad un semplice fatto: non riusciva più a pensare a qualcun’altra, mentre si toccava, e il solo pensiero della lingua del verdeargento gli faceva vedere il paradiso. Stava indietreggiando, tutto d’un tratto, sospinto dall’avanzare dell’altro e desideroso di evitare il contatto fisico più a lungo possibile, per non fargli vedere quanto lo aveva cercato, quanto lo voleva di nuovo ancorato a se. L’ultima sua parola, pronuciata con quel suo tono pieno di venature sarcastiche, lo fece sussultare. Abbassò lo sguardo, posandolo sulle labbra di lui, leccandosi le sue di riflesso e rialzandolo. Evitò la domanda, ricominciando con il teatrino cui ormai erano abituati, quasi un copione visto e rivisto ma sempre nuovo e sempre più pericoloso.
    -Vorresti dire - chiese, continuando ad indietreggiare per cercare di nontoccarlonontoccarlonontoccarlo -che ne hai paura?
    Si trovò improvvisamente schiacciato addosso al muro, e pochi istanti dopo il corpo del ragazzo premuto contro il suo. Ingoiò a vuoto, trattenendo leggermente il respiro. Sentiva ogni centimetro di lui e lui si leccò le labbra si sentì impazzire e morire e si ritrovò a guardarlo come se potesse condannarlo e assolverlo allo stesso tempo da qualsiasi peccato stesse per compiere. Sentiva il cavallo dei pantaloni cominciare a farsi stretto, e si diede del folle perché l’altro non lo aveva neanche toccato, perché non poteva volerlo così tanto, senza se e senza ma. In un lampo, le labbra di Fitz furono sulle sue, e Nick si ritrovò a gemere senza preoccuparsi che l’altro lo sentisse, con le mani che lasciavano i suoi fianchi per stringersi a lui, alla sua schiena, ai suoi capelli. Lo baciò, respirando grazie alle sue labbra, e senza tante cerimonie gli passò la lingua sulle labbra, chiedendogli l’accesso al purgatorio, sapendo benissimo che per il paradiso avrebbe dovuto fare tutt’altra cosa. Staccò le spalle dalla parete e si girò, portando con se il ragazzo e schiacciando lui al muro, ringraziando gli allenamenti da battitore per la forza che gli avevano lasciato. Gli strinse una manciata di capelli e si allontanò, con lo sguardo inchiodato al suo.
    -Dovrei essere arrabbiato con te.
    Si strusciò leggermente su di lui, tanto da fargli comprendere le sue condizioni, poi si avvicinò al suo orecchio destro, quasi ringhiandogli contro.
    -E invece guarda cosa mi fai…

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    Due ragazzini di cui uno che giocava a fare l'adulto. Ma alla fine erano due ragazzini animati e vinti dagli ormoni, da sentimenti cui non riuscivano a dare nome e, in definitiva, dall'ignoto. Era proprio quest'ultimo a spaventare maggiormente l'O'Connor serpe nell'animo. La mancanza di riferimenti, la possibilità sempre più reale e prossima della perdita delle redini di un qualcosa che non aveva cercato ma che gli era capitata tra le mani per puro caso. Per cinque anni aveva avuto Mc Callister sotto il naso, l'amichetto del fratellino scavezzacollo, il ragazzino silenzioso che per anni -per lui- si era confuso con la carta da parati. Ma da quando avevano messo piede ad Hiddenstone le cose erano cambiate. In un primo momento l'aveva attribuito al caso, per altre vicende l'aveva ricondotto al fatto che prima o poi sarebbe successo -e sì, stava pensando al gemello e alla sua migliore amica- per altre si era trattato solo di un cambiamento del punto di vista. Ed era stato il colore di una divisa diversa a mettere in risalto l'irlandese o finalmente stava venendo fuori dalla carta da parati? Non lo sapeva neanche lui.
    Dannazione, perché tutto doveva finire con l'essere così complicato? Perché non riusciva a mettere un piede davanti l'altro per allontanarsi da lui e porre fine a quella storia ridicola? Perché continuava a dargli corda e a spingerlo in un angolo per dominarlo nello stesso modo che lui esercitava nelle sue fantasie?
    «Paura?» La voce roca, le pupille dilatate ed il respiro sempre più frenetico, mentre cercava di resistere nell'accarezza quel pensiero che aveva trovato strada nelle sue labbra. Suo. Quanto poteva essere totalizzante quella parola? E in che modo il suo possesso sarebbe stato nelle mani di Nicholas? «Forse faresti meglio te ad averne» Anche lì fu il senso dell'ignoto a stringergli lo stomaco, in una morsa che andava di pari passo a quella lingua che andò ad umettare quelle labbra tentatrici. Labbra che alla fine fece proprie. Lingua che bussò ai suoi cancelli per accedere nell'inferno più caldo che si potesse immaginare. Si perse in quell'intreccio di lingue, così come le sue mani che presero a correre sui fianchi del ragazzo per spingere il suo bacino verso di lui. Perso, così tanto che non seppe come si trovò a boccheggiare ad un respiro di distanza da lui e con le sue dannatissime spalle al muro. «Probabile», fu tutto ciò che riuscì a dire, mentre il Dioptase lasciata cadere la maschera dell'agnellino dimostrò come fosse stato il lupo per tutto quel tempo. I suoi artigli ormai erano ovunque e lui non era riuscito a prevederne le traiettorie. «Sta zitto», abbaiò, risalendo con entrambe le mani sui suoi vestiti superiori e tirandoselo addosso, in un altro bacio, abbraccio, in un calore di cui non avrebbe più saputo come farne a meno. Era dannato. Completamente. Ma non voleva essere salvato. «Andiamo via da qui».
    Fitz O'Connor

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    Il sangue nelle vene di Nick scorreva a velocità triplicata rispetto la media. Non era possibile che un ragazzo lo mandasse in tilt così, non era normale, non era sano, tanto che Nick era sicuro sarebbe impazzito. Senza neanche sapere perché, senza capire l’intensità dei sentimenti o della voglia, degli ormoni che giravano tra i loro due corpi. Era bastato cosa, una parola? Una sillaba? E eccoli li, a giocare a rincorrersi come il gatto con il topo, a non trovarsi mai. O quasi. Stava per ridacchiare, ripensando alla domanda priva di malizia che aveva fatto a Brooks qualche settimana prima, imponendo al ragazzo di non farsi strane idee, perché era semplice curiosità. Si, come no. Ecco dove l’aveva portato, la curiosità, la voglia di scoprire di più di quell’anima verde e argento che si era impossessata dei suoi sogni e delle sue fantasie. La voce del ragazzo lo riportò al presente, quando il ringhio di sfida lasciò le sue labbra a negare la sua precedente affermazione. Era impossibile che Fitz non avesse paura, per il semplice fatto che Nick ne aveva. Tanta. Troppa. Perché era impensabile non aver paura in una situazione del genere, dove tutto poteva andare a puttane con un solo sospiro di troppo, come del resto aveva già fatto. Il pensiero di poter definire Fitz suo era inebriante, quasi soffocante. Alla sua affermazione piegò la testa verso destra, avvicinando la bocca al suo orecchio destro.
    -Oh, ma io ne ho. E riesco anche ad ammetterlo.
    Le labbra di Fitz sulle sue vennero accolte con un sospiro, un intreccio di lingue, di mani tra i capelli, di corpi schiacciati uno sopra l’altro. E di rabbia. Cieca. Che riempì Nick in un istante, senza lasciargli scampo, solo al ripensare al modo in cui se ne era andato da quella panchina, come lo aveva fatto sentire, come lo aveva lasciato…no, doveva fermarlo. Doveva trovare il modo di tenerlo lì con lui, quella volta. Così si girò e lo attaccò alla parete, tenendolo fermo con il suo copro. Ecco. Dove doveva essere. Fermo sotto di lui. Derise con un piccolo ghigno la parola pronunciata dall’opale, lasciandogli i capelli e riavvicinandosi, soffiando nel suo orecchio e successivamente mordendogli il lobo.
    -Lo sono, sai? - morse di nuovo - arrabbiato con te, intendo.
    Ridacchiò all’affermazione dell’altro, cucendosi la bocca con quella di lui e morendo e rinascendo su quelle labbra, intrecciando le mani nei suoi vestiti, perdendosi nell’universo che formavano loro due abbracciati. Spostò l’attenzione al collo del ragazzo, riempiendolo di piccoli morsi e baci. Annuì, e sia taccò dalla parete, trascinandolo con se mentre continuava a baciarlo e a toccarlo ovunque. Si staccò, guardandosi intorno e individuando la porta di un aula in disuso alla sua destra. Si avvicinò e si poggiò sulla porta stringendosi il ragazzo addosso mentre la apriva.

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