Man or a Monster

La panchina dell'amore

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    Mancava poco al tramonto e, per uno scherzo del destino, la panchina era vuota. All’apparenza sembrava una panchina come tante ma in realtà celava le testimonianze di chiunque avesse deciso di imprimere il suo nome. Una parte di lui era attirata da quella seduta, in particolare da quel piedino consumato che si vedeva anche a distanza. Sembrava malandata proprio come lo era lui. Raddrizzo le spalle e si incamminò, accertandosi che nessuno potesse vederlo. Sapeva che quello era il luogo dove le coppiette proclamavano e sancivano il loro amore, ma tutto quello non l’avrebbe mai riguardato. Non dopo che un tenero tassorosso l’aveva fregato alla grande. Il sedere toccò finalmente la panchina, le dita ad accarezzare i nomi che erano incisi. John & Fanny, un cuore a racchiudere quei due nomi. Chissà se erano ancora insieme o se si erano lasciati divorare da sentimenti troppi grandi di loro e rovinando tutto. Magari lei l’aveva trovato a letto con un’altra. Non era quello che succedeva sempre? Aveva un’idea così bassa dell’amore e non per colpa di quello che genitori. I suoi papà si amavano tantissimo e non facevano altro che condividere quel sentimento con i loro tre figli, anche con lui che non lo meritava affatto. Quanto al suo gemello, nell’ultimo periodo, sembrava fagocitato da tutte quelle cazzate e da tutta con le ragazzine che continuavano a girarmi intorno. Da una parte Marlee la ragazza con cui aveva perso la verginità e forse anche l’unica di cui è stato innamorato. Almeno consapevolmente. Poi c’era Amalea la sua migliore amica, la sua confidente, la ragazzina che era stata sempre al suo fianco e che da sempre era innamorata di lui e anche lui in un certo qual modo provava qualche sentimento per lei, solo che ancora non lo sapeva o forse non lo voleva vedere. Aveva deciso di non intromettersi nella vita amorosa del gemello, perché la sua ingerenza non avrebbe fatto altro che rendere difficili ancora di più le cose. Quanto a lui aveva trovato una madre in dal secondo anno con cui passare il proprio tempo. Non l’avevo mai visto ad Hogwarts e i suoi tratti orientali suggerivano che provenisse dalla scuola magica giapponese, e tanto gli bastava. Non voleva sapere nulla di quell’amante se non che avrebbe potuto svuotarsi ogni qualvolta avrebbe voluto. I gomiti scivolarono lungo la spalliera, le gambe si aprirono e lo sguardo indagava il cielo nascosto dalle fronde degli alberi. Quello era perfetto anche per fare qualcosa di più interessante rispetto all’incidere il proprio nome. Socchiuse gli occhi guardando gli ultimi scampoli di sole di quel giorno. Un giorno che stava volando verso la fine senza alcun brivido a scuotere le sue carni.
    Fitz O'Connor

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    Nicholas Mc Callister


    Edited by Fitz G. O'Connor - 6/10/2021, 22:28
     
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    Il libro scivolò dalla presa di Nicholas, andando a sbattere contro il pavimento di pietra. Una piccola lacrima solitaria rigava la guancia del ragazzo, che se la asciugò con fare furtivo, cercando di non dare a vere che stesse piangendo per un dannatissimo libro. Si chinò - dall’alto di una poltrona in sala comune - e lo raccolse, chiudendolo e guardando la copertina come se potesse dargli le risposte della vita. Era un periodo che si sentiva stranamente giù, e preso com’era da scuola e compiti non aveva auto un solo minuto per pensarci, per riflettere da solo su cosa provava. Cercava fuga nei libri, fedeli compagni che non lo abbandonano mai, ma evidentemente per quella giornata ne aveva scelto uno decisamente sbagliato, considerando che parlava di una storia d’amore. Era un libro che non aveva mai letto prima, stranamente, e la storia l’aveva preso tanto da farlo impersonare nel protagonista, che in quel momento si ritrovava con il cuore spezzato dal ragazzo che gli piaceva. Era così che si sentiva? Spezzato? Vuoto? Storie vuote, ecco cosa aveva avuto fino a quel momento. Cercava la storia d’amore del secolo? No, certo che no. Ma l’unico pensiero che riusciva ad avere in quel momento era quanto si stava male, sapendo che la persona a cui avresti dato tutto te stesso non ti calcolava, e anzi ancora peggio, non ti vedeva come nient’altro che un amico. Scosse la testa, sospirando e decidendo che quelli non erano di certo pensieri per la sala comune, e si alzò deciso a uscire un po’ - per prender un po’ d’aria, almeno. Si infilò le scarpe in volata e non curandosi dello stato della sua divisa - aveva la camicia leggermente slacciata e il cravattino allentato, per non parlare del maglioncino legato di traverso su di essa - si diresse verso il cortile, l’unico posto a cui era riuscito a pensare. Rallentò il passo solo nei pressi del cancello, sospirando quando entrò nel cortile e piegandosi sulla ginocchia, riprendendo leggermente fiato.
    “Basta” pensò “basta così. Basta affliggersi per qualcosa che non posso cambiare, basta cercare di inseguire qualcosa che corre sempre più veloce di te. Se arriva, arriva. Nel frattempo, sii te stesso, e divertiti, cazzo.” Rialzò lo sguardo, e lo virò verso l’angolo nascosto in cui sapeva esserci una panchina - la panchina dell’amore, ironicamente parlando - e si incamminò verso di essa. Notò che era occupata, e si avvicinò lentamente per non disturbare chiunque il ragazzo fosse. Arrivato a pochi passi di distanza riconobbe nei tratti del ragazzo quelli di Fitz O’Connor, il gemello di Brooks. Non ci aveva mai parlato moltissimo, tralasciando i convenevoli necessari considerando l’amicizia che lo legava al gemello. Si perse un attimo a guardare il modo in cui era seduto, come riuscisse a sembrare composto pur essendo effettivamente del tutto abbandonato sulla panchina, e di come i raggi del sole giocassero a creare riflessi nei suoi capelli. Decise di sedersi, lentamente, per poi imitare la direzione del suo sguardo, chiudendo anche lui gli occhi.
    -“Il tramonto che scherma, rivela - intensificando ciò che vediamo. Con minacce d’ametista e fossati di mistero. “ - fece una piccola pausa - Emily Dickinson.

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    Avvertì la presenza prima ancora di vederla. Lo scalpiccio, le foglie morte che frusciavano via ad ogni passo quasi a volersi mettere al sicuro. Da cosa? Erano morte, belle, ma morte. Persistette a mantenere lo sguardo alto verso le nuance di quella puesta del sol che gli ricordava di avere ancora dei sentimenti buttati qua e là. Sperava che chiunque avesse osato avvicinarsi a quella panchina nel vederlo tirasse dritto o optasse per un dietrofront. Rimase immobile, il solo petto che si sollevava ritmicamente unico indizio che fosse vivo. Doveva ricordarsi di come affidarsi alla speranza non fosse la migliore delle cose, questa era solita tradirti il più delle volte, creando solo devastazione, più di uno scontro. Era stato uno stolto a volerla carezzare ed accoglierla. Strinse i denti, pronunciando ancor di più i terminali della sua mascella, rendendola più dura. Lui non era Brooks con le sue tenere fossette e rotondità mascoline, lui era solo spigoli verso cui sbattere il proprio mignolo e buttare giù interi Pantheon. Ma a quanto pare l'avventore sembrava non pensarla così visto che dopo un attimo di stallo, dove tutto era sembrato fermarsi tranne il torpore dei raggi del sole morente ed il venticello leggero che portava profumi che conosceva, finì col sedergli accanto. «Temerario, come sempre», perché anche se poche erano state le parole che si erano scambiati nel corso degli anni quella traccia di muschio mista a sandalo, con un pizzico dell'acido del sudore, che impregnava Brooks solo nel periodo scolastico era facilmente riconducibile ad una persona e lì, quell'odore era più che centuplicato. «Mc Callister». Decise di ignorarlo, lasciandosi penetrare dal calore del suo corpo, molto più forte di quello della stella più grande che stava scivolando via, fino a quando non aprì bocca. Un sopracciglio scattò in alto mentre le parole di una autrice babbana si ripeteva in looploop qualcosa che forse lo descriveva appieno. «Quando chiudi gli occhi, cosa vedi?» La sua voce uscì distorta, molto più roca di quello che era solitamente. Non si curò di schiarirla con antiestetici colpi di tosse. «C'è luce o oscurità Le dita ripresero a tracciare pigramente i nomi incisi fregandosene se uno di quelli avrebbe comportato sfiorarlo, era lui che aveva deciso di sedersi lì sopra, di sua sponte e senza alcuna coercizione da parte sua. Che si prendesse le sue responsabilità. «Ah, dimenticavo. In un certo senso Sam Tinnesz e Zayde Wolf». Sia mai scatenasse l'ira di un Grifonscemo passato ai Dioptase.
    Fitz O'Connor

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    Il marmo dlla panchina era gelato, a differenza della sua pelle, scaldata dalla generosità degli ultimi raggi solari della giornata. Era difficile non pensare a questa contrapposizione come quella che legava loro due, in quel momento. Tuttavia, Nick non era famoso per essere un codardo, ne tanto meno qualcuno che lasciava metà le cose cominciate. Cosa fosse cominciato, in quel tramonto d’autunno, con Fitz O’Connor, era ancora tutto da scoprire.
    Si ritrovò a sorridere al sono della voce del ragazzo, distorta dal tempo passato senza parlare. Ne apprezzò le sfumature, il tono sempre più basso di quello del gemello, e quasi ne assaporò l’arroganza, tratto distintivo di Fitz. Si ritrovò a considerare la sua domanda, aprendo gli occhi per puntarli sulle mani di lui, che giocavano con i nomi scritti sulla panchina senza curarsi di dove passassero. Quando uno di questi lo sfiorò, Nick alzò lo sguardo su quello dell’ex serpeverde.
    -Francis Bacon disse, nella sia banalità, che senza l’oscurità non potrebbe esserci la luce. - Si passò una mano tra i capelli, per eliminare dal viso alcuni ciuffi sfuggiti al controllo della gravità - La fine dell’una è l’inizio dell’altra, ma quando si incontrano…la meraviglia.
    Riportò lo sguardo verso l’alto, mischiandolo con il verde delle fronde dell’albero che esisteva sopra la panchina. Il ragazzo accanto a lui era sempre stato un libro aperto per tutti, o almeno così si credeva. Lo conoscevano, lo catalogavano come sprezzante e del tutto antipatico, e lo lasciavano andare. Non che Nick all’inizio avesse fatto diversamente, ma con il tempo aveva cominciato a pensare che la superficialità con cui si giudicavano certe persone fosse del tutto inappropriata. Chissà, magari O’Connor era davvero un completo stronzo. O forse no. Nick non vedeva l’ora di scoprirlo. Inarcando leggermente il sopracciglio, come se gli fosse venuto in mente in quel momento, si girò verso il ragazzo, anelando una risposta ma non pretendendone una. Se Fitz avesse voluto, come ogni volta che qualcuno parlava con Nick, sarebbe stato liberissimo di non rispondere.
    -E tu…sei un uomo o un mostro, Fitzgerald O’Connor?

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    Non ci volle molto a rompere il silenzio, un po' di più a far incrociare i loro sguardi. Fitz evitava di farlo, giusto una frazione di secondo e poi era solito distogliere lo sguardo, rifuggendo da qualsiasi opportunità di poter scorgere al di là del suo bel faccino. Uno solo, oltre la cerchia della sua famiglia, aveva avuto il modo per fissare ogni minimo cambio di umore, crepa o felicità potesse albergare all'interno di quel guscio che non era poi così vuoto. E provò a replicare la cosa, ancora una volta, in quel gesto così tanto abitudinario, ci provò ma fallì. Perché incontro quello dell'ex Grifondoro proprio quando lo sfiorò alla rincorsa di un nome di cui al momento non sapeva neanche mettere insieme. Ancora una citazione, ancora parole di altri sulle loro bocche. Bacon era tutto tranne che banale e che Mc Callister lo citasse proprio in quel momento non era un caso, ma solo un tiro mancino del destino. Uno, due, tre secondi e poi riuscì a distogliere lo sguardo da lui che altrimenti si sarebbe perso nel seguire la mano a domare quei capelli, gesto che gli fece balenare la curiosità di accertarsi fossero morbidi come sembrava.
    «E fammi indovinare», la voce bassa ancora non lo abbandonava ma si intrinse di sarcasmo, lettera dopo lettera, parola dopo parola, «la meraviglia sei tu perché unione di luce ed oscurità». Lesto, prima ancora che l'altro potesse accorgersene si portò su di lui, i visi ad un palmo di distanza, forse meno. «Illuso», scandì bene quella parola, mentre le iridi scure veleggiavano tra le ciglia e le sopracciglia, tra le piccole imperfezioni di una pelle ancora troppo giovane, proprio come la sua. «Hai dimenticato Garrett», soffiò, il peso di lui contro il corpo dell'altro, una mano sull'impugnatura della bacchetta e l'altra sulla spalla di lui così vicina alla nuca che sarebbe bastato davvero poco per toccargli i capelli. Lasciò che i loro sguardi si incontrassero dopo una piccola sosta sulle sue labbra. «Dimmelo te, Nicholas, sono un uomo o un mostro?»
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    Gli occhi di Fitz erano un pozzo di ossidiana, pieno di cose non dette e di lucchetti. Muri su muri che impedivano l’accesso a chiunque, che allo stesso tempo chiudevano dentro anche lui. Nick si ritrovò a fissarlo con leggera intensità, non voluta, attratto da quelle pietre preziose che sembravano taglienti e dure come lame di diamante. Quando l’altro riaprì bocca, Nick si ritrovò a sperare che non la chiudesse mai, che continuasse a inondarlo con quel suo tono fatto di spine e miele. Sorrise, alzando leggermente il sopracciglio e lasciando la fossetta in mostra, aprì bocca per potergli rispondere e si ritrovò a doverla richiudere, a corto di fiato. Si ritrovò a socchiudere le palpebre, investito dal profumo di Fitz, dalle sue parole, dalla sua persona. Involontariamente una mano si era andata a posare sulla coscia dell’altro, e Nick sentiva con precisione millimetrica ogni curvatura in cui il corpo di lui si piegava sotto le sue dita. Prese leggermente fiato, alzando gli occhi e scrutando la cortina scura che erano i suoi capelli, per poi spingere leggermente i polpastrelli sulla coscia e schivare il suo viso - non dopo aver fatto sfiorare i loro nasi - andando ad avvicinare la bocca al suo orecchio.
    -Io non ho detto nulla, mi pare…
    Si ritirò con la stessa velocità con cui era arrivato, tornando a schiacciarsi contro la panchina e contro le forme dell’altro, premute contro le sue in un gioco pericoloso quanto dannatamente divertente. Al suo rimprovero schiuse leggermente le labbra, sorridendo, e fece muovere la testa leggermente verso destra, per poi riportarla alla sua posizione originale.
    -Direi mea culpa, ma la colpa è tua per non avermelo mai detto prima…scommetto che neanche tu sai il mio secondo nome.
    Come se niente avesse importanza, però, sentì la mano di lui sulla spalla, così vicina al suo collo che era difficile capire se lo volesse strozzare o baciare. Nick tendeva a preferire la seconda opzione. Lo osservò guardare la sua bocca, e gli venne spontaneo umettarsi leggermente le labbra, facendo scivolare la lingua su di esse. Quando l’altro alzò gli occhi ad incontrare i suoi, trovò quelli di Nicholas già pronti ad accarezzarli, inchiodandolo effettivamente nell’esatto punto in cui era. Si avvicinò, millimetri, eppure sembravano ettari di spazio quelli che c’erano tra loro, e si risolse a rispondere a quella che sembrava la domanda del secolo, perdendosi un attimo alla sensazione del suo nome sulla bocca dell’altro.
    -Tu sei un uomo vestito da lupo, anche se sono poche le persone che possono dire di averti visto.

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    Stava giocando con lui. Il tatto, complice una mano sulla sua coscia; la vista, a concedergli squarci di sé nei pochi istanti che i loro occhi si erano incontrati; l'udito, per quel tono basso, roco, eccitante; l'olfatto, perché sapeva che il suo profumo naturale, i suoi ferormoni a muoversi liberi tra di loro, a mischiarsi con i suoi a creare una nuova fragranza. Mancava solo un senso ma per quello -forse- ci sarebbe stato tempo.
    Si beava delle sue reazioni, a come l'avesse costretto a ricambiare quelle movenze e a sentire il suo fiato caldo vicino, pericolosamente, ad una sua zona erogena. «Questo è ciò che sembra a te, ma hai detto più di quanto tu possa immaginare», perché il corpo era un perfetto traditore. Voleva dimostrarsi in un modo che non era ma non con tutti. Interessante anche per quello. Così come interessanti erano anche quelle labbra che andavano schiudendosi ma non ancora per ricevere la sua lingua. Il ragazzino non sembrava voler accettare le precisazioni -da bravo Dioptase- ma Fitz non mollava l'osso. Per quanto era a conoscenza il gemello non si era mai lasciato sfuggire un secondo nome, così come mai l'aveva sentito pronunciare nel corso degli anni dai loro docenti. «Perché tu non hai un secondo nome», a quelle accompagnò una stretta della mano sulla sua coscia, per poi arrestarne l'avanzata al suo interno così vicino all'inguine, mentre l'altra si era instrada vicino a quei dannatissimi capelli.
    Erano occhi contro occhi, lo spazio che si riduceva, quelle labbra che vennero tinte del migliore dei lucidalabbra: il suo sapore. Sentiva le sue papille gustative fremere duramente. «Vorresti dirmi che tu mi vedi?» Derisione in quel tono, ma non gli diede modo di pensarci a lungo. «Che ne dici di sentirmi?» Qualcuno avrebbe potuto vedere da lontano quell'epilogo brutale, qualcuno avrebbe avuto da ridire ed etichettare quel gesto come violenza. Ma lui sapeva che se l'altro non avesse voluto si sarebbe fermato. Non era un animale, non in quel senso.
    Lo baciò. Labbra contro labbra, le tonalità dell'autunno ad intrecciarsi. Se non l'avesse fermato la lingua sarebbe passata sulle sue labbra in un preludio di quello che sarebbe stato se -solo se- gli avesse permesso di baciarlo davvero.
    Fitz O'Connor

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    Il buonsenso di Nick era andato a farsi benedire nel momento esatto in cui il suo sedere aveva toccato quella panchina, e le dita di Fitz avevano sfiorato leggermente la sua coscia. Il ritrovarselo addosso, premuto contro, non faceva altro che aumentare quel senso di ebrezza che gli stava facendo provare da minuti, avvolgendolo e ammaliandolo con tutto quello che aveva a disposizione. Il gioco preferito del ragazzo, a quanto pareva. Ma il gioco poteva essere giocato in due, e Nick non vedeva l’ora di scoprire le sue carte. All’affermazione del compagno di scuola Nick sogghignò, fissandolo intensamente.
    -Quindi, a dispetto di tutto, mi stai davvero ascoltando… - alzò la mano libera, passandosela di nuovo nei capelli (era un vizio, non c’era nulla da fare) e facendo in modo che le sue dita sfiorassero la mano di Fitz, posata ancora accanto la sua nuca - è un vero onore…
    Il sussurro del moro lo prese quasi alla sprovvista, così come la sua mano, stretta intorno la sua coscia e pericolosamente vicina a diventare qualcosa di tanto eccitante da fargli quasi paura.
    -E qui ti sbagli…non lo uso mai, non penso di averlo mai detto a qualcuno, ad Hogwarts - il pensiero volò a Jessica, per poi tornare velocemente negli occhi dell’altro - è Evan - sussurrò, portando la mano libera sull’anca dell’altro, stringendo leggermente la carne al di sotto.
    La vista dell’altro così vicino a lui, così vicino a portarlo in paradiso, da come sembravano invitanti quelle labbra, quasi lo spezzarono, tanto da fargli quasi perdere la successiva frase dell’altro. Si allontanò leggermente, per guardalo negli occhi.
    -Oh no, non posso ritenermi tanto fortunato. So che saresti una meraviglia tanto quanto me, però.
    Gli occhi ammiccanti che si andarono a socchiudere poco dopo, a quello che sembrava l’invito più bello del secolo. Fitz non gli diede modo di rispondere, piuttosto si sporse verso di lui e fece collidere le loro labbra, in un bacio che sembrava aria, per lui. E così Nick fece quello che fa un assetato non appena trova l’acqua che cercava da tempo. Portò la sinistra al lato della coisca di lui, e la destra alla base della sua schiena, spingendoselo ancora di più addosso. Sentì la lingua di lui accarezzargli il labbro inferiore, e socchiuse le labbra, permettendogli effettivamente più accesso. Si fece baciare e lo baciò, beandosi di come quelle labbra sembrassero morbide sulle sue, beandosi di quel contatto che sapeva non sarebbe durato che per un sera. Senza penarci portò una mano tra i capelli di lui, prendendo il controllo e tirandoli leggermente. Era una lotta, una danza, una meraviglia.


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    Due fessure divennero i suoi occhi tendenti alla forma di una mandorla già normalmente. Lo scetticismo ad abbandonarlo ad ondate fino ad accarezzare il ragazzino. «Direi che, piuttosto, sia impossibile non farlo», sputò via, forse più duro di quello che aveva pensato assaporando l'espressione prima nella sua mente. «Stai praticamente urlando», lo faceva il suo linguaggio non verbale, in particolar modo. Ma non ci sarebbe stato tempo per soffermarsi ancora a lungo perché, come altre rare volte era capitato nella sua vita, aveva sbgaliato, non avendo una piccola affermazione che poteva rovesciare le sorti di qualsiasi cosa stesse succedendo su quella panchina. «Evan», accarezzò quel nome segreto, lasciandoselo scivolare sotto ogni piccolo nervo, strato di pelle, dandogli una forza tale da toccarlo con più consapevolezza ed in luoghi che normalmente non avrebbe mai preso in considerazione, non così. Le distanze si erano ridotte, le voci basse e roche, gli sguardi che dicevano molto di più, andando a scavare nell'incoscio e mettendolo in primo piano. «Stai sbagliando, di nuovo», in lui non esisteva meraviglia. Mai ci sarebbe stata.
    In lui c'era solo il prendere, il possedere, l'ottenere quello che si era prefissato. E quel tardo pomeriggio significò prendersi un bacio, almeno uno.
    Lo baciò ed il Dioptase non si tirò indietro. Sentiva il tocco dell asua mano sulla coscia, sulla schiena solo per tirarselo più addosso. Lo lasciò fare solo perché il contatto tra le loro lingue lo mandò in tilt. Lo lasciò fare perché le mani di lui andarono ad infilarsi tra i suoi di capelli, tirandoli.
    Nero. Vide nero, perché con un ribaltamento si tirò indietro, trascinandolo con sé tra pressione di spalle e cosce, fino a quando l'altro non avrebbe finito con l'essere a cavalcioni su di lui. E solo allora avrebbe lasciato che le sue dita andassero ad infilarsi tra quei capelli che sì, per tutti gli Inferi, erano morbidi come sembravano, anche di più. Li tirò, spingendolo verso di lui, mentre lo specchio della sua anima si rivelava tramite le palpebre che rialzarono il sipario, i denti ad occuparsi di quel labbro superiore così invitante che poi curava con un tocco di lingua. L'altra mano era sulla base della schiena di lui, spingendoselo addosso, continuamente, come le onde facevano con il bagnasciuga. E poi, staccandosi un attimo per riprendere fiato, lo guardò. Intensamente. Uno, due, cinque secondi e si riappropiò della sua bocca. Un nome ad aleggiare tra loro come un gemito. «Evan».
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    Occhi negli occhi, verità celate e segreti nascosti messi a nudo per pochissimi istanti. Troppo pochi perché entrambi i ragazzi fossero in grado id comprenderli, di leggerli. Il tono di Fitz era colmo quasi di rimprovero, ma Nick non faceva altro che goderne, sempre di più. Gli sorrise, piegando il viso e facendo correre la punta del naso sulla gola di lui. Poi, quasi un sussurro, direttamente sulla pelle di lui.
    -Non credo ad una parola di quello che dici. - si allontanò leggermente - sappiamo benissimo entrambi che per quanto forte io e il mio corpo possiamo urlare - tornò a livello dei suoi occhi - non mi avresti mai ascoltato se non avessi voluto.
    Scrutò la faccia di lui subito dopo avergli rivelato quel piccolo pezzo di se stesso, e rimase sorpreso da come lui piuttosto che arrabbiarsi, ritirarsi, lo accarezzò. Si rigirò quel nome appena pronunciato sulla lingua, facendoselo scorrere addosso per poi riversarlo addosso a Nicholas con un’intimità tale che il ragazzo si ritrovò con la pelle d’oca sulle braccia. Fece in tempo a stringerlo, un attimo, per un secondo dimentico del loro contorno e pronto a mischiarli, quando l’affermazione dl ragazzo lo fece fermare, tornare con i piedi sulle pietre del giardino e la mente ben attenta. Lo scrutò, quasi ringhiando dal fastidio che stava provando.
    -Difficile dar ragione al pazzo che si guarda solo con i suoi occhi…
    Quando arrivarono le sue labbra, Nick si ritrovò a considerarsi un egoista, perché mai avrebbe pensato di sentire nostalgia di qualcosa che non era ancora terminato. E cominciò a pensare di volerne di più. Di più. Di più. Schiacciandosi addosso l’opalino e infilando le mani nei suoi capelli stava cercando disperatamente di ottenere questo. DI più.
    E questo Fitz gli diede, rigirando le posizioni e facendo si che Nick si trovasse sopra di lui, in un movimento tutto fuorché fluido, ma nessuno se ne curò. Nick sentì le dita di lui tra i capelli, e un piccolo gemito gli risuonò in gola. Il ragazzo sotto di lui si stava prendendo quello che voleva, usando un mix di forza e dolcezza che stava mandando Nick fuori di testa. Assecondò i movimenti dell’altro, spingendosi contro di lui come spinto da una forza esterna, e portando una mano sul petto di lui, stringendo la stoffa tra le dita. L’altra mano, ben ancorata tra i suoi capelli, giocava con le cicche, ora tirando ora accarezzando. Il momento in cui si staccò Nick si ritrovò a boccheggiare nella sua testa, a corto di ossigeno, di idee, di tutto. L’unica cosa che capiva, che vedeva, erano gli occhi del ragazzo fissi nei suoi - che lo inchiodavano sul posto - e le sue labbra che pronunciavano il suo secondo nome quasi come una preghiera. Nick non nascose il gemito che gli salì alle labbra, ma fece presto a fiondarsi su quelle di lui, quasi famelico. Aprendo maggiormente le gambe e schiacciandosi sul ragazzo in ogni modo, cercando disperatamente contatto. Portò una mano sulla guancia dell’altro, spingendogli il viso in alto e si staccò leggermente, parlando letteralmente sulle sue labbra.
    -Di più.

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    Quanto forte poteva essere la presunzione di conoscere tutto, di sapere tutto, di servirsene come arma e come lenitivo? Quanto forti potevano essere le parole? Quanti significati si potevano celare dietro una coltre di apparenze? Se avesse dovuto giudicare Nicholas Evan Mc Callister come la copertina di un libro avrebbe scelto per lui una di quelle anonime, con una foto in bianco in nero ed alcuni dettagli pennellati di colore vivo. Una copertina semplice che conteneva però uno di quei romanzi capaci di farti dubitare, appassionare, cercare di seguire il filo della ragione solo per essere rovesciato da un plot di alto livello, di quelli sottili, che non sei in grado minimamente di intercettare, di provare sentimenti che neanche pensavi poter provare. Nicholas Mc Callister era la sua personalissima cryptonite, il suo anello magico da cui non potevi separarti a cuor leggero, perché farlo avrebbe significato impazzire. L'unico soluzione era che fosse qualcun altro a rubarglielo per farlo tornare a vivere? O morire? Si sentì la bocca asciutta quando il Grifondoro sottolineò qualcosa cui non voleva assolutamente credere fosse possibile: lui non l'avrebbe mai ascoltato se non avesse voluto. Volere, un verbo ausiliare pericoloso, terribile, capace di trascinarti in un fondo senza luce. La brama era il peggiore dei veleni. E lui l'aveva voluto. Lui se l'era preso. Le labbra avevano fatto la loro conoscenza, sugellando quella schermaglia che li aveva protagonisti con il loro compito principale: modellarsi per lasciar passare l'aria delle corde vocali in un suono netto, distintivo. L'aveva baciato, portandoselo addosso, passandogli le mani tra quei capelli che si erano rivelati meglio di quello che aveva pensato. Una parte di lui già fantasticava di sentirli in altre parti del corpo. Dovette stringere con forza i glutei alla scarica di piacere che lo travolse al solo pensiero. I gemiti di Nick -«Evan, da oggi solo Evan, solo per me»- non lo aiutavano, così come il suo ricercare la frizione continua tra i loro corpi. Si stava smarrendo, neanche fosse una barchetta di carta nel bel mezzo di una tempesta. I pugni a chiudersi sulla stoffa della sua divisa -da quando le mani erano sulla sua schiena?- la lingua ad assestare colpi decisi, i denti ad afferrare la sua, solo per fare qualcosa di estremamente perverso ma a cui non seppe resistere. La succhiò, avido, mentre le anche si sollevarono dalla panchina. Stava impazzendo.
    Una mano sulla sua guancia, la pressione delle falangi a fargli sollevare il viso e ad incontrare degli occhi languidi, animati dall'eccitazione, una richiesta non muta. Di più. Si raggelò. Lasciò andare la presa su di lui, scostandoselo malamente per mettersi in piedi. «Devo andare», si sarebbe allontanato neanche avesse avuto il diavolo -o Brooks con i suoi noiosi problemi sentimentali- alla calcagna. Aveva visto qualcosa in quella preghiera, in quello sguardo smanioso, in quel cuore che aveva sentito battere veloce come un cavallo imbizzarrito. Aveva visto se stesso, come guardava Blackfire quando riuscivano a ritagliarsi del tempo insieme. Dovette reggersi ad un albero, respirando con fatica, nel momento in cui aveva realizzato la cosa più sconcertante della sua vita. Blackfire aveva un nome, un nome che aveva pronunciato proprio come qualche secondo prima. «Evan».
    Fitz O'Connor

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    I etched the face of a stopwatch on the back of a raindrop and I did a swap for the sand in an hourglass.
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    Le catastrofi mondiali erano iniziate tutte con un piccolo avvenimento che aveva fatto scattare il delirio. L’attentato di Sarajevo per la prima guerra mondiale, l’invasione della Polonia per la seconda, leggi sulla tassazione per il lancio del the nel porto di Boston…per Nick, la catastrofe iniziò quando il corpo di Fitz si scostò dal suo, così come le sue labbra. Pochi minuti prima si trovava tanto in alto da avere quasi le vertigini, con il corpo del ragazzo prima sopra e poi al di sotto di lui, con le mani perse nei meandri dei suoi capelli, o del suo copro, a palmi aperti - a toccarne il più possibile -, a pugni chiusi - a tenergli i capelli o a cercare di non piantargli le dita nella carne -, decise e sensuali, leggere e dolci, in una danza che non finiva mai. Così come le loro bocche, che danzavano a ritmo di una canzone sconosciuta a tutti tranne che a loro due. Fitzgerald O’Connor si stava rivelando qualcosa che Nick non avrebbe mai pensato di scoprire, una pepita d’oro in una miniera che sembrava ormai vuota. Si erano levati il respiro a vicenda, così come la parola. Inutili i tentativi di Nick di far capire al moro che cosa pensasse davvero di lui, inutile cercare di convincerlo di qualcosa che lui non avesse intenzione di vedere. Nessuna risposta, se non quelle labbra, quelle mani, quel terrore di cadere da un altezza che si stava facendo decisamente troppo alta per i gusti di Nick. Sentì le mani del ragazzo dietro la schiena, a stringergli la camicia, e si ritrovò a girare gli occhi, completamente in balia delle attenzioni che gli stava riservando. Era perso, navigava in un mare mosso senza ne luna ne stelle a dargli un minimo di indicazione su come arrivare a terra. Non che lui volesse, ben inteso. Mentre guardava le iridi del ragazzo sotto di lui, tuttavia, si rese conto di quanto la vita amasse prendersi gioco di lui. Le ossidiane di Fitz erano diventate fredde come ghiaccio, e non passarono che pochi secondi che si ritrovò di nuovo con il sedere sulla panchina, con il corpo freddo, freddo, freddo. Spalancò gli occhi alla frase del ragazzo, allungando una mano - fredda, fredda, fredda - per cercare di riportarlo lì, non capacitandosi ancora di quello che era appena successo. Non parlò, non ci riuscì, e stette a guardare impotente mentre la sagoma del ragazzo si allontanava e spariva.
    Si passò le mani sulle braccia - Merlino, aveva così freddo - e poggiò la schiena sullo schienale di pietra, sospirando e alzando lo sguardo sul cielo ormai punteggiato da stelle. Si portò una mano sul cuore, trovandolo ancora impazzito, ancora sul punto di uscirgli dal petto per rincorrere il fautore di tutto quello, per poi portarsele entrambe sul grembo. Fitz aveva appena dichiarato guerra, non a lui, ovviamente, ma al suo cuore - che finalmente si stava calmando - e lo aveva fatto senza sapere una cosa fondamentale. La guerra non determina chi ha ragione, chi vince, chi perde. La guerra determina chi resta. E anche solo il ricordo di quegli occhi neri nei suoi faceva venire voglia a Nick di restare.

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