Le petit dejeuner

Evelin e Narcisse

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    Scaltro manipolatore, intelligente, carismatico, cinico e terribilmente lascivo. Questi sono alcuni aggettivi che possono definire solo in parte Blondie, una persona talmente complessa da essere molto difficile da inquadrare.
    È il genere di persona che riesce a convincerti ad andare ad un rave nel bel mezzo del nulla, decantando quanto la tua presenza sia fondamentale per la riuscita della serata, poi si ubriaca e se ne va, dimenticandosi che c'eri anche tu.
    Non ama le lunghe chiacchiere a vuoto, nonostante la sua situazione attuale è un ragazzo molto colto, lo si può intuire dalla perfetta dialettica, ma a parte questo vive una vita sregolata e, per trovare un eufemismo, a dir poco bohémienne. Forse il suo fascino deriva proprio da questo.
    Ama circondarsi di persone senza mai affezionarsi troppo a nessuno, ha una malsana paura dei legami ma da solo non riesce proprio a stare.
    Quando non sopporta una persona, e non ha nulla di cui guadagnare dalla sua amicizia, sa essere un vero stronzo. Gode nel far piangere le persone, letteralmente.
    Narcisse Faust
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    Cissie aprì gli occhi nel suo piccolissimo appartamento a Notturn Alley, la luce penetrava dalle tende disegnando una linea bianca nell'oscurità.
    Quello che vide per primo fu: il lampadario sopra il soffitto, la panca con quei brutti cuscini sgualciti, i libri impilati in ogni dove ed il cucinotto a pochi metri di distanza dal materasso steso in terra dove dormiva.
    Il suo era un appartamento di 30m quadri, una soffitta vecchia che odorava di muffa e polvere con della carta da parati ingiallita dal tempo. Quel posto era lungi dall'essere il luogo che Narcisse sperava per il suo futuro, ma per la prima volta nella sua vita, aveva un luogo che poteva chiamare "casa".
    Si stiracchiò un poco, guardando l'orologio di fianco al letto che segnava le 16 di pomeriggio.
    Oooh... merde. Espirò rumorosamente, mettendosi a sedere sul materasso.
    Non era mai stata una persona mattiniera, al contrario, Narcisse odiava svegliarsi presto. A Beauxbatons ogni mattino si sentiva stanco, nonostante dormisse la bellezza di otto ore filate, eppure alzarsi dal letto di buon mattino gli costava ben più sforzi rispetto a quando si svegliava tardi.
    Si alzò dal letto, si fece una doccia e poi, andò dritto in dispensa per cercare qualcosa da mettere sotto i denti, ma quel che vi trovò fu: una scatola di lenticchie, delle mele rancide e... un vasetto di pomodori.
    Si girò per guardare la sua gatta dal lungo pelo bianco.
    Beh mon Petite, vorrà dire che andrò a far colazione fuori.
    E così fece... si infilò un paio di pantaloni ed una leggerissima camicia a fiori, riversandosi tra le maleodoranti strade del quartiere malfamato della Londra magica, fino ad arrivare a Diagon Alley.
    Arrivò al Paiolo che ormai erano le cinque del pomeriggio, si mise a sedere ad un tavolo ed aprì il Daily Prophet, chiamando l'attenzione di una cameriera poco distante.
    Vorrei un caffè ed uno zuccotto, per piacere.
     
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    Evelyn Stanford
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    Gli occhi di Evelyn, immobili, si erano concentrati per ore su un dettaglio inutile come una crepa nel muro del palazzo di fronte a quello dove viveva. Era rimasta ferma, seduta sul bordo del letto, come in trace, in seguito all’ennesima delle sue crisi di panico. Il fatto che non avesse più un cuore vero e proprio, in grado di salirle in gola e bloccarle in respiro, e per quanto fosse incapace di avere un’ansia vera e propria, nell’ultimo periodo le sembrava di essere tornata umana, da quel punto di vista, e di non riuscire a gestire il suo corpo come avrebbe dovuto.
    La sindrome dell’arto fantasma, per lei, pareva essere diventata la sindrome dell’ansia fantasma o del cuore in tumulto fantasma o qualcosa del genere. Se prima pensava che fosse una cosa impossibile, se era certa che non avrebbe mai potuto provare niente di così umano di nuovo, ora aveva la prova di essersi sbagliata. E non sapeva se esserne felice o meno.
    Aveva provato a ripetersi che il senso di colpa e l’angoscia non erano propri di coloro che non avevano una coscienza e provavano piacere nell’uccidere il prossimo, se fosse stata una vera assassina perché sentirsi in quel modo? Eppure per quante cose provasse a raccontarsi sembrava impossibile per lei trovare pace. Ironicamente era stato più semplice all’inizio, anche se le immagini di quel che aveva fatto erano molto più vivide allora e sembravano comparirle di fronte agli occhi ogni volta che chiudeva le palpebre.
    Non aveva nemmeno idea di quanto tempo avesse passato così, ferma immobile, avvolta dal silenzio ma era certa che niente di tutto quello le facesse bene. Non che ci fosse qualcosa in grado di farla sentire davvero bene, le persone a cui teneva di più non erano in grado di consolarla, anche perché sapeva di non poter parlare di quel che era successo, e la loro compagnia aumentava solo il suo senso di colpa. Era quindi costretta a starsene da sola, ma rimanere nell’appartamento vuoto, senza distrazioni, non sembrava la strada migliore.
    Alla fine si decise ad abbandonare il proprio letto, ancora intonso se non per qualche piega leggera sulle lenzuola nel punto in cui si era seduta, e si spronò a fare qualcosa di più che rimanere immobile e lasciare che il tempo le scivolasse intorno. L’unica cosa a cui riuscì a pensare fu andarsi ad allenare, così arraffò al volo la propria borsa, le scarpette da ballerina e poco altro e si avviò fuori dal suo appartamento. La palestra non era così vicina all’appartamento, per raggiungerla era costretta ad attraversare il cuore della città, il che significava anche passare tra i capannelli di persone che si riversavano in strada in quelle ore del pomeriggio. In quanto vampira non aveva bisogno davvero di cibo umano, il suo corpo non glielo chiedeva, ma quando era così agitata qualsiasi distrazione era valida e finì per fermarsi anche lei al Paiolo, gremito di gente in quel momento. Avrebbe potuto prendere un caffè da portare via, questo era vero, ma non moriva dalla voglia di ritrovarsi di nuovo da sola, in quel momento tutti quei cuori che battevano intorno a lei, tutte quelle voci, tutto quel calore umano erano quasi un toccasana per la sua mente provata.
    Così alla fine cedette, e dopo aver effettuato il suo ordine si guardò intorno, cercando di trovare una soluzione per la mancanza di tavolini: non aveva bisogno di averne uno per sé, no? Poteva anche benissimo prendere una sedia, mettersi in disparte, bere il suo caffè e poi andarsene. Così si avvicinò al tavolo di Narcisse, che ovviamente non conosceva, e il ragazzo si sarebbe ritrovato di fronte la rossa, con un sorriso appena accennato e gli occhiali da sole a corpirle gli occhi. ” Scusa…posso prendere una sedia?” avrebbe finito per chiedere, impacciata.



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    Non ama le lunghe chiacchiere a vuoto, nonostante la sua situazione attuale è un ragazzo molto colto, lo si può intuire dalla perfetta dialettica, ma a parte questo vive una vita sregolata e, per trovare un eufemismo, a dir poco bohémienne. Forse il suo fascino deriva proprio da questo.
    Ama circondarsi di persone senza mai affezionarsi troppo a nessuno, ha una malsana paura dei legami ma da solo non riesce proprio a stare.
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    Narcisse Faust
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    Londra era un posto strano. La vita in quel luogo sembrava scorrere velocemente, il tempo lo sfiorava appena, come se lui fosse l'unico elemento immobile in mezzo al traffico.
    Non era mai stato un tipo iperattivo, una di quelle persone stacanoviste ligie al dovere. Studiava, certo e quando era il momento, lavoricchiava pigramente. Ma il lavoro con l'Acromantula gli dava modo di godere di quei piccoli momenti di quiete e calma. A Narcisse piaceva fermarsi, stare immobile ed osservare la gente muoversi attorno a lui. Tanti piccoli universi in carne ed ossa, tutti così diversi ed a loro modo unici, che litigavano, si baciavano per strada, mangiavano il gelato... ogni volta che guardava quella scena, non riusciva non pensare a quanto la loro esistenza fosse futile e mediocre.
    A Narcisse piaceva tirarsi fuori da quell'equazione: pensare che lui non ne faceva parte, come se fosse uno spettatore astante. Un granello di polvere che fluttuava nell'aria ed osservava le piccole formichine operose che vivevano la loro vita nel modo più scontato e patetico di tutti. Ma Cissie, volente o nolente, ne faceva parte.
    Dalla sera in cui aveva incontrato il misterioso uomo tra le vie di Notturn, aspettava pazientemente che questo si facesse vivo per adempiere alla promessa fatta quella notte: dargli una missione per conto dell'Acromantula Scarlatta.
    A lui serviva quella missione non solo ed unicamente per i soldi: il diciottenne si rese conto che bramava quel momento perché aveva bisogno di uno scopo, di far parte di qualcosa di più grande... un insieme di individui che lo avrebbero accolto come una famiglia, ciò che il francese, non aveva mai avuto. Un emarginato tra gli emarginati, un non voluto tra i non voluti... perché se il mondo intero lo aveva rifiutato, allora tanto valeva che bruciasse... e tra un pensiero di rivoluzione ed un sorso di caffè, gli sembrò di sentire una voce avvicinarsi a lui.
    Narcisse si voltò verso la ragazza che aveva parlato, rimanendo qualche istante a guardare quel visetto carino nascosto sotto gli occhiali da sole con un sorrisino stampato in faccia.
    Questa sedia dici? - indicò la seduta a fianco a lui - Puoi prenderla ma... - si bloccò, sul viso spuntò un'espressione talmente dispiaciuta ed affranta, da sembrare vera - Ti sembrerò... stupid... ma, sono solo. Mi sono appena trasferito, ti andrebbe di tenermi compagnia?
    Lurida piccola serpe che non era altro. Puntare sulla compassione per avere la compagnia di una bella ragazza era proprio da lui e quel fare da sbarbatello innocente gli calzava ormai a pennello.
    Narcisse alzò lo sguardo agli occhi castani della ragazza, guardandola come se fosse un cucciolo lasciato fuori casa durante una bufera.
     
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    parlato - pensato- ascoltato
    Per una che aveva visuto a New York per la maggior parte della sua vita era consapevole che Londra avrebbe dovuto risultarle banale, famigliare, quasi noiosa. Quando si era trasferita lì la prima cosa che aveva pensato era che fosse piccola, per i suoi standard, meno caotica di quello che aspettasse, quasi tranquilla per certi versi, soprattutto per quello alla quale si era abituata crescendo.
    Col tempo aveva cominciato a conoscere meglio i ritmi della cittadina inglese, ad abituarsi alla sua monotonia e trovarcisi quasi bene: non sentiva la mancanza della Grande Mela, forse anche perché la città era collegata così tanti ricordi spiacevoli che faticava a trovare una ragione vera e propria per rimpiangerla.
    Gli inglesi erano però molto più freddi, distaccati sotto molti aspetti, e si era abituata al fatto che ognuno lì si facesse i fatti propri e le persone tendessero ad essere molto più chiuse di quanto non lo fossero nel quartiere dove era cresciuta, in America, dove tutti la conoscevano, la salutavano per strada e cercavano di attaccare bottone. Anche qui, un aspetto che all’inizio l’aveva stranita ma che ormai considerava come normale, quasi confortante: lì non era necessario preoccuparsi troppo di non essere dell’umore migliore per parlare, e spesso nessuno aveva voglia di farti domande troppo personali, un sollievo per una che non aveva alcuna voglia di condividere quel che le stava capitando e che non sarebbe riuscita a nascondere nemmeno troppo bene tutte le sue preoccupazioni. Aveva sempre paura di cedere nel momento sbagliato, il terrore che bastasse un solo secondo per mandare tutto all’aria.
    Forse anche per questo starsene da sola le avrebbe fatto bene, e avrebbe dovuto rifiutare la proposta dello sconosciuto. Tentennò davvero, per qualche istante, sul punto di scuotere la testa e allontanarsi, ma dopotutto voleva distrarsi…
    Ci sarebbe cascata comunque, anche se il ragazzo non le avesse propinato quell’espressione adorabile e quella richiesta così innocente, ma ancora di più perché aveva usato quel modo di fare non riuscì proprio a dirgli di no. Dopotutto che cosa poteva mai succedere a prendere un caffè assieme?! Aveva imparato a suo discapito quanto fosse sbagliato fidarsi degli sconosciuti, ma era arrivata ad un punto della sua esistenza in cui era abbastanza sicura che fosse difficile che qualcuno potesse davvero minacciarla. Così, dopo aver tentennato per qualche istante, non potè fare a meno di immaginarsi sola e spaesata come era stata tempo prima, e cedere senza opporre poi nemmeno troppa resistenza. “Oh beh certo… se non ti disturba un po’ di compagnia perché no.” avrebbe quindi replicato accennando un mezzo sorriso impacciato, non troppo sicura di essere dell’umore migliore per interagire con uno sconosciuto ma tutt’altro che intenzionata a replicare con un brutale no.
    Prese quindi posto di fronte al ragazzo e si ricordò, con qualche istante di ritardo, di allungare una mano verso di lui per presentarsi. “Evelyn, comunque. Non sono di Londra nemmeno io.” provò a buttare lì, giusto per non starsene immobile e in silenzio come una stupida.


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3 replies since 31/8/2021, 12:06   46 views
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