La voce del Silenzio

© Eva ~

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    Eh, niente. Ho preso coraggio e vi do anche io qualche mia piccola produzione di tempo fa.
    Sotto consiglio disinteressato e inconsapevole, pubblico un racconto che vinse il terzo premio ad un concorso letterario, tema "La paura", valutato dallo scrittore Matteo Strukull.
    Ci sono un po' di scene cruente, quindi non vorrei scandalizzarvi.

    La voce del silenzio



    Semplicemente ascoltavo la radio per compagnia.
    Non per restare informato su quello che accadeva mentre io ero impegnato a fare altro, e nemmeno perchè mi piacesse la musica.
    Mi piaceva il rumore assordante di quel marchingegno diabolico, tutte quelle voci che si mescolavano tra loro, quegli strumenti che diventavano tutt'uno con il caotico via vai della città. Ormai era diventata una droga. A casa. A lavoro. In macchina.
    Pensate che mi addormentavo ascoltando le interferenze che interrompevano quegli stupidi programmi radiofonici dove c'era un tipo, solitamente pagato una miseria per quelle ore che passava chiuso in quella stanzetta insonorizzata piena di vetri, sempre con quelle cuffie alle orecchie e quei microfoni davanti gli occhi e che trasmetteva stupidi scherzi telefonici dove la pazienza di povere persone veniva messa a dura prova da qualcuno prendeva soldi per prenderli per il culo.
    Che società di merda! Prendi per il culo una persona debole, qualcuno che non sa chi sei? Allora sei uno buono, fai ridere la gente e devi essere pagato e ne fai un mestiere.

    Ma tralasciamo le mie considerazioni critiche su questi nuovi lavori che stanno nascendo a discapito di qualcuno e a favore delle tasche di altri.
    Aspettate un attimo. Non sapete nemmeno chi sono. Beati voi. Se sapeste quale soggetto sta parlando con voi scappereste a gambe levate come un turista capitato nel Bronx.
    Il mio nome è Ferdinand Jhon. Un nome di merda, ma devo tenerlo stretto perchè in questo mondo se non hai un nome, non sei nessuno. Lavoro in un ufficio.
    Che lavoro frustante, sempre dietro una fottuta scrivania, seduto su quella sedia con un computer davanti e tante scartoffie da leggere e non solo. Per non parlare poi della clientela. Dovete sapere che sono un consulente del lavoro e tutti quei tizi che vengono a denunciare i loro problemi con le loro aziende mi fanno saltare i nervi.
    Vi paga l'azienda? Sì. Quindi tacete e fatevi trattare come cazzo vogliono, i soldi entrano in tasca.

    Il mio capo, Leon Tiox, è un cinese arricchito che pensa di aver trovato dei dipendenti fantastici e con i quali si possa parlare. Ma io sono la sua pecora nera. Con questo lavoro non riesco nemmeno a pagare una casa come si deve e vivo in uno scantinato arredato alla meno peggio con un tavolo, una sedia, una poltrona mangiata dal tempo e dalla sporcizia e un cesso dal quale entrano ed escono topi. E l'unica fonte di luce non è altro che uno di quei lampadari a ventola appesi al soffitto.
    O meglio, alle tubature che escono dal soffitto.

    Ma torniamo al discorso che ho interrotto, come sempre d'altronde.
    Adesso vi starete chiedendo perchè la radio e non la televisione. Vi rispondo in maniera molto semplice: avete mai fatto caso agli intervalli che vi sono tra un cambio di scena e l'altro? Quelle schermate nere che intercedono tra una pubblicità e l'inizio del programma che state seguendo? Ecco, proprio in quei piccoli frammenti di secondi vi è un silenzio assurdo durante il quale anche il respiro sembra minaccioso.
    In quegli strappi di tempo il cervello trasmette domande al nostro io: "perchè sei qui davanti quando potresti tranquillamente fare altro?!" o " pensi che la tua vita sia delle migliori? Peccato che tua moglie ti abbia mollato per un ventenne pieno di vita!" ed è il momento peggiore per chiunque.
    Sfido ad ascoltare ogni giorno, ogni fottuta volta che c'è quella schermata nera, queste domande che ti stracciano il cervello come se fossero martelli pneumatici che pian piano penetrano in profondità fino a toccare uno di quei nervi nascosti e al riposo che ti fanno saltare l'indole di un pazzo omicida, non si fermano, quelle assurde domande, fino a quando non mangiano il cervello come tarli.
    Insistenti.
    Minacciosi.
    Paurosi.

    E allora cosa posso fare?
    Rifletto, seduto sulla lercia poltrona, su quelle domande per trovare una risposta e averla vinta su quelle fottutissime voci che mi ronzano in testa. Ma niente da fare, ecco che inizia una pubblicità. Termina. Schermo nero. Silenzio. Altre domande.
    Uno stridolio nel cervello. Sta arrivando in profondità. Fino a toccare quel nervo. Dannazione. Sarebbero capaci di distruggere tutto quello che ho costruito nella mia fottuta vita che poi, è già quasi del tutto andata in pezzi.
    L'unica soluzione era la radio. Non ha pause. Non permette al silenzio di respirare, lo soffoca senza dargli il tempo di aggredite nessuno.
    La fobia di poter essere assalito dal silenzio. Quasi come quando un povero pargoletto di qualche anno ha paura del buio.
    Peccato che io sia arrivato a quarantadue anni e non riesco a superare ancora questo stato di terrore. Sento il pericolo nel silenzio.
    Ed è qui che entra in gioco la radio. Ogni parola, ogni programma...tutto si sussegue senza interruzione. È un continuo di onde sonore che occupano la testa e non lasciano spazio ad altro.
    Silenziofobia?
    Vogliamo chiamarla così? Forse già qualche smidollato scrittore ne parlò, non ricordo esattamente, ma sono sicuro che qualche libro da quattro soldi ne fa una malattia.
    Insomma, chiamatela come volete, a me non importa. Io il cervello da quei silenzi assordanti non me lo faccio mangiare. Potrei arrivare al suicidio.
    Non è una follia, chiamiamola attaccamento alla vita. O meglio, stabilità. Mi sono sempre giustificato così con chiunque mi avesse chiesto il motivo di quella radio sempre accesa, ma adesso posso dirlo apertamente: il silenzio è il mio più grande nemico.
    E' da quando avevo sei anni che cerco di non rimanere in silenzio.
    I miei genitori si preoccupavano. Più di una volta, quando avevo diciasette anni, sono stato dalla psicologa – gran bella donna, la classica dottoressa vestita con tailleur nero e tacchi a spillo, occhialini neri che piano scendono sul naso e capelli selvaggi. Insomma risvegliava le mie fantasie da adolescente – che non ha mai trovato un vero e proprio motivo per questa mia fobia fuori dal normale.
    Andavo da lei con il mio apparecchio nella tasca e non lo spegnevo per nessuna ragione al mondo.
    Lei parlava, la radio sovrastava la sua voce. E io mi sentivo bene. Nessuno poteva permettersi di toccare la mia radiolina.

    Quella fottuta troia, che se ancora ci penso mi viene una rabbia immensa, più di una volta ci ha provato. Mi faceva stendere su quel lettino e pian piano cercava di farmi rilassare con il suono della sua voce, avvicinandosi e cercando di prendere dalla mia tasca il trasmettitore. Bastarda. L'unica cosa in cui riusciva era farmi eccitare, ma subito rompeva l'atmosfera quando pretendeva di spegnere la radio.
    Oh, ma risolsi anche questo piccolo fastidio. Un pomeriggio andai da lei, la feci avvicinare come sempre e le feci mettere la mano nella tasca dei miei jeans per spegnere la macchinetta.
    Brava la stronza. Era caduta nel tranello. Apri gli occhi di scatto e le bloccai il polso tenendo la sua mano nella mia tasca, doveva capire che non avrebbe mai più dovuto sfiorare la mia radio.
    Feci cadere il registratore a terra, continuava a suonare mentre la dottoressa mi guardava spaventata e sul mio volto un ghigno da psicopatico mi si disegnava.
    Mi misi a sedere e senza dire una sola parola la spinsi sulla poltrona con tale violenza da sentire la sua schiena scricchiolare come un vecchio attrezzo arrugginito.
    Mi supplicava di smetterla eppure ancora non le avevo fatto nulla. Quella bastarda aveva reso la stanza vuota spegnendo la mia radio e adesso avrebbe dovuto pagarla.
    Spinsi il mio ginocchio sul suo ventre e la sentii perdere il respiro mentre cerca di urlare.
    Ridevo e nel frattempo facevo pressione sulla pancia di quella troia e le mie mani si chiusero intorno al suo collo candido. Vedevo i suoi occhi implorare pietà e la cosa mi piaceva, stridolii uscivano da quelle labbra. Muoveva a scatti gambe e braccia. Dio, come stavo godendo in quell'attimo mentre sentivo sotto il mio peso quella donna spegnersi pian piano.
    Chiusi gli occhi e quasi mi persi. Quando mi risvegliai da quell'apnea improvvisa avevo il suo corpo spento sotto di me, la vita l'aveva abbandonata e io ne ero stato l'artefice. Non feci altro che far scendere il ginocchio dal suo ventre e slegare le mani dalla sua gola, mi voltai e andai a chiudere la porta a chiave.
    Vidi quel corpo spento, su quella poltrona, scomposto e con la gonna leggermente alzata. Mi slacciai la cinta e approfittai di quel cadavere per almeno un'ora intera fino a quando non si spense l'eccitazione di quello che avevo fatto e si fecero strada quelle assurde voci del silenzio: "Perchè lo hai fatto?Sei contento? Ti senti realizzato?".

    Era tutta colpa di quella puttana. Doveva aver spento in qualche modo quella macchinetta. Con qualche calcio forse? Non lo so. Non mi ero accorto di nulla. Rimisi il mio uccello nei pantaloni e raccolsi la mia amata radiolina, l'accesi e tutto quel silenzio si spense. Era ritornata la normalità, ma si era spenta l'eccitazione. Dannazione.
    Aprii la porta e me ne andai come se nulla fosse successo lasciando il cadavere al prossimo paziente che sarebbe arrivato. Pensai che fosse solo l'inizio della mia lunga vita.
    Sono arrivato a quarantadue anni e ancora oggi cammino per strada con la mia radiolina nella tasca a tutto volume e la gente mi guarda mentre passo facendo facce che a volte mi fanno scappare un piccolo sorriso e altre mi fanno girare le palle. Ma alla fine mi fanno pena, loro vivono diversamente da me, facendosi logorare quel piccolo cervello da quei silenzi assurdi.

    Erano le 10 del mattino, ero già in un atroce ritardo per il mio schifoso lavoro da quattro spiccioli, ma poco mi fregava. Quel cinese era ormai abituato ai miei orari. Se non mi voleva poteva sbattermi fuori, io gli avrei fatto causa, l'avrei persa sicuramente ma mi sarei divertito almeno un pò in quella monotona vita.
    Le strade di quella classica megalopoli americana inutile mi sembravano tutte uguali, camminavo per abitudine sempre sullo stesso marciapiede, non facevo caso nemmeno più alle vetrine dei negozi che lo popolavano. Sentivo solo le onde sonore che fuoriuscivano clandestine dalla mia tasca del jeans. Mancavano pochi minuti a quello squallido edificio dove mi sarei rinchiuso per il resto delle mie dodici ore giornaliere. Senza accorgemene ero dentro.
    La mia radio fece voltare tutti i miei colleghi.

    Sapete, loro non mi rivolgono la parola. Hanno...paura? Non vi so dire esattamente cosa provano ma sulle loro facce vedo tante sensazioni diverse: paura, ribrezzo, curiosità...eppure nessuno di loro si è mai permesso di avvicinarsi a chiedermi di abbassare. Perchè? E allora io provoco: prima di entrare in quelle quattro mura bianche come se fosse un ospedale, giro la valvolina del volume della radiolina e alzo così che il mio arrivo sia annunciato prima ancora di aprire la porta. Rido ed entro. Tutti gli sguardi cadono su di me. Che cazzo guardate?
    E così anche oggi è iniziata una giornata lavorativa. Vediamo un pò chi mandare a fanculo di prima mattina. La signora del caffè? No, poi dovrei alzarmi io a prendere quella tazza che nessuno ha mai lavato e versare quella bevanda nera che mi tiene sveglio. Mi guardo intorno mentre mi siedo, quel mio sorriso strano stampato sul volto.
    Molti hanno detto che sembra il sorriso di Norman Bates. Possibile? Eppure quando osservo il mio sorriso riflesso nel vetro non vedo altro che la noia sul mio volto. Strana la gente.
    Stavo per sedermi quando alle mie spalle sentii dei passi avvicinarsi. Sapevo già chi stesse arrivando. Era lui. Quel giallo schifoso che puzza di vecchio era alle mie spalle, pronto come tutte le mattine, a fare quella ramanzina di mezz'ora sul mio orario, sul volume della mia radio...
    Posai la macchinetta sulla mia scrivania, disordinata, e mi voltai con in volto un'espressione stufa – o almeno credo, non mi ero specchiato nel vetro della finestra come sempre avevo l'abitudine di fare – un'aria di sfida la mia.
    Ero pronto alla ramanizina quotidiana, che puntualmente non calcolavo, preso com'ero a concentrarmi sulle onde radio. Ma quella mattina, evidentemente, il cinesino era girato di coglioni. Non mi disse nulla, prese la mia radiolina – improvvisamente – e la schiacciò sotto i piedi fino a quando i meccanismi interni non fuoriuscirono da quella macchinetta e ancora ci saltò sopra fino a ridurre in poltiglia anche quelli e pian piano la voce si spense fino a lasciar posto al silenzio.

    Non so bene cosa scattò nel mio cervello. Passarono pochi minuti e ricordo solo rumori e urla. Ah sì, ricordo anche di aver rovesciato la mia scrivania seppellendo una delle mie colleghe sotto di essa. Non so cosa si sia fatta. Non importava molto. Mi ritrovai in strada e ogni persona che mi passava accanto urtava i miei nervi. Spintonavo gente, camminavo alla rinfusa. Non ricordo perfettamente cosa mi accadeva intorno, tutto era solo nebbia. Mi ritrovai a casa, non so come. Mi guardai allo specchio e vidi il mio viso pieno di graffi. Cos'era accaduto? Gli occhi erano venati di sangue. La vena sulla tempia era gonfia e viola.
    Cosa mi stava succedendo?
    Non riuscivo a comprendere. Dovevo fermarmi e riflettere. Cercai la bottiglia di Borghetti, uno di quei liquori al caffè italiano, nella mensola di quel tugurio in cui vivevo. Eccolo. Feci cadere qualcosa, sentii i vetri sfrantumarsi sul terreno ma non era un problema che mi dovevo porre in quel momento. Mi lasciai cadere sulla poltrona logora e puzzolente, una nebbia di polvere si alzò non appena mi ci buttai sopra. Lanciai il tappo della bottiglia di borghetti e presi a bere come mai avevo fatto.

    Cosa dovevo fare adesso? Sentivo il passo del silenzio avanzare in quella stanza. Stava arrivando me lo sentivo pesare sulle spalle come un macigno atroce.
    Dovevo scappare? Ma dove?
    Mi alzai di scatto e camminai su e giù per quei pochi metri quadri sporchi di quella mia abitazione.
    "Sei contento Ferdy?" mi fermai di colpo. Era arrivato. Puntuale. "Adesso non hai nulla per cacciarmi via."
    Basta. Non ne potevo più. Avevo ancora in mano la bottiglia di borghetti. La scagliai contro il muro che avevo di fronte.
    O era una finestra?
    Troppi vetri per una bottiglia, si sparsero sul pavimento lercio.
    "Sì. Continua così Ferdy. Cosa pensi di ottenere? Adesso non ti lascerò mai solo." cos'era una minaccia?
    Maledizione. Non riuscivo a comprendere dov'ero. "Hai visto? Hai mandato a puttane anche il tuo lavoro. Adesso, cosa ne farai della tua vita? Non hai una moglie, non hai un lavoro e tra poco non potrai pagare nemmeno l'affitto di questa topaia. Morirai qui dentro, tra il tuo piscio e la tua sporcizia e verrai gettato in una fossa comune."
    Quella voce era assillante. Mi martellava il cervello con lo stesso ritmo e stava perforando tutto. Mi lasciai cadere, disperato, sulla sedia. Alzai gli occhi al soffitto.
    Macchie di muffa. Zanzare. Moscerini. C'era di tutto. Ma non una via di fuga. La ventola del lampadario aveva iniziato a girare e io seguivo quel movimento sperando di incantarmi e non sentire più quella voce assillante.
    "Non puoi sfuggire. Dovrai vivere la tua vita così. Ascoltando tutto quello che ho da dirti." era uno strazio. Strinsi gli occhi. Li sentivo bruciare. Li riapri e seguii con lo sguardo le tubature.
    "Ahahaha..." rideva di me il silenzio. Dov'era? Perchè non lo vedevo? E se mi avesse ucciso?
    Non avrei mai potuto lasciare che la mia vita fosse distrutta da quell'entità che non aveva nemmeno le palle per farsi vedere, per uscire allo scoperto.
    Il martello pneumatico continuava.
    Il mio cervello, fino a quando avrebbe retto?
    Mille domande. Mille parole. Quel silenzio mi stava logorando dall'interno.
    Sentii una scossa nel cervello. Qualcosa che io vidi più come una via d'uscita mentre ancora seguivo il volteggiare di quella ventola che non dava nemmeno un pò d'aria. Anzi, si soffocava in quella stanza.
    Balzai in piedi e guardai le tubature.
    Avrei potuto farcela. Era l'unica via d'uscita per evitare di morire martire di quel nemico.
    Slacciai la cinta dei miei pantaloni e salii sul tavolo da quattro soldi che già scricchiolava sotto il mio peso.
    Quel mobile non aveva retto nemmeno quando avevo portato a casa una – e l'ultima visti i prezzi di quelle bastarde - prostituta e mi ero sfiziato a scoparmela su di esso, figurati adesso.
    Iniziai ad appendere la cintola intorno alla tubatura. Ne feci un cappio e lo strinsi intorno al mio collo mentre ancora il tavolo sembrava chiedere pietà sotto il mio peso.
    Mi accorsi di come mi ero ridotto, senza accorgermene realmente avevo preso a muovermi avanti e indietro su quel mobile che pian piano cedeva.
    Ma era davvero la via giusta? Forse potevo abituarmi a quel silenzio e vivere come una persona normale. Sì. Forse potevo. Dovevo semplicemente scendere da quel tavolo e...
    Improvvisamente il tavolo cedette sotto i miei piedi e io sentii il mio corpo cadere senza toccare il pavimento. La corda intorno al mio collo si strinse.
    "Pur di non ascoltarmi hai fatto di testa tua, Ferdinand."
    Le parole del silenzio erano fredde e pungenti e pian piano andavano dissolvendosi insieme alla visuale di quella casa che non avrei mai più rivisto.
    Avevo fatto il gioco del silenzio.
    E lui aveva vinto.
     
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    Oh... *^*
    Era il periodo di prosa e poesia. Sembra una vita fa...
    Ed oggi, come allora, continua ad ansiarmi piacevolmente.
     
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    Allora ricordi...
     
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